La parola e le parole

Paola Ginesi

Continuando una tradizione che durava da tempo, pubblichiamo un intervento di Paola Ginesi sul valore delle parole, dal titolo La parola e le parole. Solitamente i testi di Paola Ginesi erano condivisi e firmati anche da Renato Piccini, fondatore della Fondazione Guido Piccini per i diritti dell’uomo, scomparso purtroppo lo scorso novembre. Questo testo – ha spiegato l’autrice – è nato dalla raccolta di appunti e riflessioni condivise in passato con Renato Piccini sulla parola: “un argomento che gli stava molto a cuore, per difendere la ricchezza, necessità e bellezza del parlare anche per rispetto delle persone che leggono (…). Se la verità è garanzia di pace, mai come ora è indispensabile la sua difesa anche attraverso il riscatto della parola”.


La parola e le parole

di Paola Ginesi

La parola e le parole
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«C’è anche il silenzio. Il silenzio è, per definizione, ciò che non si ode. eIl silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo.Il silenzio è la terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la melodia che tace sotto la luce del sole. Cadono su di esso le parole. Tutte le parole. Le parole buone e quelle cattive. Il grano e la zizzania. Però soltanto il grano dà il pane». (José Saramago, Le parole, in Di questo mondo e degli altri, Feltrinelli 2013.)

Ogni parola è un microcosmo e non è mai fine a se stessa, ha in sé un universo che si può cogliere solo se è libera di dire (e forse anche tacere) ciò che contiene, libera di essere presente in ambiti diversi e dirsi in differenti modi.

Non ci sono significati inflessibili, ma c’è una radice di verità che non si può manomettere senza “ferire a morte” le parole.

Le parole si evolvono, alcune tacciono perché non rispondono più al “segno”, altre “passano di moda”… ma oggi non ci si trova dinanzi a cambiamenti di questo tipo. C’è il progetto di usarle come uno dei tanti strumenti del potere, un potere che non riuscendo a sopprimere certe parole ne uccide lo spirito.

Forse uno dei percorsi possibili per scalzare questo sistema-mondo, sempre più contro l’umanità e la natura, è la difesa della parola, la riscoperta del suo senso originale, ripulita da scorie non tanto di secoli quanto di abusi e speculazioni.

Parlare è inserirsi in un percorso che richiede fedeltà al significato originario; la parola è una “convenzione”. Quando viene usata con impunità per finalità estranee alla sua accezione, deve essere riscattata per salvaguardarne la verità di fondo.

Viviamo e cresciamo nell’ambito della parola e siamo in relazione attraverso la parola che crea e risveglia identità e processi di cambiamento.

La nostra essenza di essere umani è strettamente collegata al fatto che parliamo, e parliamo dopo che altri ci hanno parlato. Le parole ci precedono, sono presenti in noi, nella nostra storia fin dall’inizio. Ci svelano una somiglianza con il passato e il presente, sia individuale che comune, quasi uno specchio in cui riconoscerci e farci riconoscere per lasciare un “segno”.

La parola è espressione di una coscienza collettiva, di un sistema eterogeneo ed esprime un’ampia interazione che coinvolge l’intera esistenza nel suo complesso – mente, coscienza, azione, emozione – e permette di interpretare-reinterpretare concetti, simboli, espressioni.

Il pensiero dà forma, struttura la parola che, a sua volta, lo organizza e perfeziona.

Il “dire” risveglia la coscienza e, nel mettersi in relazione con un “tu”, diviene anche autocoscienza, occasione per uscire da se stessi e rientrare in noi più ricchi, più saggi, aperti all’altro e al mondo.

Quanto si “dice”, e poi si “fa”, è risposta a necessità collettive, una conquista della verità che fa prender coscienza di sé attraverso la capacità di riflettere e progettare, di costruire la propria vita, cultura, visione del mondo superando i limiti che la società, e soprattutto i poteri economico-politici, ci mettono dinanzi: la parola perde il suo potenziale in ambienti chiusi, ha bisogno di aria aperta e di molteplici presenze.

L‘ascolto della parola

Alla base della parola detta e ascoltata c’è la disponibilità di interagire nei diversi linguaggi; dire parole, però, non significa saper comunicare, dialogare, intendersi… spesso si parla per far tacere gli altri.

Con il dialogo si innesca un percorso, in cui parlare-ascoltare divengono facce inscindibili di una stessa medaglia; l’ascolto esige attenzione e rispetto di chi parla (e viceversa); il dialogo stimola la capacità di analisi, di critica, di razionalità sui due fronti.

