Guerra russo-ucraina: una riflessione sull’uso delle armi

Marco Labbate

di Marco Labbate


Due i punti importanti sulla guerra russo-ucraina: la logica dell’equidistanza e il dubbio a cui sembra difficile rispondere, se difendersi con le armi o con la nonviolenza.

Guerra russo-ucraina
Photo by Alice Kotlyarenko on Unsplash

«Da tutte le parti ci si arma. Fino al punto in cui una delle parti dirà: meglio una fine con orrore che un orrore senza fine. Voi portate le cose all’estremo. Il crepuscolo del mondo borghese si avvicina».

Sono le parole che August Bebel, fondatore della Spd pronunciò, guardando il clima che imperversava in Europa nel primo decennio del Novecento. Sarebbe morto nel 1913. Nel 1914, al momento dell’ingresso nel conflitto, il suo partito avrebbe votato i crediti di guerra. Al di là della chiosa, in linea con la meccanicistica visione marxista, la prima parte mi risuona in testa da quando il conflitto in Ucraina è cominciato.

Nel giro di una manciata di giorni, nei bilanci degli Stati l’investimento militare è salito in cima agli incrementi di spesa. La sanità sembra essere prontamente regredita dalla sua posizione prioritaria negli orizzonti delle politiche pubbliche (nonostante l’emergenza del Covid sia forse sopita più che finita e nonostante si profilino all’orizzonte altre emergenze, altre pandemie, a partire dai batteri antibiotico-resistenti). Quanto all’emergenza climatica, era già stata sottoposta a un pericoloso declassamento per via del coronavirus: ora è ai minimi nonostante proprio la situazione attuale dovrebbe rendere la parola energia solare trend topic più di quanto faccia con «carbone» e «nucleare».

La Cina ha previsto un’impennata del 7,1% delle spese militari, la Germania è passata dall’1,5% al 2% del Pil. La reazione a catena coinvolgerà il mondo, in una spirale che sembra difficile frenare. In parte sembra tutto logico. La deterrenza richiede questo, ci siamo già passati: essere tanto bene armati per scoraggiare invasioni, stare sull’orlo della guerra nucleare nella speranza di non passarlo. Si tratta di una politica costosa che peggiorerà la vita di tutti. Ma in confronto ad allora sono cambiate due cose:

  • l’affievolimento del senso di orrore verso la guerra rispetto a uomini e donne che l’avevano appena sperimentata;
  • l’assenza di una politica sociale che mitighi le diseguaglianze.

Contro la logica dell’equidistanza

Faccio una premessa. Non credo in nessun modo tollerabili frasi come «Né con la Nato né con Putin». Mi ricordano slogan nefasti e imbelli. Qui c’è un aggressore e un aggredito. C’è un criminale, forse pazzo, forse no, che ha uno stuolo di seguaci invasati che ne condividono le responsabilità, e un popolo vittima. Il dubbio sulla parte dalla quale stare può venire solo a malvagi o a fanatici.

Raramente nelle valutazioni di una guerra le posizioni possono essere così nette. Ma quando c’è un’invasione si sta con chi è aggredito, contro l’aggressore. E questo a prescindere di tutte le nefandezze che la Nato ha compiuto dall’Iraq in avanti (o all’indietro) o a quanto potessero essere legittime alcune richieste del governo russo fino all’ora prima che dichiarasse guerra. Chi scatena una guerra simile, chi provoca un tale dolore va condannato e fermato. Ma sul come stare contro Putin credo che si possano fare delle riflessioni.

Il ritenere armi e viveri per sostenere la risposta armata all’invasore l’unica esigenza dell’Ucraina credo possa essere una strada pericolosa. Forse necessaria, ma da valutare con i rischi che comporta. Può portarci troppo presto ad accantonare l’idea che il primo obiettivo deve essere la fine della guerra, non la sua continuazione. E dunque a proseguire la via della diplomazia. È rimasto il papa l’unico a dirlo. Ci hanno provato Israele e la Turchia di Erdogan (quest’ultimo per motivi probabilmente tutt’altro che limpidi). Possibile che l’Europa, con tutta la sua tradizione, non riesca a tentare di intraprendere questa via? Sia chiaro, credo francamente che la guerra di Putin non abbia nessun appiglio logico, politico o morale; un futuribile ingresso dell’Ucraina nella Nato sembra più un pretesto che una minaccia.

