UNITED #FromHateToHope: memoria e trasformazione


Memoria e trasformazione: una narrazione storica e personale della città di Torino

Oggi, in occasione della Giornata mondiale dei Diritti Umani, si conclude la campagna UNITED #FromHateToHope. Per un mese, tante realtà associative di tutta Europa hanno collaborato per contrastare insieme ogni forma di fascismo e nazionalismo, attraverso la condivisione di messaggi di speranza e di cura della Memoria.

Preservare la Memoria è un’aspirazione complessa. Una complessità arricchita dal continuo mutare dei luoghi, delle generazioni e della percezione che ciascuna di queste ha del mondo presente e passato. La memoria ha bisogno di appigli per resistere. “Il problema sta proprio nel fatto che l’intero sistema sociale contemporaneo ha cominciato poco a poco a perdere la capacità di ricordare il proprio passato. […] Il nostro immaginario viene via via deformato dalle raffiche di informazioni che ogni giorno ci colpiscono” (M. Aime, Comunità). Siamo travolti da questo flusso incessante e accecante, e abbiamo perso la curiosità. Abbiamo dimenticato l’antica arte di raccontarci e ascoltare, per conoscere l’altro, comprendere meglio noi stessi e accogliere le nostre contraddizioni.

Ascoltare Torino e raccontarla è un’aspirazione complessa. Le realtà di ciascun* di noi si materializzano in contesti specifici e unici, che non sono sempre rintracciabili sulle mappe tradizionali. Passeggiando per le strade e ripercorrendo le proprie traiettorie personali, contribuiamo a innescare un ciclo virtuoso fatto di storie, lingue, linguaggi, persone, culture, ricordi e Memoria, che hanno il potere di regalare consistenza agli spazi, riempiendoli di significati, storici e intimi. Per comprendere davvero l’anima riservata e l’energia travolgente di questa città, è necessario iniziare dalla Storia e avvicinarsi progressivamente alle storie di vita. Dalla città alla persona.

L’aspirazione e l’augurio che faccio a me stessa e a chi mi sta leggendo è di continuare a percorrere le tappe della propria mappa mentale, fatta di incontri, sapori, emozioni, ricordi, legami, viaggi, che uniscono la nostra storia personale con la Storia del passato e con le vite delle persone che ogni giorno fanno di Torino casa nostra.

Per questo contributo finale alla campagna, il Centro Studi Sereno Regis ha collaborato con il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà, che da anni si impegna per mantenere viva la Memoria e fornire spunti di riflessione sull’attualità, alla luce dei rinnovati valori espressi durante la Resistenza, di pace, libertà e democrazia. Raccontare questa pagina del nostro passato ci consente di immergerci in modo consapevole nel nostro presente e di immaginare un futuro accogliente e libero.

Prima tappa: Piazza Primo Levi

Percorro via San Pio V in punta di piedi, perché ho freddo e la strada è vuota. È mattina presto, non voglio far rumore, non voglio disturbare quella quiete accogliente che tanto mi piace di Torino. Ho anche un leggero languorino e non vedo l’ora di riscaldarmi le mani e il cuore con un buon cappuccino. Quel pensiero mi fa procedere con passo più spedito e in pochi minuti mi trovo davanti a Pandàn, un locale che profuma di casa, gestito e animato dalla cooperativa sociale Esserci. Accolta da sorrisi gentili, scelgo la farcitura della brioche (che prima di trasferirmi a Torino, avrei chiamato cornetto o, più elegantemente, croissant) e, seduta al tavolino di legno chiaro, mi godo quel momento così familiare e intimo. Con un piccolo brivido di commozione, accentuato forse dall’imminente incontro con il freddo autunno sabaudo, saluto Paolo e Lollo, ed esco dal locale. La prima tappa della mia mappa personale dista pochi passi da quella storica. Lì, davanti alla Sinagoga, mi attende Andrea Ripetta, infreddolito almeno quanto me, sebbene abbia vissuto più autunni sabaudi di quanto abbia fatto io.