L’ascolto è “eco” della parola detta e, in questo, viene in qualche modo modificata perché inizia ad appartenere ad un’altra persona, suscita reazioni ed emozioni diverse; nell’ascolto ritroviamo qualcosa di noi stessi, scopriamo somiglianze – che rassicurano – e diversità –­ che arricchiscono –.

“Il destino di ogni parola – si afferma – è libertà di dire a voce alta, pubblicamente”; nel trasformare pensiero o emozione in suono acquista la libertà di diffondersi innescando un meccanismo che non si può arrestare, come il sasso lanciato nell’acqua non può impedire di espandersi alle onde provocate dalla sua caduta.

Sta proprio qui la forza, in positivo e in negativo, della parola: una volta pronunciata non si può più tornare indietro.

Sono patetiche le smentite o le accuse di non essere stati compresi, di aver estrapolato un’espressione dal contesto (più raramente le scuse) di politici, intellettuali, personaggi dei più vari ambiti, persone comuni; così come è inutile cancellare dai social parole o immagini una volta diffuse.

Si impara/insegna a parlare, ma cosa si fa per insegnare/imparare ad ascoltare? Oggi, questo magma informe che è divenuto il “comunicare” non è forse dovuto a questo vuoto?

Ognuno porta nella parola il proprio mondo interiore, la propria storia, il suo essere se stesso, come individuo e come parte di una comunità, una presenza peculiare che arricchisce tutti perché la parola contiene una carica di significati e di simboli, trasmette un’esperienza che viene messa in comune.

La vecchia canzone del sangue

Io non succhiai con il latte la lingua spagnola
quando venni al mondo.
La mia lingua nacque tra gli alberi
e ha sapore di terra;
la lingua dei miei nonni è la mia casa.
E se uso questa lingua che non è mia,
lo faccio come chi usa una chiave nuova
e apre un’altra porta ed entra in un altro mondo
dove le parole hanno un’altra voce
e un altro modo di sentire la terra.
Questa lingua è la memoria di un dolore
e la parlo senza paura né vergogna
perché fu comprata
con il sangue dei miei antenati.
In questa nuova lingua
ti mostro i fiori del mio canto,
ti porto il sapore di altre tristezze
e il colore di altre gioie…
Questa lingua è solo un’altra chiave
per cantare il canto vecchio del mio sangue.

Humberto Ak’Bal, poeta indigeno guatemalteco.

Il valore sacro della parola

La parola ha un valore sacro presso popoli distanti geograficamente, con mitologie, storie e visioni del mondo diversissime; alla parola si riconosce la potenza di creare dal nulla quanto esiste.

In un poema accadico è scritto: Quando in alto il cielo non era stato ancora nominato né la terra in basso…

Nella mitologia dell’Antico Egitto i pensieri del creatore divennero gli dei e tutte le cose della terra, gli uomini e il mondo iniziarono ad esistere in virtù della parola del dio che ne pronunciò i nomi ordinando che fossero.

Nel mito biblico della creazione “disse dio: sia la luce, e fu la luce”… le sue parole creano, “dire e fare” sono parte di uno stesso atto che ha inizio con la parola.

Nel Popol Vuh, libro sacro del popolo maya k’iché, si racconta che gli dei creano gli animali e poi gli uomini perché diano vita alla parola e non regni più il silenzio sulla terra.

Per i Maya caquikeles il corazón del cielo disse: “terra”, e apparve dal mare seguita da montagne e alberi e così tutto il resto dicendone il nome.

Per gli aborigeni australiani la creazione risale “al tempo del sogno” quando creature totem gigantesche attraversarono la terra cantando di ciò che incontravano in sogno, animali, piante, specchi d’acqua, rocce… con il loro canto tutti gli elementi furono creati.

Nel Corano: Creatore massimo dei cieli e della terra che quando ha decretato una cosa non fa che dire “sii” ed essa è (2,117).

Il carattere sacro dava alla parola un valore di verità per cui falsità e menzogna erano considerate un tradimento alla comunità e al suo cammino storico.

I glifi dei popoli preispanici del Messico, rappresentano l’atto della comunicazione con una persona seduta e un fiore che esce dalla sua bocca.