Obiettivi principali di Putin appaiono probabilmente la destabilizzazione dell’Europa in primo luogo. In seconda istanza, la costruzione di un argine al contagio della democrazia e delle libertà civili che dall’Ucraina potrebbe riversarsi in Russia. Si può dunque trattare con una figura che sta compiendo crimini indicibili, fino a colpire un ospedale pediatrico, che nel suo Paese reprime duramente minoranze e dissenso, che sta procedendo ad arresti sommari di chiunque manifesta contro il suo regime, che potrebbe avere un progetto espansionistico non limitato alla sola Ucraina? Credo ugualmente di sì. Come credo che si sia arrivati a questa situazione perché si sono chiusi gli occhi su quello che avveniva nel Donbass e anche sul regime di Putin (con cui l’Occidente si è fin troppo intrallazzato, senza farsi tante remore sull’efferatezza di quel regime).

Tuttavia ritenere auspicabile una resistenza a oltranza dell’Ucraina, ritenere accettabile una possibile evoluzione della situazione in una guerriglia endemica contro l’esercito di occupazione russa che sfianchi Putin e il suo potere, credo possa andare bene solo nei calcoli cinici delle nostre postazioni sicure (e sicure solo per ora; il privilegio ha sempre dall’altro lato il baratro di un imprevedibile conflitto nucleare mondiale). E può andare bene in riflessioni geopolitiche, che servono, sono utili, ma non possono essere l’unico approccio alla situazione (né il più degno).

Perché la geopolitica ha due grandi limiti quando non è contemperata da altre considerazioni. Rimuove la tragicità delle singole vite, ignora il dolore, la paura, l’angoscia facendone un elemento trascurabile di valutazioni fredde al limite del gioco da tavola; inoltre nella sua capacità di non essere miope ovvero di saper avere uno sguardo da lontano, non si accorge spesso di essere affetta da presbiopia: non vede le cose vicine. Cosa resta nella vita di uomini, donne, bambini che sperimentano la guerra, cosa resta in una popolazione assuefatta a subire e dare la morte? Cosa può mai darci la guerra se non orrore su orrore? Questa domanda deve darci il tormento, mentre invece la geopolitica risponde con un’alzata di spalle.

Difendersi con le armi o con la nonviolenza? I dubbi di una difficile risposta

Guerra russo-ucraina
Per le strade di Kiev, i primi giorni di guerra | Fonte Telegram

Mi chiedo alle volte, anche per un’adesione intima a certi principi, per una storia di mia formazione passata, se di fronte a un’aggressione come quella di Putin resistere con le armi fosse l’unica soluzione plausibile. E ora mi chiedo se fornire le armi per permettere questa resistenza sia la migliore delle soluzioni possibili. Sono dubbi che mi agitano. Non posso erigere le mie inclinazioni a soluzioni. Nel momento stesso in cui metto per iscritto tali interrogativi avverto di mancare di rispetto, di essere quasi offensivo, nei confronti di un popolo che sta rispondendo con coraggio e con un sacrificio umano enorme a un’aggressione, strade che forse si sarebbero concluse con un mero regime di occupazione.

Troppo facile farlo da lontano e troppo poco opportuno. Temo d’altronde che una proposta nonviolenta, quando non organizzata e non preparata, possa scivolare facilmente in una prona capitolazione; mi chiedo dunque, se in questa situazione, la risposta armata fosse l’unica possibile. Eppure mi domando anche se non sia doveroso riflettere sempre sui costi della violenza, riguardo a profughi, vite umane, economia; se non sia comunque necessario cercare, anche davanti a un’oppressione, altre vie praticabili; se in fondo quella «difesa popolare nonviolenta» che i movimenti pacifisti hanno elaborato meriterebbe una trattazione seria, anziché essere sempre abbandonata con un sorriso nei cieli di un’utopia. Fermo restando che di fronte a un’ingiustizia, se non si danno armi, si deve offrire qualcosa di più efficace. Non buone parole.

Credo nella nonviolenza, pur non ritenendola una ricetta buona per ogni situazione. Non penso però che si possa improvvisare: senza un popolo allenato a immaginarla rischia di diventare un alibi per la passività. Inoltre, una volta scoppiata la guerra, mi sembra che la sua forza si affievolisca drasticamente. Mi chiedo tuttavia perché la nonviolenza venga sempre relegata all’empireo delle buone intenzioni, a un piano irrealistico e utopico; mentre la reazione violenta non è sottoposta a quel vaglio altrettanto severo, come se il reagire con le armi per una guerra di difesa, quindi giusta, sia necessariamente la più logica tra le soluzioni sul tavolo.

Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, in un lavoro del 2011 (Why civil resistance works. The strategic logic of nonviolent conflict, Columbia University Press), avevano rilevato che il 59% delle lotte nonviolente antiregime avevano avuto successo contro il 27% delle lotte violente. Rispetto ad atti di occupazione di potenze straniere la percentuale scendeva al 41%, ma anche quella del successo delle risposte violente calava al 10%.

Mi chiedo dunque se la fornitura di armi che possa protrarre la resistenza non sia in realtà un modo che oltre a martiri e dolore non procurerà nulla di buono sul lungo periodo. O se in realtà sia in questo caso l’unica via perseguibile di fronte a un dittatore di cui non si capiscono le intenzioni (se cioè il suo piano di espansione abbia un limite), ma se ne conoscono i precedenti criminali, in politica interna e all’estero (in Siria le mani di Putin sono tra quelle più sporche di sangue).

Se non sia addirittura inevitabile un impegno diretto della Nato di fronte a un autocrate senza scrupoli che una volta sottomessa l’Ucraina potrebbe proseguire, almeno nelle intenzioni, con una guerra di conquista non avendo trovato una ferma opposizione; se invece fornire armi sia una strategia dolorosa, ma necessaria, che mira, unita alle sanzioni, a rendere la guerra insostenibile per la Russia e a portarla a un rapido ripiegamento e quindi a risparmiare vite; o se in realtà l’adesione ad armare la resistenza ucraina sia più una scelta di principio, priva di un progetto, o peggio, il pezzo della grande partita per l’egemonia globale, che non ha il «sangue risparmiato» tra i suoi orizzonti.

Così come mi chiedo se non vi sia il rischio, qualora la guerra prosegua a lungo, che anche quando arriverà a una pace, l’Ucraina sarà percorsa da bande armate, che potrebbero essere composte non esattamente dai cittadini migliori. Non sarebbe la prima volta che la fornitura delle armi finisce in mano a gruppi oltranzisti che seguitano a destabilizzare un territorio. Se guardiamo i casi recenti di armamenti dati a oppositori di regime sono tutti falliti in una guerra endemica (certo qui c’è una differenza eclatante: negli altri casi si è sempre trattato di guerra civile con partecipazione di stati esterni, qui di un’aggressione di uno stato contro l’altro).

Non ho una risposta: oscillo tra questi interrogativi. Mi chiedo cosa accadrebbe tuttavia se Biden oggi stesso proponesse di aprire un tavolo della pace a Ginevra con la partecipazione di Russia, Cina, Ucraina, Stati Uniti e Unione europea per affrontare tutte le questioni in ballo in cambio di un cessate il fuoco. O se arrivassero a Kiev, Kharkiv e Mariepol una cospicua presenza di caschi blu per fare interposizione. O se tutti i sindacati d’Europa proclamassero congiuntamente il primo sciopero europeo contro la guerra per domandare il cessate il fuoco e uno sforzo diplomatico al proprio governo di raggiungere la pace, invitando anche i russi a partecipare (sapendo che per un russo che manifesta contro la guerra il rischio è ben più alto che da noi).

Ho davvero il timore che si stia trattando la guerra con eccessiva leggerezza e non come la più grande sventura che possa capitare all’umanità. E che si stia troppo incedendo in un lessico bellico, spesso dicotomico, persino incapace di distinguere tra un popolo e la sua cultura e l’infame marmaglia che lo tiranneggia. Giorno dopo giorno il rischio che si smetta di credere nel valore della pace cresce. O che d’altro canto venga sempre più confusa la pace con la resa.


2 commenti
  1. Roberto
    Roberto dice:

    3 considerazioni: putin starà a guardare i treni e gli aerei che sbarcheranno in Ucraina armi contro di lui? E se tirerà giù un aereo in arrivo carico di armi tedesco o italiano che succede? Se poi rincuoriamo gli ucraini con tante armi che si sentano più forti, che faranno le forze aeree o i missili russi? Quanti ucraini massacreranno? Ancora: quanto si allontanano i risultati delle trattative con l'ipotetico arrivo di altre armi in campo? Da quando ulteriori armi hanno risolto qualche guerra?
    Roberto Urbani

    Rispondi

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  1. […] su una valutazione più complessiva della situazione in atto, anche Marco Labbate, in un bell’articolo comparso su questo sito l’11 marzo, ha condiviso alcuni interrogativi drammatici che penso […]

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