Attivismo ed educazione ambientale

La fine del mondo sta arrivando, mamma, butta la pasta! | Parte Prima

Mirko Vercelli

Su orizzonti e facili consolazioni per salvare il pianeta

Vent’anni fa, il movimento Earth First organizzava una protesta pacifica contro Shell, accusata di essere la società con le emissioni più alte al mondo, di supportare la segregazione razziale in Sud Africa e di fatto di disinteressarsi del tutto degli incommensurabili danni ambientali che arrecava. Una ventina di attivisti, cappucci neri e occhiali da sole con montature da ciclisti, entrarono nel giardino di casa dell’allora amministratore delegato con un grande striscione. Appesero la scritta “assassino” sul tetto della villetta di campagna, fecero un sit-in pacifico, lessero ad alta voce un proclama di responsabilità e dati scientifici da un pizzino col logo del movimento e chiesero che l’amministratore uscisse di casa per parlare direttamente con loro.

Dopo due ore, lui e la moglie erano seduti sul prato con gli attivisti a prendere un caffè.

“Perché non mi avete semplicemente chiesto se fossi in casa?” Fa lui, d’innocenza immacolata.

“Il problema non è lei, ma la Shell.” Ribattono istintivamente paternali gli attivisti.

“Cos’è la Shell se non un insieme di persone come me?” Risponde infine, ingenuo, quasi indifeso, con la pace accomodante negli occhi del megadirettore di Fantozzi e qualcosa si incrina nella sicurezza dei ragazzi. Continua e si giustifica di fronte a loro sciorinando ovvietà da manuale di pubbliche relazioni, quali che nessuno fa ciò che fa per distruggere volontariamente il mondo, ma che ognuno svolge con più o meno passione il proprio lavoro sperando che non serva in futuro a danneggiare qualcosa o qualcuno e nel frattempo spera di portarsi i soldi a casa. Eppure qua c’è tutto, ma non riescono ancora a coglierlo. Non c’è altra alternativa nel sistema. Silenzio sferzato dal vento.

Photo © Eric Miller/World Economic Forum [email protected] Moody-Stuart and Jakaya M. Kikwete

Così che quel pomeriggio Earth First prese un caffè con Mark Moody-Stuart: venti ragazzi di buona volontà e un multi-milionario stanco, entrambi impotenti, senza saper cos’altro dirsi, una volta aver scoperto che l’azienda non è fisica, non è sulla pelle o negli occhi del suo CEO. L’amministratore delegato raccontò loro del suo interesse e impegno personale per la difesa della natura, rispose con altrettanti dati che assolvevano Shell in toto e quasi la incensavano a reale vittima delle circostanze.

Intanto, nello stesso istante, Shell Nigeria bruciava incommensurabili quantità di gas, registrava profitti record, violava gli standard ambientali imposti dai governi e impiccava Ken Saro-Wiwa assieme ad altri otto attivisti che si erano opposti alle pratiche ambientali della corporazione nel delta del Niger.

La patetica morale del siparietto campagnolo.

Un attivista o un dirigente di Shell possono preoccuparsi entrambi per l’ambiente, possono anche investire fondi, varare piccole leggi, ma non c’è salvezza all’interno del sistema. Non c’è spazio di manovra, mediazione, o vittoria che non sia di Pirro. È una questione di stringente praticità dalla quale ci si vorrebbe troppo spesso nascondere: la posta in gioco pretesa dal presente in vece di un futuro per ora invisibile non è di cambiare le fonti energetiche, di responsabilizzarsi individualmente, di multare qualche gigante, ma di attuare la più grande transizione culturale, sociale, filosofica e industriale dai tempi dell’illuminismo. Il nucleare non salverà un sistema basato sulla crescita infinita. Con buona pace dell’Avocato dell’Atomo, le leggi fondamentali della termodinamica ci inchiodano alle nostre prospettive future. È il concetto stesso di crescita a dover venir ristrutturato, nel senso di inserito in una nuova struttura. La decrescita è contronatura e in quanto tale non può essere felice, ma una nuova crescita che vede nell’equilibrio, nella stabilità, nell’uguaglianza, nell’amore e l’ascolto il suo sviluppo, potrebbe essere ciò che serve per il benessere della vita su questo pianeta. Somwata, direbbero i mossi del Burkina Faso, ovvero contemporaneamente sviluppo e aumento di buone relazioni con ogni altro essere vivente.