Nei simboli della scrittura maya la voce di chi parla viene rappresentata con un segno (simile a un apostrofo capovolto) che esce dalla bocca e si diffonde intorno; in molti casi si muta in uccelli e farfalle perché, ci disse una donna indigena guatemalteca di un villaggio sperduto tra i vulcani de Los Cuchumatanes, si trasforma in “volo” ogni parola nata dalla sapienza della cultura ancestrale, ogni parola che esce dalla bocca di un essere umano si fa vita e speranza. La parola è un segno sacro e anche quando parla parole di tristezza, di dolore, di lotta è sempre volo che parla oggi il passato per creare il futuro.

Anche da noi era (lo è ancora?) considerata “sacra” la parola data, un giuramento da non tradire per nessun motivo, pena l’esclusione morale dalla propria comunità. Essere “uomo di parola” era il segno della dignità di una persona, la stretta di mano era garanzia di lealtà, mancare alla parola data andava oltre la disonestà, era quasi un rinnegare se stessi.

Il peso delle parole

Non minimizziamo il peso delle parole: chi ha il potere ha anche “le parole” e sa usarle bene per i propri fini.

“Non farti mettere le parole in bocca”… è un’espressione usata per spingere a pensare con la propria testa (o per lo meno con la testa di chi rivolge questo invito!), un luogo comune che non mi piace usare, ma rende bene l’idea di chi si lascia condizionare da preconcetti accettati senza porsi un perché, senza un dubbio, senza la minima idea di verificarne l’esattezza o la veridicità.

La parola è espressione del pensiero. Ma spesso si difende la nostra libertà di dire quando in realtà ripetiamo passivamente idee altrui che contano sulla nostra pigrizia, ignoranza, individualismo e che ci esonerano dal prendere posizione.

Più semplifichiamo il linguaggio, più rischiamo di parlare parole non nostre, di cui non comprendiamo bene peso e conseguenze, non frutto del nostro pensiero. La semplificazione attenua, fino ad annullarla, la capacità di giudizio; poche espressioni ripetute all’infinito creano convinzioni e comportamenti, spingono ad azioni di cui non siamo consapevoli.

Si impara a parlare per tutta la vita perché ogni contatto esperienza emozione pensiero aggiunge “parole”; Una ricchezza se colte e acquisite con consapevolezza in un processo di crescita. Ma ci impoveriscono se entrano in noi come eco che replica senza comprendere.

Le parole non sono neutrali. Con esse leggiamo la realtà, instauriamo rapporti o li interrompiamo, ne usciamo informati o disinformati, docili strumenti nelle mani di chi ci usa o protagonisti del nostro tempo; ci si serve di esse in funzione di interessi, spesso estranei ai bisogni della gente, per imporre una visione del mondo, una concezione di società, di Stato, dell’esistenza stessa; sulle parole di un certo tipo di politica, economia, cultura si diffondono alienazione, disuguaglianza, disprezzo, violenza, discriminazione.

Si svuota la capacità di pensare. Ci si sente “originali” proprio quando parliamo “per voce altrui”, di chi ha costruito una visione distorta della realtà, e si finisce per criminalizzare la vittima e assolvere il “carnefice” (non parliamo poi dei mandanti!).

Se conosco le parole, la loro origine e il loro significato, distinguo la menzogna ricoperta da termini come necessità, sicurezza, crescita economica; denuncio la banalità di un certo linguaggio, rifiuto il vocabolario di falsità e convenienza del potere ristampato sulle righe della mia indifferenza, ignoranza, paura, egoismo.

Il parlare spinge ad agire e può cambiare, in bene e in male, la storia e non solo la “grande” storia – gli esempi sono infiniti in tutti i tempi –, ma quella di ogni persona, di ogni gruppo, di ogni popolo.

Ricordiamo l’insistenza di don Milani perché tutti divengano “padroni della parola” intesa come espressione della dignità di ogni donna e di ogni uomo.

Attraverso la deformazione delle parole si giunge ad una “colonizzazione dell’intelligenza” (Julio Cortazar); questa pericolosa contraffazione, attraverso i mezzi tecnici di oggi (e non soltanto i social), tocca direttamente la vita privata, manipola il pensiero individuale, invade il subconscio senza che molti se ne rendano conto.

Fondamentale è, quindi, un linguaggio il più possibile vicino al vero, nel rispetto della realtà o, meglio, “l’onestà verso il reale” per riscattare la lingua della verità.

Parlare deve essere un atto di libertà ed ha una funzione liberatoria, c’è invece un atteggiamento di inibizione nella ricerca ed uso delle parole, un percorso, più o meno cosciente, che inizia ben presto nella vita.

