L’ascesa sorprendente della Cina

Richard Falk

 


L’ascesa sorprendente della Cina: dovuta a un ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ o a un ‘capitalismo con facciata cinese? O a un po’ di entrambi?

Nei mesi recenti ci sono state molte discussioni attorno all’effettiva caratterizzazione della Cina da un punto di vista ideologico. La dirigenza cinese ha le proprie ragioni per fare quel che fa – cercare di presentare quanto ritiene una prestigiosa immagine di sé. In contrasto l’Occidente, specialmente gli Stati Uniti, hanno voluto dare una spiegazione ideologica della propria posizione di confronto con la Cina. Parte della confusione ideologica consiste in se o no la Cina possa essere considerata un tipo di stato ‘democratico’, come talora afferma. La Cina non è stata invitata a partecipare al Vertice delle Democrazie di Biden, come invece democrazie discutibili come Israele, India, e le Filippine. Ciò che gli USA si sono trattenuti dal fare è attribuire il successo della Cina alla sua padronanza e affidamento alla politica economica di mercato.

A mio giudizio, L’auto-identificazione della Cina come ‘stato comunista’ in certi contesti non è più fuorviante della supposizione USA di possedere tutte le credenziali per pretendersi la ‘democrazia’ guida del mondo, essendoci caratteristiche di ambo i sistemi politici che contraddicono le rispettive etichette da una prospettiva descrittiva. La Cina ha accelerato il proprio sorprendente processo di sviluppo degli ultimi 50 anni definendo talora il proprio sistema di governance come ‘socialismo con caratteristiche cinesi’. Era un modo codificato di esprimere la sua partecipazione a livello nazionale e internazionale all’economia mondiale capitalista guidata da una prospettiva di solito descritta come ‘globalizzazione neoliberista’, identità sottolineata dallo status di membro della WTO – Organizzazione Mondiale del Commercio – largamente accettata come ente istituzionale incaricato della supervisione e promozione del capitalismo globale nella sua fase neoliberista.

È divenuto comune per gli economisti descrivere la Cina dopo le riforme pro-mercato per attrarre investimenti esteri e promuovere il commercio della direzione di Deng Xiaoping nel 1991 come stesse fondando una ‘economia di mercato socialista’. Per i militanti ideologici in Occidente essere ‘socialista’ equivale ad essere ‘comunista’, una caratterizzazione negativa applicabile non solo alla Cina ma anche alla social-democrazia in Scandinavia o alle tendenze liberal del partito Democratico negli USA.

È ovvio che l’uso del termine ‘comunista’ di un capo-partito a Pechino è alquanto differente dal termine denigratorio da parte della politica di destra in Europa e Nord-America. Quando i funzionari cinesi insistono ad attribuire un’identità comunista alla Cina, ciò funge da asserzione di legittimità, di conferma di fedeltà alla propria ideologia fondatrice e richiamo alla propria lotta rivoluzionaria. Quando agitator dentro e fuori del governo in Occidente chiamano la Cina ‘comunista’ o anche solo ‘socialista’ l’intendono come insulto e ammonimento su un’ideologia aliena che pone una minaccia mediante una politica di sinistra o anche solo liberal di sinistra.

Guardata diversamente, la Cina esemplifica la tradizione politica comunista post-guerra fredda associata a Marx e Lenin, e poi Mao, in certi aspetti cruciali. Il partito Comunista fornisce una guida ideologica d’autorità riguardo al proprio procedimento di governo, sovrintende al dominio monopartitico, fornisce istruzioni per l’educazione politica e la cittadinanza, e affida la leadership a un singolo essenzialmente a vita. L’attuale leader, Xi Jinping, esemplifica tale tradizione in ogni aspetto.

Non vengono accettate alternative politiche come sfidanti legittime al governo comunista.  In conferenze periodiche quinquennali d’alto livello della dirigenza del partito Comunista cinese si riaffermano articoli di fede e si apportano aggiustamenti mediante espressioni di consenso apparentemente plasmate dal leader. Dal momento della propria presa del potere sulla parte continentale della Cina nel 1949 il governo ha soppresso il dissenso e insistito su una forma estrema di laicismo che ha regolato strettamente, talora aspramente, i movimenti religiosi, tanto più se osano mostrare ambizioni politiche.

Nonostante qualche somiglianza superficiale all’Unione Sovietica, e alla Guerra fredda, sarebbe profondamente fuorviante osservare la Cina attraverso una lente sovietica o secondo dinamiche geopolitiche post-2a guerra mondiale, con la distanza fra quelle e questa situazione illustrata da due straordinarie differenze: prima, in contrasto con l’Unione Sovietica, la Cina ha mostrato una competenza amministrativa da primato avendo sovrinteso alla maggiore ascesa economica e geo-politica di qualunque paese in tutta la storia [nota], confermata da una crescita e un alleviamento della povertà spettacolari, e una crescente dominanza delle frontiere tecnologiche più significative dell’innovazione del 21° secolo; seconda, la politica estera espansionista della Cina si è basata interamente su strumenti d’influenza soft power, producendo molte soluzioni win/win, compreso l’ iperambizioso Progetto Belt and Road [“Nuova via della Seta” – ndt], in vistoso contrasto con l’ascesa Occidentale e il raggiungimento sovietico dello status di superpotenza, basati sulla conquista militare e forme imperiali di controllo coercitivo.

