The Rebel toolkit: Guida agli elementi da mettere in gioco per fare la differenza

Autore Mirko Vercelli


Dal webinar di Attiviamo energie positive, un progetto di produzioni dal Basso nato con il supporto di Banca Etica, si presenta il libro The rebel toolkit. Guida alla tua rivoluzione, con l’autrice Diletta Bellotti, Martina Comparelli di FFF, moderato da Pietro Forti della sezione Attualità di Scomodo. La sinergia degli attori coinvolti è chiara, l’impegno a far da “alternativa” alla narrazione in cui viviamo, per porre l’accento su questioni sociali di rilevanza primaria, fra tutti, il cambiamento climatico.

The Rebel toolkit

A partire dal libro, che si presenta effettivamente come una reale cassetta degli attrezzi da cui attingere suggestioni e spunti per la pratica immediata, il dibattito affronta subito il tema del legame tra lotta e corpo.

Il corpo, il fisico è protagonista ricorrente del libro; così come lo è stato nella filosofia del ‘900. Ma ultimamente ne si è persa la rilevanza e soprattutto il ruolo politico. Perché “essere” ed “esistere” negli spazi sociali sono una pratica prima di tutto femminista, ovvero l’occupazione dello spazio con il proprio corpo. E quando ci si inizia a schierare si sente qualcosa di viscerale, dice Diletta, e quindi si delineano dei “sintomi” prettamente materiali e fisici. Ognuno di questi, personalissimo, attiva uno “strumento” della cassetta degli attrezzi del libro. Per esempio riguardo alla posizione che si possa prendere di fronte a fatti ed avvenimenti, ma anche a sentimenti quali la rabbia o la speranza (il concetto si trasmette ad esempio anche con le parabole degli aneddoti personali, come la liberazione di alcuni polpi da una rete nell’infanzia dell’autrice).

Pietro Forti descrive questo processo come una necessità, alla quale non si può fuggire e che si attraversa anche in modo incosciente. Nel romanzo, le prassi che generano esperienze di “sopravvivenza” si racchiudono nella formula:

Presa salda, sguardo lungimirante e mente lucida.

Ma al di là di questo, c’è molto di più che si declina in base alla sfida (collettiva o individuale che sia) e alla persona che l’affronta. La sopravvivenza è naturale, istintiva e soprattutto torna “ciclicamente” alla ribalta, nonostante quello che viene dichiarato dalla “maggioranza silenziosa” o dai titoli di giornale. Ogni realtà sociale adotta la sua prassi politica in base al contesto, Extinction Ribelliom, Fridays For Futures o black bloc e via dicendo.

L’attivismo quotidiano, benché sia a lungo termine e collettivo, alle energie che assorbe compensa dando senso di appartenenza, un’ideale e un’identità, ed è l’unico modo attivo per far fronte ad una società sempre più atomizzata che però vorrebbe al contempo negare, nell’individuo, il ruolo politico del corpo. Accettare quello che si è per non accettare quello che viene imposto. Ovviamente serve decolonizzare i significati a cui siamo abituati, prima di tutto per le parole. “Sopravvivenza” non è più di una generazione singola, ma dell’intero pianeta.

Attivismo come identità contro l’atomizzazione, quindi, e collaborazione contro competizione. In questo lo sforzo ovviamente è di decostruzione (e ancora si torna alla filosofia del secolo scorso) e revisione dei modelli. La nostra società fondata sullo sviluppo e la crescita infinita si configura prima di tutto come un modello energivoro e su questo interviene Martina Comparelli.

Non si tratta più di prevenire o riassettare direzioni future, specifica Martina, ma di cambiare immediatamente per tamponare i danni già irreversibili. In questo momento molti subiscono i cambiamenti del cambiamento climatico e come disse la portavoce di Rise Up 4 Climate Change Uganda, non si parla di adattamento, ma di ciò che si è già perso. Abbiamo la teoria per cambiare il mondo. Ora si tratta di farlo e la prassi è il punto di partenza, che non si può universalizzare; ma che va adattata a contesti e funzioni. Per ripescare il motto della generazione no-global “pensa globale, agisci locale”, che i Modena City Ramblers diranno più tardi non essere “uno slogan, ma una sfida vitale”. Come adattare il manuale alla vita quotidiana? chiede Pietro Forti.