Fin da piccoli, fin dalle prime parole, e forse dai primi suoni, vengono – per il “nostro” bene! – create delle “gabbie linguistiche” che, sin dall’inizio della formazione di un pensiero, soffocano la creatività, ostacolano la ricerca e l’uso di letture diverse, di un differente modo di interpretare la realtà, di esprimersi secondo il proprio mondo interiore.

In nome di regole sociali non scritte viene stabilito ciò che si può dire e come si deve dire… si innesta, così, la necessità di controllarsi per paura di sbagliare o per essere accettati nell’ambiente di cui facciamo – o vorremmo fare – parte.

La “correzione” delle parole, in nome di un adeguamento più o meno cosciente, finisce per impoverire il linguaggio e il pensiero critico… il “socialmente corretto”, al di là dei comportamenti ovvi di convivenza civile, è sempre un freno alla propria personalità e un cammino sicuro verso il conformismo.

Il disordine delle parole

Quando una parola acquista significati contrastanti, quando si usano le stesse lettere per dire cose opposte, il parlare non è più espressione di un’idea e il pensiero rimane confuso da troppe contraddizioni. Bisogna ripulire a fondo il proprio (se possibile anche l’altrui) vocabolario per liberare il significato di ogni parola e ri-scoprire la verità.

Una volta era più semplice… se parlavi di “mercato” tutti sapevano di cosa si trattava, al di là del comperare e vendere, era il luogo dell’incontro, dello stare insieme, dello scambiarsi notizie, un po’ un momento di festa… oggi ha l’aspetto minaccioso di un’entità che sfugge ad ogni controllo e che condiziona ogni angolo della vita privata e collettiva.

Si parla di post-verità, un’espressione che va oltre la falsità, è la distorsione intenzionale della realtà: la parola serve per manipolare coscienze ed emozioni, per condizionare l’opinione pubblica; la menzogna può, a difficoltà, essere denunciata e additata, ma con la post-verità non esiste più la verità, è stata superata, non ha più valore… però, se non esiste più la verità, a cosa serve la parola?

Non esistono “verità parallele”: una parola non può essere usata con significati opposti senza che si innestino pericolosi processi spesso irreversibili. Oggi sembra il regno del potere della superficialità, il significato profondo viene prostituto, le parole proiettano un mondo di “universi paralleli” dove un’espressione indica una cosa e il suo contrario, un fatto reale o falso secondo la convenienza.

Le parole della politica (e non solo) sono scadute in “pubblicità” o in eterne “campagne elettorali” esonerando chi parla (e chi ascolta) da ogni responsabilità: oggi si dice ciò che domani verrà negato senza alcuna conseguenza, sicuri che nessuno ce ne chiederà conto.

Drammaticamente vero, ma contrario all’essenza stessa, alla ragion d’essere della parola è il vecchio proverbio: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; ricordo in tanti muri del Centro America la scritta obras no palabras.

La parola può essere vaccino e malattia; difesa contro il virus dell’ignoranza, della violenza del linguaggio, della distorsione della realtà o germe di diffusione della menzogna senza anticorpi contro questa deriva.

Oggi si parla sempre più e si dice sempre meno, chiusi in stereotipi in cui le parole perdono vitalità e incisività, divengono un luogo comune che non scuote nessuno, usate meccanicamente, diventano retorica e non passione.

L’utilizzo equivoco, ambiguo, falso del linguaggio, il modo di servirsi di concetti di uso comune travolgendone il significato, riducendoli a slogan per i propri fini: “non ci sono alternative”; “per motivi di sicurezza nazionale”; “sacrifici necessari per la crescita del paese e il benessere di tutti i cittadini”; “l’invasione dei migranti”, “la difesa della nostra identità e civiltà” danno vita ad un conformismo permanente che esige un’obbedienza incondizionata… e la vita sociale ne esce frammentata nelle tante piccole isole costruite sulla propria soggettività e paura.

Nella narrazione biblica della torre di Babele si legge che “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn 11,1), gli uomini decidono di costruire una torre altissima per raggiungere il cielo. E dio, offeso dalla loro arroganza, distrugge il progetto “confondendo la loro lingua”; incapaci ormai di capirsi, “di là si disperdono su tutta la terra”.

Ci si riferisce a questo racconto per denunciare la “babele” delle lingue in un mondo che non sembra più in grado di comprendersi, in cui ognuno parla dal chiuso del proprio “pezzetto di terra”.

