Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente

Enrico Peyretti

Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente, Multimage, Firenze 2020, pp. 266, ill., € 15,00

Guerra e memoria, catarsi e trauma

Di terra e di pietra
Di terra e di pietra | La copertina del libro

Questo libro è denso. La prima parte contiene diversi capitoli di teoria ed esperienze di pace, di riconciliazione nei conflitti; la seconda parte fa una storia dei Balcani e della sua rappresentazione politica ed estetica; infine offre una bella serie di immagini di monumenti e memoriali della storia jugoslava. Nell’imbarazzo di non saper padroneggiare tutto questo contenuto, faccio una semplice riflessione personale sul tema centrale, che mi sembra: la memoria della guerra, ovvero guerra e memoria, e non solo della guerra jugoslava. Non solo dopo la guerra, ma anche le memorie lontane avvelenate, che provocano guerre, come fu la battaglia della Piana dei Merli, 1389, rievocata nella  contrapposizione dei nazionalismi.

Ricordo Sarajevo nei primi anni Ottanta. Tito era morto, ma il suo ritratto era in tutti i negozi. Un piccolo museo, Giovane Bosnia, era a capo del ponte Principov most, che porta il nome di Gavrilo Princip – l’irredentista che lì uccise, nel 1914, l’erede dell’impero austro-ungarico – e quasi celebra quell’evento. Un mappamondo di legno, con una fiammata dalla città di Sarajevo, che incendia il mondo: quasi un vanto mondiale della Bosnia!

Ma vado più indietro. Ho l’età per parlare con esperienza della guerra 1940-’45. Cosa fa il tempo sulla guerra? Il tempo e la memoria trasfigurano, placano, assorbono, accettano? Avviene una catarsi, oppure il trauma sottopelle continua a corrodere?

Una catarsi, sì. Finita la guerra, fuori da orrore, terrore, sangue, si vuole passare alla bellezza, alla festa, al piacere. Nei paesi si organizzavano balli, recite (si chiamavano «riviste») in cui comparivano risolte le vicende precedenti, si rappresentavano i personaggi più caratteristici del paese, anche il mio nonno novantenne, si rideva allegri. Era tempo e volontà di risurrezione, ricostruzione, sia nazionale che locale, familiare. È positivo che la tempesta della guerra si plachi nell’arte, anche la più semplice: è risanante, è l’espulsione di un veleno.

Ma il trauma rimane: Aldino, l’autista del paese, e Michele, non tornano dalla Russia, non tornano mai, mai nessuna notizia, si capisce che non tornano più: sono i «dispersi in Russia».  Una mattina presto il povero Bigiol viene trovato ucciso sulla strada vicino al campo sportivo. Fa parte dello strascico di vendette, ma lui, poveretto, forse l’hanno scambiato per il medico, fascista. Si sente parlare della bomba atomica, dopo l’agosto, usata in Giappone: una bomba «che spiana le montagne». Nell’estate (non ho ancora dieci anni), mi chiedo: «e adesso cosa scriveranno sui giornali? Usciranno con le pagine bianche?». Non sapevo che anche fior di studiosi pensano davvero che la storia è fatta solo di guerre.

Per quella guerra che ho vissuto, sorgeva una estetica della guerra, ma forse diversa da tutte le guerre precedenti: onore alle vittime, e anche pentimento. Dopo il ‘45 si erigono lapidi e monumenti alla Resistenza, ai martiri della Libertà, il fascismo appare solo in quanto vinto. Lentamente si scoprirà, nella storiografia e nei memoriali, la resistenza civile, oltre e prima di quella armata. Ma guardiamo più indietro: quale memoria delle guerre?

Un pesante fenomeno piantato negli occhi e nelle teste dei popoli, in quelle dei bambini a scuola, è la glorificazione della forza vincente: chi vince deve darsi ragione, per ripulirsi dal sangue, quasi confessa di doversi assolvere cambiando il delitto in merito.

Lo storico tedesco Ekkehart Krippendorff (autore dell’importante studio Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, orig. 1995, trad. ital. Gandhiedizioni, 2008), nostro amico, venuto spesso a Torino, notava quanto la nostra città abbondi di monumenti militari: re, cavalli, armi, stendardi, anche qualche principessa. Il più indigesto è quello del Conte Verde (1334-1383), un Savoia accanito nell’uccidere un soldato turco, sopra un altro già ucciso a terra. Il monumento, a cui è bene che i turchi torinesi non badino, è stato eretto nel 1853 ed è ancora, immagine oscena anche anti-islamica, in piazza del Municipio, davanti al Comune. I monumenti è meglio non distruggerli, come han fatto in America, in alcuni casi, per anticolonialismo, ma lasciare che ci ammoniscano, nel bene e nel male.

