Altreconomia

Altreconomia, altrecologia (digitale)

Cinzia Picchioni

Recensione «allargata» di Ecologia digitale, di vari autori, pubblicato da altreconomia, Milano, maggio 2022

E parliamo di nonviolenza?

Non ho un profilo Twitter, né Facebook, né Instagram e non ho mai voluto averne uno; sentivo puzza di bruciato fin dagli esordi, ma non avevo dati né informazioni per motivare il mio disappunto… ora invece ce li ho, e li condivido.

I social network sarebbero mezzi per scambiarsi messaggi, foto, filmati e sembrano «spazi liberi orientati alla comunicazione sociale, ma in realtà sono spazi commerciali orientati al profitto», [Ecologia digitale, p. 119; e d’ora in avanti tutti i numeri di pagina indicati si riferiscono allo stesso titolo].

Come si fa a generare profitto, dite? Vendendo le informazioni sugli utenti e vendendo gli spazi pubblicitari relativi; vendendo perfino i discorsi d’odio, tollerati perché l’odio genera attenzione e quindi genera «visibilità ai contenuti pubblicitari che fanno da contorno anche ai litigi […] tra il fascista e l’antifascista, tra il nuclearista e l’ecologista, tra il milanista e l’interista, [tutti] manipolati per essere al servizio… di un capitalista», p. 119.

Internet democratico?

Internet è democratico perché permette a strati più ampi di persone di raggiungere il sapere… quest’affermazione è obsoleta, da quando in molti si sono accorti delle profonde ingiustizie di un sistema digitale che è dominato in realtà da poche multinazionali (The Big Tech, un po’ come «le sette sorelle» multinazionali); quindi, di nuovo, il potere nelle mani di pochi per opprimere i molti: il web è anche strumento in mano ai governi per tracciare, sorvegliare, indirizzare, plasmare le opinioni di milioni di utenti della rete. Esempi di scandali (Capital Hill?) sono sotto gli occhi di tutti. Altro che «libero pensiero», altro che «sapere per tutti»… il pensiero è guidato e il sapere monopolizzato comunque.

Smettiamola anche con la ri-trita affermazione «Su Internet c’è tutto», perché non è vera. Andrebbe riscritta così: Su Internet c’è tutto… quello che qualcuno – umano, mica divino – ci ha messo dentro, ci ha caricato, ha scelto e deciso di pubblicare. E se le intenzioni non erano buone?

«Una visione più equilibrata tra cyber-ottimismo e cyber-pessimismo riconosce certamente l’importanza delle tecnologie digitali ma non la esagera né dimentica i suoi lati oscuri. Inoltre, si deve sempre tenere in considerazione il ruolo delle scelte umane e del contesto sociale e culturale in cui la tecnologia opera», p. 129

A proposito di lati oscuri

Nel libro tutta la Parte 2 è dedicata a Il lato oscuro del digitale. Un pugno nello stomaco. Scopriamo l’enorme impatto che la cosiddetta «infrastruttura digitale». Familiarizzare con i termini è più importante di quel che sembra.

Con infrastruttura digitale si intende l’insieme di risorse fisiche che calcolano, archiviano e trasmettono i famosi data (cioè i dati utilizzati dalle famose applicazioni: servizi delle banche e della pubblica amministrazione, video-conferenze, streaming di video e musica; la navigazione stessa). Per tutto questo servono reti di comunicazione e centri di calcolo.

«Ad oggi sono circa 8mila i centri di calcolo ad accogliere quasi 70 milioni di server collegati tra loro tramite […] più di un miliardo di modem, 10 milioni di antenne radio e circa 200 milioni di dispositivi […] senza dimenticare i 4 miliardi di chilometri di fibra ottica […] quasi 40 miliardi di terminali di cui quasi 4 miliardi sono telefoni e smartphone, 3 miliardi di schermi, televisori e proiettori e addirittura 19 miliardi di dispositivi connessi come orologi, altoparlanti, luci, termostati, a cui si aggiungono miliardi di accessori, come chiavette usb, webcam, mouse o tastiere», p. 38.