Ma forse non è questo il significato del mito. Dio non è infastidito dalla presunzione degli uomini, ma deluso della loro limitatezza: non li aveva creati per rinchiudersi in un luogo; con il suo intervento impedisce di arroccarsi in un solo progetto, per quanto ambizioso sia, e li obbliga a inaugurare la ricchezza della diversità che darà alla parola la possibilità di esprimersi e coniugarsi nelle mille parole che racchiudono la pienezza dell’esistenza umana.

Oggi sembra di essere alla prima interpretazione, quasi vivessimo ancora la “punizione” di parlare senza capirsi, di usare parole incomprensibili, colme di equivoci e significati contradittori, parole prostituite alla luce di “passioni tristi”, di vuoti riempiti con la violenza e l’arroganza, di disagio camuffato sotto espressioni senza più senso.

C’è bisogno di testimoni della parola data, detta, vissuta… Tra i tanti che aiutano a comprendere e spingono ad agire, in questi tempi incerti dove la parola cede il posto alle armi, il ricordo va a Gino Strada con le sue scelte e la continua denuncia di ogni guerra e violenza in difesa della vita di tutti, da qualsiasi parte del “fronte” si trovino.

Sono le persone che risvegliano sogni e utopie ed indicano la strada per raggiungerli. Si dice che “ognuno ha l’età dei suoi sogni”, di questa linfa vitale che scorre nella nostra indignazione, nella voglia di cambiamento, nel rifiuto di piegarsi alla cronaca del mondo che ci circonda.

La parola, allora, si fa pluralismo nel rispetto della dignità di ogni differenza… parole condivise, ritrovate ovunque, che ci fanno sentire a casa in ogni terra, come se fossimo stati impastati con il fango di ogni angolo di mondo.

La storia è un libro non finito, dove ognuno aggiunge la sua parola… dell’avvenire non se ne intravedono bene la trama, il colore, i disegni, ma ogni segno anticipa il futuro: quale? non lo sappiamo! Può allora apparire logico, legittimo, nella stanchezza dell’attesa, sentirsi feriti nella speranza.

In ogni percorso c’è una componente di rischio e chi non vuol rischiare non deve intraprendere nessun cammino o finirà per tradire scelta e compagni di strada.

Tutte le grandi “cose”, all’inizio, sono indefinite, non si vedono con chiarezza, hanno contorni incerti, ci spingono ad attraversare terreni sconosciuti. Le parole scelte come guida, come utopia nella vita ci chiedono di prender posizione… ed ogni scelta, sempre illuminata dal dubbio, è una scommessa e richiede coraggio, fiducia e una misura colma di speranza.

Seguire le parole che costruiscono la realtà della storia non è un salto nel vuoto. Nessuno sbaglia quando va verso ciò che merita essere amato e voluto e cercato e lottato e sofferto e risorto. La verità, la libertà, la pace, la vita, tutte le bimbe e i bimbi del mondo, ogni uomo e donna, ogni scampolo di dignità, ogni goccia di giustizia lo “meritano”… sappiamo, prima ancora di iniziare, che non mancheranno pietre d’inciampo, disseminate da chi teme e combatte le parole delle utopie quando si fanno strada nella storia, ma chi ha paura di cadere o di trovare ostacoli o di dover fare ampi giri e percorrere luoghi inesplorati per avvicinarsi alla meta, chi ha paura di sperare… rischia di scrivere parole inutili o pericolose per la vita di tutti.

La verità della parola

Il “rumore” che segna il nostro oggi non solo copre le parole, serve anche a nascondere un progetto di mondo ad uso del potere che rischia di portare alla deriva percorsi passati e presenti.

Non vogliamo giudicare il nostro tempo, ma cercare di contribuire a dargli una nuova direzione e uno dei primi passi può esser proprio ripulire il senso del linguaggio in ogni sua declinazione, per ritrovare le radici, rivelare la forza e la bellezza delle parole che amiamo in questa cosiddetta “apocalisse” di cui tanto si parla nel riferirsi al presente della politica, della società, dell’economia, della cultura…

Apocalisse, però, non è, come comunemente si crede, profezia di distruzione, caos e morte, significa “rivelazione”, un invito a ripulire la storia umana da polvere e pietre, violenza e odio, fragilità e potenza per dare un nuovo corso all’umanità.

Nulla è definitivo: dalla lava, dura e apparentemente sterile, nasce la ginestra. Non sono tempi per pessimismo né per letture catastrofiche. È tempo di risalire il corso della storia, non alla luce di rimpianti e nostalgie, né di miraggi e canti di sirene, ma alla ricerca di chiarezza, di significati e valori perché, come scrive Erri De Luca, «il futuro del fiume non è il mare, è la sorgente».