E per riuscire in questo non c’è ruolo istituzionale, potere, mobilitazione popolare o azione che possano far nulla. Deve prima di tutto germogliare un nuovo sguardo sulle dinamiche di relazione con l’altro, col sé e con il mondo, avvolgendo in un solo campo semantico materialismo e olismo. Bisogna ribaltare proprio quell’Illuminismo che vuole l’uomo al centro di tutto e in comando ad ogni altra specie, unica forma di vita intelligente sulla Terra. Anche perché, alla luce degli scorsi cinquecento anni, l’uomo non difende questo titolo con tanta convinzione. L’errore della visione popolare dell’evoluzionismo è credere che le specie si evolvano per moltiplicarsi. Ogni animale sul pianeta si moltiplica per sopravvivere e non il contrario. Nessuna specie ha avuto un percorso evolutivo che si potesse definir tale senza trovare ordine nell’adattarsi con l’ambiente circostante. Noi adattiamo l’ambiente e la chiamiamo evoluzione, mentre le risorse si esauriscono e le nostre capacità cognitive, fisiche e psichiche si logorano. Come diceva Appino, ci comportiamo esattamente come i parassiti. Ed è dai tempi di Arthur C. Clark che si vede la salvezza dell’umanità nel devastare un nuovo pianeta uguale alla Terra. Ma per restare inchiodati al deserto del reale, l’orizzonte è meno roseo di un fantasy anni ’50. E se è roseo, è per il particolato e le polveri sottili nell’aria. Ribaltando il delirio di Kaczynksi, la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state davvero un disastro per la razza umana.

Eppure, questo cambio di paradigma è una cosa che può accadere solo fuori dal sistema post-capitalista, la nostra personalissima Matrix che rema contro ogni nostra resistenza con l’astrazione: dello spazio, attraverso social networks, deumanizzazione e distruzione del pubblico; del tempo, attraverso lavoro competitivo, cultura del godimento e la lenta cancellazione del futuro.

Si possono spendere parole all’infinito, ma le lancette continuano a correre. Per molto tempo, gli attivisti, inascoltati, han gridato che la fine del mondo era vicina e il sistema tappava le falle nella stiva della nave. Adesso che le crepe iniziano a moltiplicarsi a rotta di collo non si può ignorarle: non possiamo più sperare che la salvezza pioverà (perché già piovere in generale sarebbe un miracolo) grazie a qualche nuova tecnologia, all’azione individuale di qualcuno o per osmosi scrivendo libri tascabili con le copertine viola.

Serve agire subito e molti giovani lo stanno capendo. Per quanto si cerchi di demonizzarle o cooptarle, le piazze parlano chiaro. Quello che sarebbe fatale a questo nuovo humus verde, nello slancio, è peccare di una giusta visione d’insieme e di una pianificazione a lungo termine e farsi, nuovamente, definitivamente, schiacciare dai Golia che difendono il dollaro.

Certo, servirà localizzare e collettivizzare; coordinarsi; socializzare; pianificare strategie di resistenza e reazione per cambiare il cuore e la mente di ogni persona, come fece l’Illuminismo, in senso inverso; ma si imbocca una strada che non sarà facile. O per riprendere lo spirito valsusino, ch’a sarà düra.

Ma sappiamo tutti che è l’unica percorribile.

Primi passi per attivisti già in cammino

Non esiste un pianeta B, si legge sui cartelli nelle piazze. Portando i nodi al pettine, la questione che dobbiamo affrontare subito è che forse gli attivisti non hanno nemmeno un piano B, nel caso in cui questi slogan non dovessero funzionare.