È la reazione ostile USA, che confrontano la Cina anziché cooperare, a parere prevalentemente responsabile d’indurre la Cina a porre sempre maggior enfasi sulle capacità militari per mantenere i propri nazionali interessi scoraggiando le provocazioni USA. L’Occidente dovrebbe imparare dalla Cina anziché trattarla come seconda arrivata dopo l’URSS [ad insidiarlo – ndt], il che comporta una mobilitazione ideo-logica e di militarizzazione per una nuova Guerra fredda che il mondo non può permettersi, distraendo attenzione e risorse da una serie di urgenti sfide globali poste dal cambiamento climatico, dalla pandemia, dalla migrazione globale, da crasse disuguaglianze che non hanno influito gravemente sui rapporti internazionali.

Solo la costosa gara agli armamenti, specialmente nella loro dimensione nucleare, ha reso la seconda metà del 20° secolo vulnerabile alla catastrofe su scala globale, che minaccia la sopravvivenza della [nostra] specie, preparando la sfera pubblica alla propria attuale agenda politica.

Xi Jinping asserisce da tempo di star adattando il marxismo alle condizioni contemporanee all’ insegna del ‘Marxismo per il 21° Secolo’. Per quanto posso coglierci, questa terminologia è usata principalmente come modo per identificare e illustrare la rilevanza carismatica di Xi Jinping, e così facendo elevarlo allo status dei più eminenti leader rivoluzionari, soprattutto come uguale a Mao Zedong. Il punto di vista ideologico di Xi è stato anche spiegato con il significato dell’espressione ‘socialismo con caratteristiche cinesi’. In termini ideologici, specie a livello internazionale, Xi si riferisce di solito alla natura ‘socialista’ dell’approccio cinese piuttosto che asserirne il carattere ‘comunista’. Xi vuole chiaramente che i suoi vari pubblici credano che il pensiero marxista resti dinamico e rilevante come sempre, ‘pieno di vitalità’ e quindi la chiave alla felicità futura dell’ umanità.

I riferimenti cinesi al marxismo del 21° secolo sono anche un modo d’intrattenere dialoghi con partiti politici marxisti di altre società e creare un discorso comune globale. E paiono inoltre un modo di essere fedeli alle tradizioni di pensiero marxiste-leniniste senza doverne commentare criticamente l’intervallo a guida sovietica come distacco dal marxismo. In termini positive, il marxismo del 21° secolo invoca dedizione al ‘progresso umano’ centrato sulla costruzione di ‘un futuro condiviso per l’umanità’ in collaborazione con forze congeniali per il mondo.

Che la Cina sia considerata o meno come un centro di potere comunista è meno importante rispetto al relazionarsi dell’Occidente con la Cina in un modo di reciproco beneficio per a pace e il multilateralismo mondiale. L’enfasi politica a Occidente dovrebbe essere sull’imparare dalla Cina, non solo ma attuare le risposte più costruttive in relazione ai suoi contributi potenziali indispensabili all’ordine mondiale. Tale prospettiva non è cieca alle violazioni cinesi dei diritti umani o agli eccessi del nazionalismo han, ma li considera magagne innegabili da lasciare al meglio a dinamiche di riforma interna e pressione esercitata dalla società civile globale, anziché come ora una forma di vessazione geopolitica e di mobilitazione anti-cinese.


TRANSCEND MEMBERS, 27 Dec 2021 

Richard Falk | Global Justice in the 21st Century – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


1 commento
  1. Rosa Dalmiglio
    Rosa Dalmiglio dice:

    L'Ascesa sorprendente della Cina"
    nel 1991 corteggiata dagli Americani mi sorprese la CINA, un progetto studiato scientificamente per attirare PACIFISTI esperti in POLITICHE INDUSTRIALI SOCIALI, la riconversione della NORINCO fabbrica bellica in join-venture, con chiare linee che nessuno poteva investire in Cina e andarsene dopo avere sfruttato i cinesi, forse è questo che dovrebbe fare riflettere oggi gli Italiani,sfruttati i lavoratori se ne tornano a casa con i profitti, questo gli stranieri in Cina non lo possono fare e vale anche per gli AMERICANI
    da subito ho capito che avrebbero vinto i cinesi, ed è solo l'inizio, uno sguardo all'AFRICA erano gli Americani i più preparati con il piano Marshall, ha cambiare le sorti dei paesi Africani, oggi sconfitti cercano ingenui alleati, sanno che TAIWAN è cinese e non potranno giocare come hanno fatto con i Talebani…perdendo

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.