Per Diletta l’umiltà è la base della prassi, descritta come stilare una mappa di sé stessi (di priorità ed esigenze) e metterla a confronto con altre mappe. L’empatia e la coscienza del contesto locale è quindi la chiave per accedere all’azione, in modo da declinarvi ogni successiva mossa.

Uno degli attacchi che maggiormente si rivolgono alle nuove generazioni e al loro attivismo, interviene Pietro Forti, è quello di essere troppo giovani per avere voce in capitolo. Il punto di questo attacco vuoto e populista è che funziona benissimo; ed è per antonomasia simbolo del livello di dibattito nella società occidentale e più nel dettaglio, di quella italiana. Figlia della retorica democristiana e poi delle politiche di centro dai discorsi vaghi, diventa ora una carta già pronta per bocciare sul nascere qualsiasi attivismo da trent’anni a questa parte e da lì, congelarli in un
immagine senza credibilità di giovani che marinano la scuola, figli di papà che “poi cresceranno e metteranno la testa a posto”.

Al punto che anche quando Greta Thunberg compirà 40 anni verrà comunque etichettata come “bambina”. Diletta aggiunge ad esempio come nell’immaginario collettivo (quello dei giornali, si intende) anche il Movimento NoTav appare come un movimento di ragazzini, da ormai oltre trent’anni e nonostante gran parte siano abitanti della valle. Come rispondere a ciò?

Invalidare in questo modo un’azione, evidenzia Bellotti di fronte alla domanda di Forti, ha una presa fortissima su chi fa propria una vita politica superficiale. Ed è per questo che, sempre nell’ottica di ribaltamenti semiotici delle parole della lotta, la riappropriazione del termine “ragazzini” è fondamentale per ripartire nell’attivismo.

Eppure nella narrazione dominante, le generazioni vanno contrapposte sempre e comunque, nonostante tantissimi movimenti contemporanei e storici abbiano trovato la loro forza proprio nell’eterogeneità della partecipazione.

Il libro si chiude con il tema della gioia di unirsi in lotta.

La gioia c’è se è collettiva e rivoluzionaria e totale, come diceva Sereni. Se c’è rivoluzione c’è gioia, se non c’è gioia, non c’è rivoluzione, richiamando quasi il tema degli Area. La fatica si unisce a una spinta positiva, ci dice Comparelli. Molte realtà omologanti danno identità, ma se uno non vuole vivere in una società atomizzata, l’unico modo è quello di essere critici e vigili nei confronti delle altre possibilità e l’attivismo, in particolare, le ha cambiato la vita. Dopo una vita in ambienti spietati e competitivi dove all’educazione di solidarietà e collaborazione si scontravano parole come
carriera, concorrenza, sfida e quindi un sentimento di alienazione, trovare una realtà alternativa che le permettesse di inserire sé stessa come identità con un fine, ha permesso di trovare la gioia. E quando questa forza giustifica ogni azione, nessuno sforzo o sacrificio diventa impossibile o insormontabile.

Ovviamente qualsiasi gruppo che “dia identità” assorbe e motiva, nota Diletta. Ma bisogna sempre essere critici sulle azioni che si compie come gruppo e individui, ma soprattutto il fine che si persegue attraverso la lungimiranza.

Ne L’uomo in rivolta, Camus, cita Pietro per concludere, scrive che la rivoluzione è l’atto d’amore più grande che si possa fare per la generazione successiva. E per farla serve un manuale sì, ma anche gli strumenti e una mano che li usi. E questa mano non sarà mai quella di un individuo solo.


Ascolta “Libro: The Rebel Toolkit, guida alla tua rivoluzione” su Spreaker.
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