L’edificio con il suo stile moresco, le cupole a cipolla, i colori pastello intervallati da rifiniture in oro, mi toglie il fiato ogni volta che lo ammiro. Andrea mi spiega che la Sinagoga “venne costruita su progetto dell’architetto Petitti, dopo che il progetto dell’architetto Antonelli venne bocciato perché alla fine risultava essere troppo grandioso per le esigenze della comunità torinese. La leggenda narra che il rabbino disse: ‘Noi vogliamo un posto dove poter incontrare la voce di Dio, non un ascensore per poter arrivare fino a Lui.’ Dopo le leggi razziali, si cercò di ovviare a tutte le limitazioni imposte e si venne così a creare anche un ghetto spontaneo per trovare solidarietà e risorse comuni. L’impossibilità per gli ebrei di insegnare e di seguire le lezioni nelle scuole italiane fece adottare delle strategie, tra cui dar vita a una scuola ebraica, con ingresso in via Sant’Anselmo. Con lo scoppiò della seconda guerra mondiale, una bomba probabilmente destinata alla stazione di Porta Nuova, colpì la Sinagoga… Il peggio doveva ancora arrivare, ma quell’episodio fu davvero un brutto segno del destino per la comunità ebraica. La Sinagoga violentemente danneggiata è simbolo di una guerra distruttiva ancor prima che inizi l’occupazione tedesca.”

Emanuele Artom, nei suoi diari di partigiano ebreo, racconta che ci sono stati degli attentati al portone della Sinagoga, delle avvisaglie antisemite che inneggiavano un odio contro la popolazione ebraica della città. In alcune pagine descrive il bombardamento:

21 novembre 1942. Stamani mi sveglio verso le sette e scendo con la mamma. Le vie sono cosparse di frammenti di vetro e biancheggianti di fosforo. I negozi sembrano saccheggiati, ma abbiamo l’impressione che gli incendi di questa notte lasciassero prevedere il peggio. Per la strada grande animazione, crocchi presso i luoghi colpiti. Sembra anche che ci sia più gente perché i tram non funzionano. Piazza San Carlo brucia ancora ed è piena di gente. Ero in corso Vittorio quando incontro una mia alunna che mi dice che il Tempio è bruciato. Viene appunto di là e mi riferisce che qualche passante diceva: ‘Sta bene agli ebrei che hanno voluto la guerra’. Vado a vedere. L’interno è tutto distrutto e coperto di calcinacci. Tutt’intorno quasi intatte le mura con le quattro torri. Anche la Comunità è incendiata e la scuola pericolante.

Nella mia narrazione, via San Pio V è luogo di culto, di ritrovo, di festa e di celebrazione. Luogo di condivisione, resistenza spontanea e difesa della dignità.

Seconda tappa: Porta Nuova

Passeggiare per le strade di San Salvario è un’avventura. Gli storici palazzi di fine Ottocento con i lunghi ballatoi; i minimarket che raccolgono almeno tre continenti in 40 metri quadri; gli intensi e avvolgenti profumi emanati dai ristoranti etnici; il mercato caotico e intimo; il locale con la carta da parati dove il caffè è ‘na cosa seria.

Percorrendo corso Vittorio Emanuele, diretti verso la Stazione di Porta Nuova, incrocio Bibo, un’istituzione nel quartiere e in tutta la città. L’ho conosciuto tre anni fa, quando avevo deciso di voler vivere appieno la mia fase da studentessa fuorisede e mi nutrivo quasi esclusivamente di falafel arrotolato. Non dimenticherò mai il mio primo take-away da Horas: un sorriso enorme, gli occhi stretti come due lune e un “Ciao bella terrona!”.

“Ho un buon rapporto con tutti i miei clienti, un rapporto di amicizia non esclusivamente commerciale. Quando hanno aperto altri kebab nel quartiere,  ho deciso di trovare una strategia diversa da tutti gli altri… per rimanere impresso nella testa dei miei clienti devi avere qualcosa di particolare. Ho iniziato a chiamarli “immigrato”, “terrone”, “calabrese”, per farli ridere e per sciogliere il ghiaccio tra italiani e immigrati. Quando qualcuno si offende – mi è capitato due volte in tutta la mia carriera – io gli dico “non vedi che sto sorridendo?”… non tutti capiscono l’ironia”.

Così, Bibo è riuscito a conquistare il mio cuore prima ancora di farmi provare il suo delizioso hummus.