Ritrovare l’energia dei tempi migliori: le ideologie, si dice (per fortuna o purtroppo), sono morte… ma le idee, i progetti, i sogni, le utopie, la denuncia, l’indignazione, la lotta?

Non un cammino a ritroso lastricato, per i meno giovani, di delusioni e ricordi del passato, oscurato da troppi “ai miei tempi”, “una volta”… che rischiano di riscrivere con gli occhi di oggi un passato spesso edulcorato dalla nostalgia e dalla frustrazione più che da una lettura reale.

È “passato”, e in questa redenzione/assoluzione conserviamo il ricordo della forza e dell’entusiasmo delle lotte e dei traguardi raggiunti, ma attenuiamo quello degli errori, delle delusioni, dei tradimenti, delle sconfitte; quel “mondo” ha valore nella sua complessità, ma lo rendiamo sterile se non ne riseminiamo le parole ancora fertili in terreni diversi per differenti raccolti; quel mondo se n’è andato ma sono rimasti nella terra della storia i semi caduti in essa e daranno per sempre frutti per le risposte necessarie al percorso storico e alle attese di oggi e di domani.

Sembra, a volte, di parlare al vento, di essere «voce che grida nel deserto» (Gv 1,23), ma nulla di quanto avviene è inutile, anche il seme caduto sulla strada e calpestato è cibo per gli uccelli, le spine hanno soffocato i germogli, ma non ne hanno tolto la forza vitale che ha reso più fertile quel terreno, togliamo le spine (amarezza, egoismo, delusione, sconfitte) e ci renderemo conto che anch’esse furono utili per prender coscienza di errori che annebbiarono lotte e utopie.

Molti giovani rimproverano a chi è vissuto prima di “non aver detto tutto”, di non farli parte dei loro ideali, sogni e stanchezza, di averli lasciati da parte, spesso soli con i loro problemi, dubbi, oscurità e ricchezza.

Cosa possiamo rispondere? Mario Benedetti (¿Qué les queda a los jovenes?) li invita ad occupare il loro posto nella storia. Recuperare la parola e l’utopia, non lasciarsi andare ad amarezze e illusioni per non divenire prematuramente vecchi; non arrendersi alla routine e al conformismo; aprire gli occhi, la mente e la coscienza per impedire che si uccida l’amore e per mettere allo scoperto le radici dell’orrore; inventare la pace e vivere in armonia con la natura, la Terra, l’umanità; stendere la mano per aiutare, spalancare tutte le porte per l’incontro tra sé e l’altro; soprattutto a «fare futuro, nonostante i meschini del passato e i saggi ipocriti del presente».

Ed è questo che, in modo forse disordinato, cercano di fare – e fanno – molti più giovani di quanto la dis-informazione vuol far credere.

Ogni generazione ha le sue “parole d’ordine”, amici e compagni da coinvolgere, “mostri” da neutralizzare e “nemici” da affrontare… ma viviamo tutti le stesse fragilità e potenzialità, abitiamo la stessa Terra, perché, allora, è così difficile condividere le parole che uniscono?

Abbiamo fatto tanti sbagli, anche le nuove generazioni lo faranno, ma lo faranno con i loro errori, senza ripetere i nostri e, come per noi, la coscienza di aver sbagliato li spingerà a correggere percorsi e strumenti. 

In tanti si diffonde la delusione e l’amarezza  del “tutto è inutile”, “sono tutti uguali”… forse colpa di una generazione che ha tramandato ideali nascosti sotto vesti passate di moda, non ha cercato le parole per un reale dialogo, non ha saputo cogliere il valore di idee e scelte nuove, incapace di leggere in esse un futuro anche per i propri sogni e lotte, conquiste e dubbi, valori e incarnazioni, ma (si legge nel vangelo) il vino nuovo messo in otri vecchi, li rompe con la forza della sua novità, così si perdono vino e botte.

Si guarda con perplessità un cammino non compreso, il vento fresco di un nuovo modo di leggere e raccontare il mondo, una diversa creatività che, anche in continuità con la nostra presenza passata, imbocca strade inedite in cui non riusciamo a riconoscerci; i giovani si sentono giudicati da chi, in fondo, non ha lasciato un mondo di cui essere così orgogliosi!