L’insostenibile realtà non è che i governi non abbiano fatto niente per l’ambiente in trent’anni, sarebbe ingenuo, per le dinamiche che riassumeremo tra poco, credere il contrario. È scandaloso che i movimenti ambientalisti non abbiano cambiato minimamente il proprio approccio di fronte ai fallimenti di Rio nel 1992, Kyoto nel 1997, o nel 2006 e 2007 con la questione dell’effetto serra, Copenaghen nel 2009 e in tempi più recenti con la COP17 di Durban, Parigi nel 2015 e la COP26 di Glasgow. Durante questo periodo, gli amministratori delegati delle corporazioni più inquinanti al mondo hanno battuto sul tempo tutti, facendo informazione, spesso, facendola meglio degli attivisti e quando c’era modo, distraendo dai temi ambientali. Ma non basta certo prendere possesso di Fox News per far collassare l’ecosistema senza che nessuno alzi un dito. L’esempio del gruppo editoriale News Corp però è molto interessante. Si è passato da un lungo periodo di negazione totale del cambiamento climatico, per arrivare ad una specie di relegazione al “futuro”. La corporazione ha fatto le sue ricerche, usando i migliori stratagemmi della comunicazione: ha raccontato una storia globale attraverso visi locali, ha visualizzato gli impatti climatici con le migliori grafiche firmate missionzero2050 e infine si è concentrata sul fornire soluzioni e non spaventare. In qualche anno si è passati dal descrivere la decarbonizzazione da inutile e sconveniente per il mercato a idolatrarla come un nuovo potenziale boom economico.

E non è certo successo perché Rupert Murdoch ha ricevuto la newsletter di qualche movimento ambientalista. C’è qualcosa di più sottile del greenwashing . Certo, le corporazioni puntano a dare una svolta green, almeno percepita, al capitalismo, per restare sul carro dei vincitori, loro che fino al giorno prima, scientemente, devastavano il pianeta. Continuare a fare profitto e anzi aumentarli con le lodi e la soddisfazione popolare, un colpo di mano da manuale. Allo stesso modo, spostare indefinitamente la scadenza per la salvezza del pianeta. Il 2050. Un futuro che pare così prossimo e allo stesso tempo ineffabile e invisibile. Non serve davvero fare nulla, basta promettere. Così il capitale può proporre alternative green e al contempo continuare con le produzioni più inquinanti, perché la deadline è ancora lontana. E questo gioca con una percezione diffusa nel nostro tempo e descritta dai filosofi come eterno presente, nel quale viviamo con l’idea di aver superato il futuro, di non poterne più immaginare altri e di essere assediati dal passato, per cui l’altro ieri è il 2001, come il 2009, come il 2014. In questo stallo, questa zona grigia, ogni azione è impossibile.

Quello che possiedono davvero le corporazioni, più dei media, è la nostra ideologia e loro lo sanno bene. Alimentano il sentimento e se ne servono. Questa era il vero sottotesto di Don’t Look Up, passato per una grottesca iperbole sui media e i partiti.

Eppure, nonostante questo, tra le file dei collettivi si continua a professare una specie di funzionalismo magico per cui se le persone avessero accesso democraticamente alle stesse fonti, affidabili, scientifiche, allora la maggioranza delle persone farebbe la scelta giusta. Bisogna informare. E questa singola frase, più la si rilegge, più si impone con le unghie in tutta la sua ironica inconsistenza. Scopre la limitatezza che disattende del tutto il pensare globale, agire locale (che non è uno slogan, ma una sfida vitale, aggiungerebbe Dudu Morandi). C’è davvero qualcuno che non ha mai sentito parlare di crisi climatica?

In che modo far comprendere a tutti le complesse dinamiche dovrebbe convincerli ad agire?

In che misura si può far accettare il sacrificio a popolazioni disilluse dalla società, dalla politica e dalla vita civile?

Perché scendere in una piazza dovrebbe convincere aziende e governi senza scrupoli che non si sono fatti problemi negli anni passati a ricorrere a todo modo necessario per difendersi, compreso l’omicidio, a tornare sui loro passi anziché reprimere in modi sempre più sottili e subdoli?

E quali sono le azioni di resistenza per farlo?