Anche ogni parata militare è glorificazione dell’uccidere. La parata del 2 giugno per festeggiare la Repubblica e la Costituzione offende l’una e l’altra. Le armi esibite come simbolo della Patria rivelano una cultura statale pre-umana, da animali predatori. Il nostro art. 11 afferma il «ripudio», la rottura del matrimonio storico primitivo tra Stato e guerra (vedi di nuovo Krippendorff), ma la guerra continua ad occupare gran parte dei locali della casa da cui la moglie-guerra era stata ripudiata, con disagio crescente dei cittadini più attenti e sensibili.

Tra i monumenti sulle nostre piazze, fin nei piccoli paesi, credo che il peggio si possa vedere nelle memorie della Prima Guerra Mondiale. Vi sono raffigurati, in corpi di pietra e di cemento, i caduti, con atteggiamenti a volte gloriosi e vincenti, a volte come corpi abbattuti. Non sono caduti come alpinisti: sono ammazzati! Mi pare che dicano: «Se solo potessi scendere, la paghereste cara!….».

La Patria offende le proprie vittime. La maggiore offesa oscena è quell’Altare della Patria, nel cuore di Roma: l’ara del sacrificio umano, la somma barbarie di quell’Italia che mandò a morire poveri figli suoi, per calcoli cinici di alcuni, e poi li celebrò come volontari ed eroici, come se fossero dei cristi liberamente offertisi. Di recente abbiamo sentito, al Centro Studi Sereno Regis di Torino, Giovanna Marini e Fausto Amodei parlarci dell’arte povera e dolorosa dei canti popolari contro la guerra: il rovescio degli inni eccitanti all’odio e alla morte.

Ma non c’è solo questo. Alcuni rari casi, nella memoria della guerra, sono rispetto e onore-dolore-pentimento per le vittime: classico è il semplice monumento a La Pleureuse (una madre piangente) a Termignon, villaggio della Haute Maurienne, a un centinaio di chilometri da Torino. La donna, nel tradizionale costume locale, piange il figlio, e tutte le vittime, e così nega  silenziosamente alla guerra ogni gloria. Ma sul piedistallo è scritto: «Aux enfants de Termignon glorieusement tombés pour la patrie».

Poi ci sono i cimiteri silenziosi: custodiscono anche i morti a cui la guerra ha tolto non solo la vita ma pure il nome. In un cimitero militare sul lago di Garda ho visitato, dopo anni da quel ‘45, la tomba di tre soldati sconosciuti che, da bambino, vidi divorare dalla logica di guerra, fucilati in piazza, a guerra ormai finita.

A Pinerolo, nel 2005, nel corso di un bel convegno di storia, fu inaugurato un monumento alle vittime valdesi della violenza e dell’intolleranza cattolica, opera di Gerald Brandstötter, austriaco (+2004) (cfr. il volume I valdesi del Pragelatese all’epoca della crociata, 2021, p. 264).

Da inesperto, osservo le due categorie di icone-memorie della guerra: i dipinti, i monumenti. Forse più meditativi i dipinti e più celebrativi i «monumenti»? Quanto ai primi (a parte le grandi tele retoriche spietate), penso a Guernica; penso a Goya, I disastri della guerra. Ricordo la recente mostra torinese di Giovanni Fattori (1825-1908): i suoi quadri di guerra mostrano sempre i morti, le vittime, orizzontali a terra, presso i generali, ma questi visti di schiena, in primo piano i sederi dei loro cavalli (come mi fa notare la brava guida). Gelido e sommo un quadro, I soldati dimenticati: finita la battaglia, partiti i combattenti, restano alcuni morti sulla strada, dimenticati. Solo il cielo li guarda.

Cosa sono i monumenti? Memoria, dolore, trasmissione a chi viene, come i monumenti funebri? Oppure avviso, ammonizione, superbia, minaccia. Rimane urtante l’arco della vittoria a Bolzano, eretto dal fascismo: «Hic patriae fines siste signa hinc ceteros excolimus lingua legibus artibus». Sacralizza i confini segnati dalla guerra, e vanta superiorità nostra sugli altri, nella lingua, nelle leggi, nelle arti. Ci fu un tentativo, ma fallì, di chiamare arco e piazza della pace quel luogo di adorazione dell’idolo guerra.