Ho mal di testa. Continuiamo? Come pensiamo che funzioni tutta ‘sta roba, con la polvere di Trilly? No. Ciascun elemento richiede «ingenti risorse naturali, energia, acqua e lavoro in primis per essere fabbricato; e poi un dispendio di energia e lavoro durante il suo uso, fino al momento in cui il dispositivo viene dismesso e generalmente finisce in discarica (più dell’80% secondo l’E-Waste Monitor 2020):

«[…] il mondo digitale è quindi quanto di più “materiale” si possa immaginare. Non può fare a meno di minerali, metalli e terre rare che vengono estratti, fusi e trasformati in componenti elettroniche; materie plastiche sintetizzate dagli idrocarburi e stampate; macchinari pesanti e di precisione per la fabbricazione e l’assemblaggio; container, navi e camion per il trasporto», pp. 37-38.

E tutto continua e continua come le onde sulla superficie di uno stagno dopo averci buttato dentro una pietra! Non nascondiamo la nostra mano, e pensiamo che ovviamente l’impatto dell’infrastruttura digitale sull’ambiente, la società e l’economia è enorme. E noi ne siamo responsabili con ogni «innocente» click. Sì, anche questo articolo, lo so! È un cortocircuito, perché lo scrivo per informare dell’impatto che avrà!!!

Ma allora siamo spacciati comunque…

Come si fa dite? Leggendo le proposte di soluzioni e alternative contenute in questo prezioso libro, scritto da alcune menti che si sono poste il problema proprio come stiamo facendo noi in questo momento. Ognuno degli autori ha dato un contributo, secondo i propri talenti, e ciascuno di noi può «scegliere» da dove cominciare, secondo le possibilità. Per esempio leggendo questo Manifesto, tratto (e tradotto) da Sustainable Web Manifesto, nel libro a p. 142, e chiedendoci se il web che usiamo è così:

«Manifesto del web sostenibile

Abbiamo bisogno di un internet sostenibile. […] Se internet fosse un paese, sarebbe il settimo più grande inquinatore del mondo […] Se abbracciamo la sostenibilità nel nostro lavoro, possiamo creare un web che sia buono per le persone e per il pianeta.

1. Pulito
I servizi che forniamo e i servizi che usiamo saranno alimentati da energia rinnovabile.

2. Efficiente
I prodotti e i servizi che forniamo utilizzeranno la minor quantità possibile di energia e di risorse materiali.

3. Aperto
I prodotti e i servizi che forniamo saranno accessibili, permetteranno lo scambio aperto di informazioni e consentiranno agli utenti di controllare i loro dati.

4. Onesto
I prodotti e i servizi che forniamo non inganneranno o sfrutteranno gli utenti nel loro design o contenuto.

5. Rigenerativo
I prodotti e i servizi che forniamo sosterranno un’economia che sostiene le persone e il pianeta.

6. Resiliente
I prodotti e i servizi che forniamo funzioneranno nei tempi e nei luoghi in cui le persone ne abbiano più bisogno».

Per tentare di applicare i 6 Punti elencati nel Manifesto del web sostenibile, possiamo affidarci a chi progetta siti web (ed e-commerce) sostenibili. Per esempio a Treviso esiste l’agenzia digitale Piano D, co-fondata da Nicola Bonotto, che è anche uno degli autori del libro presentato questa settimana. Lui, nel suo contributo – Progettare un web a basso impatto, da p. 134 – ci informa che in 25 anni i siti sono passati da 3000 (nel 1994) a 1.700.000.000 (sì, 1,7 miliardi) nel 2019. Ma non è aumentato solo il numero, bensì anche il peso del sito, misurato in MB (Megabyte): mediamente 0,1 MB nel 2003 a 4 nel 2019; le cause sono più immagini, video e codice inutile o poco ottimizzato. L’aumento di peso della cosiddetta pagina web genera 1) maggior lavoro del server, 2) dei dispositivi di rete (modem, router ecc. e 3) del dispositivo dell’utente «navigante» (smartphone, tablet, personal computer ecc.); tutti portano a un maggior consumo di energia+aumento di emissioni di CO2+maggiore usura dei dispositivi coinvolti.

