La nonviolenza come forma di lotta

Enrico Peyretti

La dottrina della nonviolenza – qui partiremo dalla visione di Gandhi – è in continuo divenire. Lo stesso Gandhi non fu un assolutista né un fanatico (la sua dottrina non coincide con il “non uccidere” assoluto) ma un realista. Fu un idealista, ma non nel senso abituale del termine: si definì «un idealista pratico» che voleva tenere strettamente collegati e funzionali l’uno all’altro, gli aspetti della pratica e della teoria. Non fu insomma solo un pacifista, ma un nonviolento: diremmo “il” nonviolento; c’è differenza tra pacifismo e nonviolenza.

Gandhi fu quindi una personalità complessa e forse non completamente coerente, come è naturale in una vita dinamica. Della sua teoria della nonviolenza, che non è sistematica, si possono di isolare alcuni nuclei teorici.

1. Anzitutto: quale nonviolenza? Gandhi fa una distinzione della massima importanza: la nonviolenza del forte, quella del debole e quella del codardo.

(continua…)

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Al di là della retorica sui giovani ai quali la pandemia ha rubato il futuro, la repressione del dissenso studentesco sta assumendo caratteri molto preoccupanti che ricordano le modalità di al-Sisi. Decine di ragazzi tra Torino, Milano e Roma sono indagati per aver manifestato a febbraio. Per molti, tutti giovanissimi e incensurati, sono scattate le misure cautelari, ai domiciliari o addirittura in carcere. Mentre la politica, sia a destra che a sinistra, fa la sfinge: vede, ma non interviene.

 

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