Dalla Seconda Guerra Mondiale, il risultato purificatore e rivitalizzante che eccelle tra tutte le opere di cultura post- e anti-guerra, è la Costituzione italiana. Essa viene da lontano, da quella fonte «antica come le montagne», viene dall’Anti-polemos e dal Dulce bellum inexpertis, di Erasmo, dall’Anti-Machiavelli (di Botero, di Federico II, di Voltaire), dal sogno popolare socialista nei due secoli di fine millennio, tradito da chi se ne fece crudele padrone. La Costituzione raccoglie molto di quel «sogno diurno», nella luce (Ernst Bloch): il lavoro come fondamento della vita insieme, cioè l’agire gli uni per gli altri, e non ognuno per sé.

E l’art. 3 che conosce e detta lo scopo della politica: realizzare per tutti l’uguaglianza di valore e di riconosciuta dignità. Per la Costituzione non ci sono popoli inferiori o estranei, non c’è un nemico disumanizzato, quindi non ci sono ragioni per la guerra. E se ci venisse fatta un’offesa l’art. 52 non identifica la difesa con la sola vecchia difesa militare, pericolosa a chi la usa, ma lascia aperta la via alla realizzazione della difesa civile: la coraggiosa noncollaborazione al dominio svuota ogni dominio, che si regge sulla obbedienza passiva.

Ho sempre presente un brano di Gandhi: «Vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Per lui vuol dire che c’è «una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio. E questa forza è esclusivamente benevola». Per Gandhi, Dio è tutto, è l’unità di tulle le cose e le vite. Gandhi vuol dire: nonostante tutto il male, persiste il bene, il vero, il buono, il giusto, misura insopprimibile, dentro ogni coscienza, dei mali opposti.

Perciò, in ogni tragedia e offesa, il bene risalta sul male. In definitiva, c’è più bene che male, più pace che guerra, anche quando sono schiacciato dal male. Dire Dio vuol dire solo questo, per lui. Ed è la sua forza profonda per lottare contro il male senza violenza, con profonda fiducia, fino a spegnere il male su di sé con la propria forza di verità.

Il cristiano crede in un modo simile. Il cristianesimo nasce da una guerra: Gesù di Nazareth opera un compimento-realizzazione-rivoluzione delle fede e civiltà ebraica, che gli scatena contro la guerra politico-religiosa del clero e dell’impero. Si accordano per ammazzarlo in croce. Una guerra cosmica. Il profeta dell’amore distrutto dal potere violento. Distrutto? Dopo il primo sgomento totale, i suoi amici lo sperimentano vivo attraverso la morte. Sperimentano che il bene della vita inviolabile ha vinto sul male del potere che uccide. Sperimentano che la pace ha vinto per sempre sulla guerra, anche se questo evento è in corso di realizzazione: un già che è non-ancora, un non-ancora che è un già.

Tra i memoriali di una lotta e una vittoria, il cristianesimo alza la bandiera della sconfitta. Ha scelto il segno non della vittoria, ma della transitoria sconfitta, della debolezza, dell’umiliazione, della morte: ha scelto il simbolo della Croce, patibolo feroce. Celebra nella fede la Risurrezione, ma questa resta invisibile: nessuno l’ha vista, è un’apertura oltre la storia visibile. Ci sono icone narrative, figurative, ma in sé resta invisibile. E’ sperimentata come presenza viva intima del Risorto. Il cristianesimo autentico non trionfa, non stampa impronte di vittoria, ma segni di accompagnamento ad ogni sofferenza imposta. La guerra è la croce dei popoli, imposta dal sinedrio dei generali e dei sovrani. Quando il cristianesimo ha solennizzato la propria vittoria, e ha fatto sacerdoti-sovrani, è degenerato.  L’icona cristiana è la croce, è il partito dei crocifissi in via di risurrezione, se all’odio risponde l’amore che lo disarma.

Dunque, riflettere sulla guerra, fare memoria della guerra, guardare negli occhi il male, onorare le vittime, tenerle vive nella memoria, tentare di tradurre in pace e bellezza il dolore e l’offesa, è un lavoro di risurrezione, di costruzione e ricostruzione di pace, pur attraverso perdite e dolori, e nuovi respiri, e cambiamenti di visuale.

Queste provvisorie riflessioni mi nascono dall’assaggio del libro di Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra, testi e immagini. Voglio ancora capire meglio quanto questo suo lavoro ci accompagna a passare da tante arroganti glorificazioni della guerra, al pentimento di esserci uccisi a vicenda tra umani, e quindi ora al poter rinascere a vita più vera.


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