È indispensabile arrivare a parole comuni, senza pregiudizi e condanne reciproci; la fatica di “venirsi incontro” può sembrare tempo perso, ma fa andare lontano; il dialogo costa, cercare cammini condivisi richiede impegno e pazienza, ma è garanzia di durata e di fecondità. Se non si uniscono tutte le forze, se non troviamo significati comuni alle parole della lotta e della speranza, non avremo peso, non avremo voce nella società, nella politica, nel corso della storia perché chi ha potere imporrà il proprio progetto.

Luigi Pirandello ha due espressioni che fanno pensare:

«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!». (Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca di autore)

«Il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io, nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto». (Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila)

Sembra la definizione dell’incomunicabilità; ma c’è il modo per salvaguardare la possibilità di comprenderci secondo canoni che non esigono codici d’interpretazione riservati a un gruppo, a pochi, a qualcuno ma mai a tutti. La verità delle “cose” deve riflettersi nella verità delle parole.

Non è facile, a volte sembra davvero di parlare “lingue diverse”; ma non si può ignorare che c’è un senso preciso, perché una cosa è il significato oggettivo di una parola, altra è l’emozione che suscita, questa sì differente, ma non ne invalida il senso originario.

Prendiamo ad esempio “democrazia”. La libertà e la ricchezza di parola sono il termometro di una democrazia sana e non è possibile tentare di nasconderne la crisi (o la sconfitta?) sconvolgendo il significato del termine.

Democrazia è governo della polis, progetto da costruire con una partecipazione aperta e possibile di tutti… oggi si parla di “democrazia palliativa”, nulla di più lontano dalla sua vera natura e ragion d’essere, perché si crea nei “cittadini” l’illusione di essere protagonisti quando, in realtà, non si perseguono i fini della “gente comune”; forse non siamo ancora arrivati alla democratura, come in America Latina viene definito questo intreccio tra democrazia e “dittatura”, ma questa “sovranità esercitata dal popolo” più che un obiettivo sembra divenire un miraggio.

Ognuno, ripeto, deve togliere sassi e strappare rovi per preparare il terreno dove gettare semi perché la lotta per un mondo diverso va ben oltre la propria vita, una lotta che per affermarsi è, necessariamente, collettiva… nessuno può condizionare il modo di lavorare né imporre il tipo di raccolto, né è permesso ostacolare il processo di cambiamento con interventi non richiesti e azzardati che rischiano di rendere sterile ciò che resterà dopo di noi: le nuove generazioni andranno avanti più in fretta e con più forza se le liberemo dalle nostre parole quando divengono ostacolo e pastoie.

Canta Francesco De Gregori «la storia siamo noi, nessuno si senta escluso» e Eugenio Bennato «la storia non è solo storia di martiri e di eroi ma un piccolo, grande racconto che assomiglia a noi».

E allora facciamola la storia che vogliamo, ripuliamo le parole perché rispondano alla nostra speranza.

«Libertà, dignità, diritti umani, popolo, giustizia sociale, democrazia… Basta guardare indietro nella storia per assistere alla nascita di queste parole nella forma più pura, per sentire il loro fremito sulle labbra di tanti visionari, filosofi, poeti. E questo, che era l’espressione dell’utopia o della forza ideale nelle loro bocche e nei loro scritti, doveva riempirsi di vita e ciò avvenne con il primo sconvolgimento popolare nello scoppio della rivoluzione francese. Parlare di libertà, uguaglianza e fraternità non fu più un’astrazione del desiderio ed entrò nella dialettica quotidiana della storia vissuta.

E nonostante le controrivoluzioni, nonostante i profondi tradimenti, queste parole conservarono il loro sapore più umano, il loro messaggio più urgente, che risvegliò altri popoli, che accompagnò la nascita delle democrazie e la liberazione di tanti paesi oppressi durante tutto il XIX secolo e la prima metà del XX. Queste parole non erano né ammalate né stanche nonostante che gli interessi di una borghesia egoista e spietata cominciassero a usarle per i propri fini, che erano e sono l’inganno, il lavaggio di cervelli ingenui o ignoranti, il miraggio di false democrazie come stiamo vedendo nella maggior parte dei paesi industrializzati, determinati ad imporre la loro legge e i loro metodi a tutto il pianeta.