E-mail inviate, siti web visitati, video e musica in streaming ecc., per funzionare necessitano di antenne, dispositivi di rete, server (e anche sempre di energia elettrica, non dimentichiamolo!).

«La nostra fame di dati è illimitata e crescente e contribuisce significativamente all’inquinamento globale. I dati sono la struttura atomica del mondo digitale», p. 135.

Anche se poi il 90% dei dati che produciamo non li usiamo! Li teniamo chiusi «lì dentro» (al sicuro, crediamo…) senza mai utilizzarli dopo averli raccolti… perché-perché-perché??? Nel libro troviamo un po’ di risposte e un po’ di proposte fattibili, per creare siti sostenibili, chiedendoci se ciò che progettiamo compromette le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni; per trasformare le nostre imprese e aziende e studi professionali e luoghi di lavoro in «Società benefit» che fin dallo Statuto danno importanza a persone-pianeta-profitto (la cosiddetta «triple bottom line»: People, Planet, Profit) per andare verso la CDR (Corporate Digital Responsibility).

Chiudo il paragrafo con la «solita» frase: non è che se non si può fare tutto allora non si fa niente. Mi raccomando. Anche un «piccolo» passo – come decidere di non inviare un’inutile e-mail con scritto «ok» – è importante, soprattutto se immaginiamo di moltiplicarlo, sia che lo compiamo sia che decidiamo di non compierlo!

Il cinema, sempre il cinema!

Come spesso accade il cinema precorre i tempi, e poi io sono un’appassionata cinefila, «malata» di cinema, più che solo appassionata. E in ciò che scrivo cerco di mettere sempre qualche riferimento cinematografico, se lo trovo. Qui non c’è stato bisogno di lavoro; tutto un intero capitolo, di Massimo Acanfora, è intitolato come un film di Ken Loach, Sorry, we missed you, e si sviluppa per poche fulminanti pagine sulle contraddizioni della gig economy1, partendo dalla sinossi della pellicola:

«Non è un caso che il celebrato regista inglese Ken Loach abbia scelto di raccontare il “capitalismo delle piattaforme” e il precariato del XXI secolo nel suo film “Sorry we missed you” (2019), il cui protagonista Ricky (Kris Hitchen) – operaio che ha perso il lavoro in seguito alla crisi del 2008 – per sbarcare il lunario si scapicolla con il suo camion 14 ore al giorno per consegnare le merci ordinate via internet ed è alla mercè dell’app che attraverso computer gli indica la strada e che soprattutto misura senza requie la tempistica delle consegne. Ne segue una sorta di discesa agli inferi a livello professionale, umano e familiare», p. 70.

Io l’ho visto, il film, e mi sono convinta ancora di più – se ce ne fosse bisogno – di non comprare alcunché on-line, di boicottare con tutte le mie forze amazon (e altro di simile), di non ordinare la pizza alle 2 di notte (ma neanche prima!), di non acquistare libri, soprattutto ma non solo, preferendo assolutamente recarmi alla libreria sottocasa che resiste eroicamente… chiediamoci: perché vogliamo avere il libro nelle mani entro 18 ore come promette amazon??? C’è un vero motivo di urgenza? O siamo solo dei malati di acquisto compulsivo?

E la privacy?