San Salvario è un mondo dentro la città. Un quartiere ritmico, complesso, multiforme, atemporale, il cui carattere multietnico emerge come una risorsa culturale, economica e sociale. Se mi venisse chiesto di esprimere la sua anima con un simbolo, probabilmente sceglierei un kebab. La sua diffusione è il risultato di un continuo processo di mescolanza, che diluisce le connotazioni culturali marcate e colloca questa pietanza in uno spazio intermedio tra il cibo di strada tradizionale e il cibo esotico.  Il suo consumo si allontana sempre più da un’esperienza di eccezionalità e diversità gastronomica, per entrare a far parte delle pratiche quotidiane. Un po’ come la pizza napoletana… un “cibo senza frontiere”.

Questa è San Salvario, Memoria e innovazione. Complessità e versatilità. L’adiacenza alla Stazione di Porta Nuova ha fatto sì che da subito questa zona rappresentasse un punto di riferimento per i migranti. Per chi arriva e per chi parte. Porta Nuova è un luogo imprescindibile nella mia mappa personale, una tappa essenziale per raccontare le dinamiche e le evoluzioni che caratterizzano Torino, le persone e le voci che la animano. Porta Nuova è anche Memoria, distruzione e speranza. Ci troviamo sotto l’arcata principale e Andrea inizia il suo racconto, con trasporto e un po’ di commozione.

“La stazione di Porta Nuova fu progettata dall’ingegnere Alessandro Mazzucchetti in collaborazione con l’architetto Carlo Ceppi tra il 1861 e il 1868, e venne edificata là dove anticamente sorgeva la porta della città, demolita dai francesi, al posto dell’Imbarcadero ferroviario per Genova. Durante la seconda guerra mondiale, la stazione di Porta Nuova subì delle trasformazioni: la tettoia a volta venne demolita per poter recuperare il materiale ferroso che serviva per l’industria bellica, mentre il fabbricato destinato ai viaggiatori fu coperto con delle tettoie in legno.

Nell’autunno del 1942, quando ebbe inizio la fase terroristica dei bombardamenti – così definita dagli studiosi per distinguerla dalla prima fase in cui le bombe dirompenti non erano così distruttive – la popolazione decise di sfollare… Le protezioni antiaeree, i rifugi privati e pubblici che erano stati costruiti in città, non erano sufficienti per poter mettere al sicuro la popolazione. C’era chi usava gli infernotti, dei locali che si trovavano al di sotto del livello delle cantine, dove si conservava il cibo. I palazzi storici di via Po ne avevano ed erano stati rinforzati con il legno. Anche i palazzi costruiti dopo il 1935 avevano l’obbligo di dotarsi di rifugi antiaerei per decreto del Comune, perché si sapeva che la politica estera dell’Italia era aggressiva e avrebbe probabilmente portato al conflitto. Nonostante questa preparazione, Torino era inadeguata: solo il 15% della popolazione poteva considerarsi in salvo, su un totale di 660 mila abitanti.

Lo sfollamento divenne dunque prassi consolidata e la stazione rappresenta il luogo simbolo di questo fenomeno. Allo stesso tempo, Porta Nuova è anche il luogo simbolo della deportazione, perché proprio da lì partirono centinaia di persone destinate ai campi di transito, o di concentramento. Il primo trasporto partì il 13 gennaio 1944, il secondo poco più di un mese dopo, il 18 febbraio, entrambi con destinazione Mauthausen. Le prime deportazioni erano soprattutto di politici, partigiani antifascisti catturati e radunati negli istituti di detenzione, come le Carceri Nuove. Oggi, la Stazione di Porta Nuova porta una lapide con un triangolo rosso proprio davanti al binario 17 che all’epoca era il binario 2, per ricordare tutti i deportati.”

Alla fine della guerra, la Stazione di Porta Nuova diventa anche il simbolo del ritorno. I reduci della deportazione tornano nella città che li aveva abbandonati, mandati via. Un ritorno che porta con sé il peso del ricordo e del racconto, difficili e necessari per far sì che ciò che è stato non sia dimenticato.

Ricorda Ferruccio Maruffi, partigiano in Val di Lanzo e sopravvissuto alla deportazione nei campi di sterminio:

Quel 9 giugno 1945, a Porta Nuova, scendemmo dal convoglio a piccoli gruppi […] Afro ed io ci recammo in un bar, sotto i portici di via Sacchi, erano circa le tredici e il locale era affollato e rumoroso. Al nostro ingresso, di colpo, i presenti si allontanarono di qualche passo e si fece improvvisamente silenzio. […] Afro ed io allora ci guardammo in faccia, attentamente, come se ci vedessimo per la prima volta. E ci siamo ‘visti’ come eravamo (Maruffi, 1993).

