Brevi appunti su nonviolenza e resistenza civile

Massimiliano Fortuna

La nonviolenza non è un pacifismo astratto che esibisce posizioni rigide e valide una volta per tutte senza un confronto incessante con la realtà contingente. Chi dovesse intenderla, o praticarla, in questo modo l’avrebbe già tradita in partenza, finendo per aderire alla figura del «militante» per come la tratteggia Isaiah Berlin: «colui che sa cosa pensare di ogni cosa prima ancora di averci pensato».

È difficile credere che ci si sarebbe potuti liberare da uno come Hitler, ad esempio, senza fare ricorso alle armi e chi in armi lo ha combattuto, compresa la Resistenza italiana naturalmente, ha avuto tutte le giustificazioni per farlo.

Un paio di considerazioni, in linea di massima, vanno però aggiunte. La prima è che occorre lavorare per tempo affinché non si creino condizioni sociali e politiche nelle quali un Hitler possa prendere piede, o perlomeno che questa eventualità sia il più possibile ridotta. Questo è il primo, indispensabile compito dei veri costruttori di pace: il quotidiano, spesso oscuro, impegno per la prevenzione.

A proposito di hitlerismo, quasi tutti gli storici mi paiono ormai concordi nel rilevare come la pace cartaginese imposta alla Germania nel 1919 abbia contribuito a creare uno spirito revanscista che ha aiutato l’ascesa dei nazisti. John Maynard Keynes, il famoso economista, lasciò deluso la delegazione inglese a Versailles della quale faceva parte e pubblicò in quello stesso anno Le conseguenze economiche della pace, che credo si possa considerare uno dei libri indispensabili del Novecento, vi si osservava infatti, con grande lucidità, che i «pesi» imposti alla Germania sarebbero potuti divenire le premesse di un’altra guerra, cosa che purtroppo è accaduta.

Seconda considerazione, è giusto non dimenticare che anche nei confronti di un dittatore violento e spietato come Hitler si sono avuti casi di resistenza civile nonviolenta che hanno funzionato e hanno ottenuto risultati concreti, come in Danimarca o in Norvegia, in merito alla protezione e alla salvezza degli ebrei di quei paesi. Anche da noi accanto a una resistenza in armi c’è stata una resistenza civile, fatta spesso da donne, che non è stata meno importante, o comunque non va trascurata (pagine fondamentali e pionieristiche a questo riguardo sono quelle de La Resistenza taciuta di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina).

Credo si debba dunque partire dalla constatazione che ogni caso finisce per fare storia a sé, non esiste per l’appunto una modalità preconfezionata e a priori: usare le armi in certi contesti è verosimilmente inevitabile, in altri delle alternative nonviolente possono essere praticate, come ci dimostrano alcuni, spesso scarsamente conosciuti, casi storici, non soltanto quello più celebre della resistenza gandhiana in India.

Di sicuro però la resistenza civile tutto è tranne che un pacifismo del «non fare», al contrario, richiede che si metta direttamente in gioco la propria vita – credo che poco si possa capire di Gandhi se non si comprende che in lui la figura del resistente nonviolento è modellata su quella del guerriero. Certo, la resistenza nonviolenta non funziona sempre – anche se più di quanto si immagini –, è complessa da mettere in atto e ha più possibilità di riuscire quando è organizzata e preparata (del resto questo vale allo stesso modo per la resistenza armata), ma è un’alternativa che è giusto prendere in considerazione senza relegarla in partenza e con fastidio nell’ambito delle utopie impraticabili.

Massimiliano Fortuna


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