Piccole dissonanze e grandi problemi

Il primo passo è comprendere che, accordi prima citati alla mano, la politica non darà le risposte che servono, fare richieste, quindi, sarà un inutile spreco di energia. Le risposte dovranno essere messe in mano alla politica dagli attivisti, già pronte e organizzate secondo il parere di filosofi, scienziati e professori.

In qualsiasi accordo passato, compresi gli accordi di Copenaghen, nessun governo ha mai preso obiettivi ambientali veramente vincolanti, pur sotto pressioni popolari fortissime, restando perlopiù libero di ignorare gli impegni presi in vista di future correzioni. Al punto che le cose, negli anni, dopo ogni accordo, sono anche peggiorate, secondo la Banca Mondiale. Quindici anni fa si parlava di non superare l’aumento dei due gradi. Secondo gli analisti, lungo l’attuale traiettoria, anche la soglia dei quattro gradi sarà superata. Questo perché l’attuale politica, di fronte alle corporazioni e al mercato, non può che chinar la testa. Sia che l’onorevole intaschi mazzette, sia che combatta a testa alta nonostante le pressioni, gli attuali governi non hanno potere. Il mercato ha una capacità contrattuale tale da poter minacciare e dettar legge a qualsiasi superpotenza.

Il sofferente gap cognitivo da colmare sarà allora capire che non esistono governi amici, non esistono partiti solidali alla causa, anche se sulla carta possono sembrarlo, non esistono corporazioni etiche, non esistono leggi utili alla salvezza del pianeta, se non all’interno di un piano di ampio respiro e cambio di paradigma.

L’emancipazione passerà inoltre dal separare e comprendere le azioni che condividiamo dai fini e gli interessi che muovono chi le compie. Parafrasando Rosi, la verità è sempre rivoluzionaria. Serve che il braccio di ferro contro i grandi interessi internazionali che fanno stagnare l’azione sia coordinato e attivo. E per riuscirci deve far leva sull’unica cosa che può piegare le aziende a seguire le leggi. Minacciarne e minarne il profitto dietro monitoraggio popolare. Se le aziende perdono soldi a seguire le leggi, semplicemente non le seguono. Ma se li perdono a non seguirli, saranno costrette. Solo allora si potrà fare un lavoro legislativo vero e questo lavoro sarà teso a decostruirne il potere per far si che non si creino più colossi in grado di levarsi al di sopra del volere dei cittadini e del benessere del pianeta.

Certo, i minimi termini qui semplificati non devono trarre in inganno: è una sfida titanica. Tra gli attivisti è facile illudersi che un passo rappresenti un cammino o porre l’orizzonte della vittoria molto più vicino di quanto non lo sia in realtà.

C’è che dice che basti il nucleare, chi le rinnovabili. C’è chi vorrebbe leggerci una specie di trucco segreto nel dogma del 3,5% di Chenoweth e Stephan, abusato e distorto da chi invece con entusiasmo professa l’importanza dei dati scientifici: alcuni di noi sostengono che una volta mobilitato pacificamente almeno il 3,5% di una popolazione il successo di ogni lotta sia garantito. Eppure questo dato non esiste: l’attivismo per l’ambiente in uno stato liberale come l’Italia non è come un insurrezione popolare per sovvertire una dittatura in Egitto. Il problema del rinfrancarsi con dati piegati a nostro favore è in primis quello di modellare le strategie in modi che si possono rivelare inutili per il cambiamento. Non c’è prova che la regola di sopra sia rilevante per le campagne di un movimento ambientalista. Limitare l’abuso delle ricerche nella progettazione delle strategie e monitorare attivamente il processo sarà un altro tassello importante. L’altra nota a corollario di questa osservazione è che non si deve cadere nella facile retorica della rivoluzione autarchica. Servirà una rete dal respiro internazionalista come diversi movimenti stanno giustamente creando perché per le attuali dinamiche di scambio e relazione non c’è vittoria se l’unione dei popoli non esula dai confini delle nazioni. Non esiste l’ambientalismo in un solo Paese.

Si può credere che sia utopico un piano transnazionale di cambiamento di paradigma, che non esistano soluzioni di pratiche o tecnologie, che ci sia un’incapacità intrinseca delle masse ad organizzarsi o che ormai sia troppo tardi e siamo condannati.