All’inizio rispondevo – a chi mi chiedeva come facessi a vivere senza un cellulare (e poi senza facebook, e poi instagram… non finisce mai!) – che non voglio essere trovata da chiunque in qualunque momento. Rispondevo che – come ai bei tempi del galateo, anche telefonico – non voglio essere disturbata mentre sto mangiando, o mentre sto lavorando, o mentre sto guardando un film né al cinema ma neanche a casa, o mentre sto facendo la doccia (e in breve tempo sono stati messi in vendita appositi sacchetti per proteggere il cellulare sotto la doccia; ma dico, siamo impazziti????!!).

Ora sono contenta (purtroppo. Avrei preferito che non ci fossero, questi dati!) di poter aggiungere alle mie risposte anche questi dati, che ricopio integralmente, affinché non perdano alcun effetto agghiacciante tra quelli che hanno prodotto in me mentre li leggevo:

«Le aziende che raccolgono i nostri “metadati” fanno grandi proclami pubblici impegnandosi a garantire protezione, riservatezza e anonimato sui dati, e si limitano a dire che i nostri messaggi vengono protetti nel loro contenuto.

Quello che non viene spiegato è che nelle loro pratiche private i nostri “metadati” rivelano tante informazioni su di noi (a prescindere dal contenuto dei nostri messaggi).

Basta seguire le tracce pubbliche delle attività dei nostri dispositivi, senza violare la segretezza dei nostri messaggi, per sapere se scriviamo nei pressi diuna moschea, una chiesa, una sinagoga o una sede di un’associazione o di un partito politico in certi giorni e ore della settimana, se il nostro telefono si trova nei pressi di uno stadio quando c’è un concerto, se scriviamo a notte fonda o alle prime luci dell’alba, se usiamo per i nostri collegamenti un operatore telefonico che ha una base di utenti “giovanile” (con un’età media più bassa di quella di un altro operatore), se scriviamo su Facebook a persone già note, che sono già state “profilate” in base ai siti web che hanno visitato, agli utenti con cui hanno interagito, ai contenuti su cui hanno messo un “like“ (mi piace).

Ogni cuoricino, ogni approvazione, ogni interazione, ogni lettura sono utilizzati per capire chi siamo, quali sono i nostri gusti, a quali campagne di marketing commerciale o politico possiamo essere più sensibili. Ogni nostra attività in rete, schedata dai social network commerciali, diventa un “datapoint“, un dato puntuale, che viene conservato e aggregato, fino a quando un numero sufficiente di datapoint non consente alla piattaforma che ci ha schedato di “venderci” a un partito politico, ad una azienda o a qualsiasi altra organizzazione interessata a raggiungere persone simili a noi», p. 121.

Cominciamo subito a non buttare!

Appena l’ho saputo ho immediatamente aderito alle Soluzioni InformEtiche, e naturalmente in un libro come questo non poteva mancare un capitolo che racconti questa esperienza reale di recupero, riuso, riparazione, prevenzione dei rifiuti elettronici. Il laboratorio di riparazione è a Torino e ne ho già potuto verificare il funzionamento varie volte – e insieme a me alcune persone che ho «mandato» là e si sono trovate benissimo.

Dunque c’è un luogo, nel centro di Torino, dove si può portare il pc, lo smartphone, il phon o il ferro da stiro… e trovare chi si occuperà di ripararlo – se si può – evitando così di sottostare alla dittatura del «Conviene comprarlo nuovo» e conoscendo invece la politica del «diritto alla riparazione»; il tutto insegnato e diffuso dalla geniale (anche nel nome) associazione Soluzioni InformEtiche, «che si occupa di supportare le community che oltre a fare le cose per bene, vogliono farlo eticamente», p. 149.

Una di queste community è quella degli Artigianelli Digitali, presso il Collegio Artigianelli, un’istituzione fondata da San Leonardo Murialdo a favore dei ragazzi e dei giovani presente a Torino ormai da più di 150 anni. Questa community ha riparato in 5 anni più di 100 oggetti – che così non sono diventati rifiuti (RAEE) – coinvolgendo più di 100 studenti e più di 200 clienti, risparmiando inoltre più di 500 kg di «immondizia digitale» e oltre 14.000 kg di CO2 (come guidare un’automobile per più di 121.000 chilometri.