Poco a poco, queste parole si ammalarono, si svuotarono, violentate dalla peggiore demagogia del linguaggio dominante. E noi, che le amiamo perché sono la fonte della nostra verità, della nostra speranza e della nostra lotta, continuiamo a dirle perché ne abbiamo bisogno, perché esprimono e trasmettono i nostri valori positivi, le nostre norme di vita e i nostri slogan di lotta. Le diciamo, sì, ed è necessario e bello che sia così; ma siamo stati capaci di guardarle a fondo, di approfondire il loro significato, di spogliarle della falsità, delle distorsioni, della superficialità con cui sono giunte a noi dopo un itinerario storico che le ha spesso consegnate e continua a consegnarle ai peggiori usi della propaganda e della menzogna?». (Julio Cortázar, El valor de las palabras, Madrid, 24 marzo 1981. Mi scuso per la lunga citazione ma è difficile dire meglio e più chiaro il sentimento di molti.)

Oltre la parola parlata

L’uso della parola è un diritto inseparabile dal diritto all’esistenza. Per vivere, si dice, non è indispensabile parlare; è però indispensabile esprimersi, essere compresi. L’oscurità di chi soffre di malattie che ostacolano o impediscono un rapporto verbale, anziani e no lasciati soli; il dramma dell’emigrante strappato alla lingua madre e senza le parole “straniere” che lo rendono un escluso; la disperazione dell’anonimato, di essere senza nome, dell’essere nessuno per gli altri, una delle forme più violente di emarginazione sociale, dire la parola di un nome è come chiamare all’esistenza, quando nessuno sa, nessuno vuol sapere la parola del tuo nome è come non esistere.

I primi uomini emettevano grida e non suoni organizzati. Se oggi parliamo è perché si sentì la necessità di comunicare in modo comprensibile da tutti: e fu la parola, questa lenta lunga difficile conquista che distingue l’uomo da ogni altro essere naturale.

All’origine dell’avventura storica tutti sono impegnati in una dura lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile che crea ostacoli per i più elementari bisogni quotidiani, ma ciò non impedì la ricerca, la riflessione sui perché del mondo, sulle cause dei fenomeni, l’emozione della bellezza… dal germe del pensiero nacque la necessità di esprimerlo ad altri e, poco a poco, dal suono singolo si giunse al parlare articolato e condiviso.

È impossibile immaginare la fatica e il tempo necessari per “trovare” le parole, la difficoltà di mettere insieme suoni e dar loro un significato, la gioia delle parole iniziali… oggi tante sembrano divenute scatole vuote e non perché neppure le parole sono eterne, immodificabili, immortali, in questo caleidoscopio che è il linguaggio si evolvono, ma non hanno più senso di esistere se esprimono concetti lontani dalla verità che ognuna di esse porta [2].

La parola non ha limiti, è impossibile metterle confini e chiuderla tra frontiere, come tutto nella vita c’è sempre una soglia da superare, l’aspirazione ad un livello più alto del “vivere” e dell’“essere”, come pensiero e coscienza.

Parlare è vivere, nelle mille espressioni, dal riso al lamento, dalla poesia al giornale, dalla favola alla storia, dal segreto al grido, dal dialogo al libro, dalle parole della lotta al sussurro dell’amore… parlare è entrare nella verità del mondo.

E quando la parola parlata non basta più si fa suono, segno, colore, movimento in una nota musicale, in una pagina scritta, nel ritmo di una poesia, in un’immagine disegnata dipinta scolpita, nello scatto di una fotografia, nell’architettura di un progetto, in una scena cinematografica, in un passo di danza…  acquista così una possibilità di comunicazione/comprensione pressoché universale… ed entra nel campo controverso e bello dell’emozione per dire con parole diverse la profondità del vivere. 

Canek parlò a Guy: «Guarda il cielo, conta le stelle».
«Non si possono contare».
Canek parlò di nuovo: «Guarda la terra, conta i granelli di sabbia».
«Non si possono contare».
Canek allora disse: «Anche se non si conosce, esiste il numero delle stelle e il numero dei granelli di sabbia. Però ciò che esiste e non si può contare e si sente qui dentro, esige una parola per dirlo. Questa parola in questo caso sarebbe “immensità”. È una parola umida di mistero. Con questa parola non è necessario contare né le stelle né i granelli di sabbia. Abbiamo cambiato la “conoscenza” con l’emozione: che è anch’essa un modo per penetrare nella verità delle cose».
(Emilio Abreu Gómez, Canek, Plaza Janes)

 


[1] Humberto Ak’Bal, poeta indigeno guatemalteco.

[2] Basta pensare, ad esempio, all’inflazione di green, eco, sostenibile… in relazione a processi e prodotti che nulla hanno a che vedere con il senso di questi termini, un tentativo cosmetico per interessi e profitti che riesce a convincere moltissime persone per “sentirsi all’altezza dei tempi”!


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