Niente di tutto questo è vero. In passato, se ce n’è stato l’interesse politico, si sono organizzate rapidamente e senza problemi istituzioni e piani di lavoro transnazionali, come il WTO per il mercato, che ha dettato modalità di produzione e scambio in tutto il mondo e lo fa tutt’ora. Se la pressione sulle corporazioni è tale da consentire ai governi di lavorare per i cittadini, allora ci potrà essere cooperazione anche fra paesi distanti, a dispetto dello scacco che la competizione vorrebbe.

Le tecnologie per questa transizione, poi, esistono, non solo abbiamo gli strumenti tecnici per liberarci dai combustibili fossili, ma anche un’infinità di piccole sacche dove questi stili di vita sono stati testati con successo: ciò che manca è una transizione su vasta scala. Allora bisogna derivarne che ci sia un’incapacità intrinseca di volontà nelle masse?

Ancora, la storia smentisce completamente questa tesi, dalle rivoluzioni popolari a tutti i grandi sacrifici sociali, come i razionamenti e gli orti familiari durante le due grandi guerre. Durante la seconda vennero cancellati gli spostamenti in auto in Inghilterra, in quegli anni l’uso dei mezzi pubblici salì del 87% negli USA e del 95% in Canada. Gli orti di guerra, coltivati da venti milioni di famiglie, arrivarono a produrre il 42% della verdura fresca consumata. Ed è interessante notare come già questi due semplici elementi riducano drasticamente le emissioni carboniche.

Non mi piace perché è troppo politico

Quello che fanno molti movimenti ambientalisti è di sorvolare a piè pari sulle questioni ideologiche, facendo il bravo gioco capitalista, dello sbandierare il “non essere politici” come un surplus qualitativo, tipo l’assenza di olio di palma nelle merendine del discount. Non comprendere l’immanenza dell’ideologia in quanto realtà che permea tutto ciò che esiste porta come conseguenza tre scenari contingenti:

  • non comprendere il sistema in cui si è e di conseguenza non saper come muoversi;
  • rendere vane le proprie azioni;
  • rinvigorire il sistema attuale facendolo sembrare naturale e insovvertibile.

C’è un’ideologia chiara che bisogna decostruire per poterla abbattere ed è quella che vuole che non esista alternativa. Che questo sia l’unico mondo possibile. Che la politica, non i politici, abbiano fallito, portando a una specie di dittatura di centro, nella quale non sembra accadere veramente niente, come spiegato in questo articolo, Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra. Il trabocchetto moderato:

Che non esista più destra o sinistra, ma solo la naturalezza del mercato, unico fondamento indiscutibile. Atrofizza l’azione, la fantasia, la capacità di ragionare in grande e di cogliere il problema, come vedremo in futuro. Perché come dice Negri, non c’è alternativa al mondo, ma nel mondo.

Non basterà seguire acriticamente gli scienziati per salvare il pianeta, perché l’organizzazione e la declinazione delle risposte dev’essere politica e ideologica allo stesso modo. Si può puntare alla sostenibilità della produzione e per questo serve la tecnica. Ma si preferisce un sistema piramidale nella quale pochi godono del lavoro e la miseria di molti o uno orizzontale nella quale il benessere e la ricchezza sono ridistribuiti equamente? Questa risposta può essere solo ideologica. Altrimenti, si rischia di abbellire il capitalismo e basta.

Ed è nell’ideologia, non certo nella disinformazione, il motivo per cui molti non agiscono. Non