Terza Tappa: Piazza Castello

Percorriamo via Roma, che inizia ad animarsi con l’apertura dei negozi nei quali si trova sempre una ragione valida per acquistare qualcosa, mentre lo squarcio interiore si dilata. Quindici minuti dopo siamo in Piazza Castello, l’ultima tappa di questa intensa giornata da “turista nostalgica” nella mia città.

Andrea mi spiega che, durante la guerra, la Piazza era stata coltivata a grano per sopperire alla carenza di cibo e occultare l’inutilità della tessera annonaria, insufficiente a garantire il sostentamento delle famiglie.

“Le persone che non andarono in guerra furono chiamate a lavorare in questi “orti di guerra” per sottolineare come anche la popolazione civile contribuisse alla difesa della patria. Da una parte, la Piazza rappresenta l’emblema della propaganda fascista, utilizzata per far credere che il regime aiutasse. Dall’altra, era anche il centro dell’antica “area di comando”, teatro dell’insediamento delle nuove cariche cittadine nominate dal Comitato di liberazione nazionale della Regione Piemonte.

La mattina del 28 aprile, il giorno della liberazione, le milizie tedesche e fasciste che si erano riunite nella notte presso i Giardini Reali, avevano lasciato la città. Cessate le ultime resistenze, Torino era in mano partigiana… si libera da sola. Non appena la notizia, confermata dal Comando piazza con un bollettino informativo, giunse al CLN riunito in seduta permanente presso la Conceria Fiorio, partì un corteo con le auto, che avanzò con non poche difficoltà, dato che c’erano ancora i cecchini ai piani alti e sui tetti. Il tricolore fu portato in città dal Sottosegretario alle Terre occupate, Aldobrando Medici Tornaquinci, paracadutato nelle Langhe dal governo di Roma con un plico di documenti. Lucia Boetto Testori ne fu la fidata staffetta; si mise i documenti sotto il vestito… erano talmente tanti che sembrava avesse il pancione. Un collega alla Conceria, Sandro, le prestò anche una fede per darle una certa aria di rispettabilità e credibilità. Il tricolore arrivò in Piazza Castello e fu issato sul palazzo della Prefettura da poco liberata.”

Così Ada Gobetti, giornalista, traduttrice e partigiana in Val Germanasca ed in Val di Susa, ricorda quei momenti:

Dalle finestre, dagli angoli delle strade, sparavano ancora, ma la gente, incurante del pericolo, si riversava sulla via al nostro passaggio – Viva l’Italia! Viva i partigiani! Viva il CLN! – gridavano; e gettavano fiori; e le madri alzavano i bimbi e li tendevano verso di noi, perché vedessero, perché ricordassero (Gobetti, 1996).

A pochi passi da Piazza Castello si trova l’ultima tappa della mia mappa personale, il luogo dove tutto ha avuto inizio. In via Garibaldi 13, sventolano fiere le bandiere della pace alle finestre del Centro Studi Sereno Regis. Varcato il cancello in ferro battuto, ci si lascia alle spalle la frenesia cittadina per immergersi in un’oasi di Resistenza. Lì ho scoperto la meraviglia della complessità. Lo stato di galvanizzante inquietudine derivante dal partecipare attivamente in una battaglia che si percepisce come intrinsecamente giusta e necessaria. La irrefrenabile urgenza di interrogarsi sul presente in modo critico; la pienezza di una quotidianità vissuta con rinnovata consapevolezza verso il mondo.

Luogo di responsabilità e condivisione, dove la costruzione di relazioni risponde all’esigenza di “superare l’impoverimento umano e culturale a cui ci porta la solitudine della competizione a ogni costo” (M. Aime, Comunità). Il Centro Studi Sereno Regis è uno stimolo a riconsiderare il nostro modo di stare al mondo; un invito a restituire profondità al paesaggio circostante, risultato del costante intrecciarsi di Memoria e intimità.

Autrice Benedetta Pisani


2 commenti
  1. Cinzia Picchioni
    Cinzia Picchioni dice:

    ben scritto, emozionante, benedetta Benedetta.
    Ho passeggiato anch'io con te, virtualmente (come te non sono torinese e ho provato un po' le medesime sensazioni arrivando da Milano nel 1985).
    Grazie molte.
    Cinzia Picchioni

    Rispondi

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