Non solo CO2

Ora che abbiamo capito che cos’è un data center possiamo occuparci del nostro contributo all’enorme impatto che ha su tutto l’ambiente, su tutte le persone del pianeta (anche su quelle che non usano il data center ma pagano in prima persona le conseguenze del suo impatto!).

Per far funzionare un data center serve energia; e liquidi refrigeranti: «occorre considerare l’impatto delle sostanze utilizzate per il raffreddamento […] e il loro smaltimento […]», p. 57.

Qualsiasi dispositivo in funzione produce calore – come possiamo percepire anche in questo momento: dal pc esce un soffio di calore – anche il processore del cellulare e anche i server. Allora le enormi stanze che li contengono si surriscaldano. L’hardware si danneggerebbe, perciò occorre raffreddare costantemente, proprio come fa la ventola del nostro pc in questo momento. Infine, a proposito di costi pagati da chi un pc nemmeno ce l’ha, i grandi edifici per contenere gli enormi server vengono in genere costruiti su grandi aree lontano dalle città, minacciando comunità locali nonché ecosistemi naturali.

Nel libro non manca la riflessione politica ed economica, con capitoli tipo: Il monopolio digitale. La dittatura del gafam [GAFAM è l’acronimo di: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, NdR]: gigantismo, tasse, pubblicità e cavoli nostri, o Piattaforme digitali e attivismo politico (luci e ombre delle esperienze di e-democracy), o ancora – con proposte operative, giacché vogliamo/dobbiamo continuare a convivere con il digitale! – nuove alternative per un consumo consapevole delle tecnologie digitali: Il «consumo critico» di tecnologie. Le alternative libere e le scelte virtuose, con analisi delle grandi piattaforme e nuove possibilità di scelta: Cubbit, che permette di creare un data center che non ha bisogno di infrastrutture fisiche centralizzate, p. 58, secondo queste intenzioni:

«L’opportunità di trasformare il lato oscuro del digitale in una occasione per preservare il pianeta risiede nella capacità di immaginare nuovi modelli e tecnologie sostenibili, e nella volontà di adottare tali modelli nelle proprie case, aziende o istituzioni», p. 59.

Capito? Immaginare nuovi modelli nelle case e nelle aziende e nelle istituzioni. Ce n’è per tutti! C’è lavoro per tutti! Pronti?

Basta (un) click!

Leggiamo questo invito molte volte vero? Lo «slogan» serve a farci pensare che il digitale sia «semplice», che sia veloce, che «basta un click» per informare molte persone in una volta eccetera. Propongo di considerare le parole da un altro punto di vista: basta un click per innestare tutto quello che abbiamo letto finora; e basta un click (in meno) per ridurlo. «Basta» può essere inteso anche come «basta!», basta con tutti questi click inutili. Sforziamoci di capire quando il click serve davvero». Sì, proprio come la domanda koan della semplicità volontaria: «mi serve davvero?»


Nota

1Treccani dixit: Gig economy «Modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali». NB gig, in inglese, sono i «lavoretti», p. 75.

2 commenti
  1. Giorgio
    Giorgio dice:

    Ciao Cinzia.ho letto e apprezzato il tuo lungo articolo seduto al balcone della mia temporanea casa in montagna, davanti a prati e boschi e cime. Quanto di piu' lontano ci sia dal
    mondo che racconti, ma che mi consente di leggere il tuo articolo anche lontano da casa. Come conciliare tutto? Boh! Comunque ho
    rifiutato anch'io di aderire a Facebook e company, Certamente mi perdo qualcosa ma penso ne valga la pena per tanta tranquillità in più. Giorgio

    Rispondi

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