  • che le aziende finora hanno inquinato perché non sapevano. Non è che i governi li hanno lasciati fare perché non sapevano. Non è che le persone non fanno nulla perché non sanno. Certo, la metà delle persone è ancora convinta che il surriscaldamento globale non esista, ma questo è dovuto ad una gabbia ideologica in cui sono intrappolate le persone: non può succedere nulla e il futuro non esiste. Traslando la frase di Zizek, è impossibile anche immaginare la fine del mondo, se questa dovesse comportare la fine del capitalismo. E questo
  • è in parte vero anche per gli attivisti stessi. Serve scardinare l’eterno presente e la nostalgia del passato per immaginare il futuro, come vedremo più avanti. Serve agire collettivamente. Bisognerà quindi far propria la coscienza che ogni battaglia per un mondo migliore è collegata. L’ambientalismo senza rispetto delle risorse è Illuminismo, senza inclusione è eco-fascismo, senza lotta di classe è giardinaggio. Comprendere questo non solo permetterà di far fronte comune e di lavorare, ognuno nel suo campo, nella stessa direzione, ma anche di far comprendere alle persone che le condizioni di miseria in cui versa lo stato sociale, la precarietà del lavoro, delle relazioni sociali e della sfera pubblica sono il risultato dell’attuale sistema e che la strada per risolvere la cosa passa dall’ambientalismo. 

C’è un mondo fuori dalla cornice

Il futuro, come vedremo fra poco, per molti nemmeno esiste perché sono impegnati a sopravvivere nel presente. La sostenibilità è qualcosa di lontano e ineffabile nel panorama stesso del cognitivo, perché le popolazioni sono impegnate quotidianamente a pensare ad avere il cibo e la corrente con cui scaldare la propria casa, come ricorda l’attivista Dimitra Spatharidou.

Compito degli attivisti non sarà quindi quello di predicare futuri distopici alla Beksinski per spaventare il gregge come un Johann Tetzell del partito dei verdi, ma far comprendere nelle narrazioni ciò che sta già accadendo ora all’ambiente e tracciare solchi tra il carovita quotidiano e l’estrazione di petrolio nel nord Africa, tra la scarsità di microchip e le miniere di coltan in Congo e poi riempire questi spazi di esempi di lotta e pratiche, mostrare come si può cambiare le nostre economie verso qualcosa di più equo e orizzontale.

Dimostrare per esempio come l’energia rinnovabile controllata dalle comunità possa essere più conveniente delle alternative più inquinanti, di come possa persino costituire una fonte di reddito quando viene reimmessa nella rete. Il punto focale nelle narrative non sarà quello di salvare il pangolino asiatico, onde evitare di creare dinamiche stile mors tua vita mea, né salvare l’uomo per evitare che questo antropocentrismo replichi gli stessi errori in futuro, ma comprendere come la vita del pangolino sia collegata a quella dell’uomo e solo col benessere di entrambi si può vivere. In definitiva si tratta di dare alle persone, nella difesa per l’ambiente, gli strumenti e le possibilità per costruirsi una vita migliore, cosa che il capitalismo non fa. Creare legami e contesto è uno dei punti cardine.

Per molti ambientalisti conta soltanto il “problema più grande”, spesso accompagnato da temi che diventano così strumenti sociali come l’intersezionalità o il transfemminismo. Sembra che se non salviamo prima il pianeta, non ha senso occuparsi di qualsiasi altro tema. Questo approccio non solo fa passare in secondo piano tematiche come le guerre, lo sfruttamento del lavoro, lo smantellamento del welfare o i diritti delle donne, ma crea anche una percezione da utopia assolutista che può essere facilmente attaccata anche da sinistra in quanto “cerca di fregare distogliendo l’attenzione da tematiche e problemi seri di tutti i giorni”. Niente di tutto questo.

La crisi ambientale va concepita ampiamente, non è un intralcio né una distrazione, ma aggiunge ad ogni lotta sociale un urgenza esistenziale inderogabile. L’ambientalismo è un’occasione per qualsiasi movimento, un’opportunità. Come detto dagli attivisti di Occupy Wall Street , “non occorre diventare attivisti del clima, ogni attivista è già un’attivista del clima. Non c’è bisogno di un movimento incentrato sul clima, quanto piuttosto di coglierne il momento climatico.”

Questa necessità apre la possibilità a qualcosa che dalla svolta della Bolognina, è sempre sembrato impossibile: far fronte unico . Non piccole proteste, articoli sui blog o scioperi circoscritti, ma piattaforme nelle quali far aderire intellettuali, professori, sigle, sindacati e movimenti. Non far diventare la causa appartenente ad un movimento, ma i movimenti appartenenti alla causa. La dura realtà impone un piano, un calendario, attenzione agli obiettivi: tutte cose che ad oggi mancano alla maggior parte dei movimenti ambientalisti.

Grazie agli attivisti temi che una volta erano anche solo impensabili ora sono all’ordine del giorno. Ma serve organizzare la resistenza perché informare ed attivarsi non basterà. Servirà un’offensiva non-violenta di forza pari a quella violenta quotidianamente mossa nei nostri confronti, finché i colossi non verranno smantellati e dopo si potrà procedere alla riprogrammazione della struttura stessa della nostra società.

L’insostenibilità scientifica del capitalismo è strettamente collegata alle produzioni nelle tax-free zone, ai lavori precari dell’occidente e allo schiavismo dallo Sri Lanka a El Salvador, al nichilismo dei social media, alla violenza neuronale del marketing, alla devastazione ambientale, alla competizione e odio tra pari.

Serve un cambiamento di mentalità filosofico-politico su ciò che vogliamo, serve la teoria su come prenderlo e serve l’azione.

Saranno solo queste tra fasi a renderlo possibile.

Nessuna in più, nessuna in meno od ogni sforzo si dimostrerà inutile.

United we stand, divided we fall

Il clima offre una narrativa onnicomprensiva potente come mai prima. L’alternativa non è il protrarsi a tempo indefinito del capitalismo, ma la fine del mondo. Socialismo o barbarie riemerge con la forza di una profezia beffarda. Questo è il motivo per cui le destre si stanno impegnando a smentire categoricamente la crisi climatica, non solo per profitto, ma anche per impedire un nuovo fronte unico che mostri la violenza del sistema e potrebbe fare molti più danni di imporre bottiglie biodegradabili. Non a caso il Movimento per la Giustizia Ambientale ha fatto suo lo slogan “System Change, not Climate Change”. L’ambivalenza sibillina ha la sua forza nel dire: se non cambia il sistema, il clima non deve cambiare, né in meglio, né in peggio, perché a seconda dei casi: si salverà il capitalismo e si condannerà l’umanità; si condannerà il sistema assieme all’umanità.

Per concludere quest’introduzione, non deve stupire che nessun movimento per la tutela del clima si sia rivelato al contempo duraturo ed effettivo, dove manca un appoggio che solo l’unione può dare. Non si può pensare, nonostante le divergenze, di creare un movimento esclusivamente ambientalista che ambisca a diventare egemonico e totalizzante.

Di fronte a ogni grande crisi politica ed economica i movimenti si tengono a debita distanza dalla frustrazione di massa, o meglio cercano di veicolarla verso l’attivismo letterale: chiedere tasse, fondi per l’ambiente. Ma questa cosa non fa che fare appassire eventuali proseliti. Gli attivisti passano da alienati dal buon cuore che non riescono proprio a sodalizzare con i problemi delle persone. E questa è solo la punta dell’iceberg. L’unico che nel frattempo, non si sta sciogliendo.

Un altro mondo è ancora possibile

L’articolo apriva con gli inizi del 2000 perché è da lì che si deve partire se si vuole fare un’analisi seria delle strategie e delle metodologie da adottare. Ora che la storia richiede agli attivisti di riprendere in mano il cambiamento bisogna necessariamente chiedersi cosa sbagliò il movimento no-global, cosa sbagliarono gli attivisti di tutto il mondo all’epoca, quando il nemico era chiaro, quando le energie e la teoria erano alla portata di tutti, quando Naomi Klein era nello zaino di ogni studente, i Rage Against The Machine suonavano dalle autoradio, i cinema proiettavano Michael Moore e IndyMedia organizzava una rete cyber-punk e globale.

Bisogna quindi fatalmente avere il coraggio di chiedersi: perché fallimmo allora? Come siamo cambiati, noi, oggi? Com’è cambiato il sistema? Ma soprattutto, alla luce di tutto ciò, cosa possiamo fare?

L’ultima volta che ne abbiamo parlato era troppo tardi.


Continua nella seconda parte

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