Dei libri e del leggere
Dei libri e del leggere. Letture sistematiche o letture disordinate?
Beh, certo, se si sta studiando qualcosa occorre farlo con una bibliografia coerente; improntando il proprio lavoro a un «ordine», convogliando una ricerca entro certi limiti.
Questo però è un aspetto del leggere che ha più a che fare con un impegno professionale (in alcuni casi necessario naturalmente e magari stimolante) che con il piacere. Eppure, nel suo senso più proprio, la lettura cos’è, se non appunto un itinerario di piacere adagiato nella libertà di rispondere ai molteplici stimoli della nostra curiosità intellettuale?
Quindi credo che, nel suo significato più profondo, il leggere o è disordinato o, alla fine dei conti, non è. La curiosità del conoscere prende corpo in noi, quando abbiamo la fortuna di avvertirla; come un albero che crescendo moltiplica i propri rami e allarga progressivamente la sua chioma. Da un saggio di archeologia sul mondo miceneo alla Recherche di Proust, dall’Edda di Snorri a un giallo di Simenon, da un volume di biologia a uno sulla Rivoluzione francese, dalle quartine di Omar Khayy?m alle memorie di Pelé, dall’autobiografia di un grande alpinista alle Upani?ad, e così via. Se la lettura non diviene l’impulso a passare da uno all’altro di questi rami, a incontrare e a esplorare il più ampio numero possibile degli universi della mente e del sapere, resta una potenzialità non espressa pienamente.
La lettura è, in un certo senso, la vocazione a una fuga continua dai limiti di una disciplina, dal recinto di un ambito di studio. Ma come tale, spinta alle sue estreme conseguenze, finisce anche per diventare una suggestione impraticabile: quella di una incessante ricerca del principio del piacere.
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Non pratico di frequente l’atto del rileggere, spinto in genere dallo stimolo di scoprire sempre il nuovo, di aggiungere un’esperienza letteraria in più, di aumentare la polifonia delle voci ascoltate. Il demone della curiosità, soprattutto per mancanza di tempo, spesso prevale sul gusto del riassaporare.
Ma oltre a questo, è in agguato il sospetto che una nuova lettura possa guastare il ricordo di un’esperienza passata. Libri, come anche film, che si sono molto amati in un’età diversa, in circostanze di vita mutate potrebbero non riservare più l’impressione e l’entusiasmo della prima volta. Magari quell’entusiasmo era in parte superficiale, magari l’impressione di oggi sarebbe più matura e consapevole, o forse semplicemente diversa, in ogni caso è legittimo il timore di intaccare quei piccoli cristalli di vita trascorsa che ancora, al pensarci, riescono a rinnovare nel nostro animo l’incanto di ore passate sulle pagine di un libro.
Esito ad esempio, pur desiderandolo, all’idea di rileggere l’epistolario di Michelstaedter, che tanto ho amato, perché dominato dal ricordo di quelle ore febbrili che dedicai a quest’opera durante la stesura della tesi: il forte coinvolgimento emotivo con la vita del loro autore che quelle pagine mi provocarono difficilmente potrebbe manifestarsi oggi con l’intensità di allora.
Eppure, e per converso, con l’avanzare dell’età mi accorgo che fa capolino con maggior frequenza la volontà di rileggere, di tornare a ciò che è stato fondamentale nella propria formazione e nell’esperienza di vita. Per rimeditarlo e forse come conferma della sua effettiva importanza. Ultimamente ho sentito l’impulso di rileggere Senilità e Una vita di Svevo, uno degli autori decisivi della mia giovinezza, e, passati oltre vent’anni, l’ammirazione per la grandezza letteraria è rimasta immutata: se la percezione di novità assoluta della prima volta mancava, era però presente il senso di un’esperienza rinnovata che non diminuiva il coinvolgimento e lo stupore, ma anzi li accresceva.
Mi sono accorto che il passare del tempo non solo non ha scalfito l’impatto emotivo suscitato in me da quelle pagine, ma che l’aggiungersi degli anni mi ha permesso di avvertire con esse una comunione ancora più profonda, perché mi ha messo in condizione di affondare in strati più riposti di scrittura, e di vita, che a un primo sguardo avevo mancato di notare. L’entusiasmo della scoperta provato in gioventù si fondeva, e rimaneva in equilibrio, con l’accresciuta accortezza critica scaturita dalla maturità. Allora ho compreso qualcosa che certamente sa di ovvietà, ma un’ovvietà che a ognuno tocca scoprire dentro di sé: soltanto con l’andare del tempo si può avere una reale consapevolezza, vissuta e non teorica, dell’autentico significato della parola «classico» e della luce che da essa emana.
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Mentre cercavo una sistemazione per un nuovo libro nella mia biblioteca mi sono accorto di avere sugli scaffali Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, che non ricordavo di possedere. Da dove arriva? Dall’appartamento di un amico probabilmente, preso in ricordo assieme ad altri dopo la sua scomparsa, ma non ne sono totalmente sicuro. Della Ortese sapevo di avere in casa L’iguana e Il cardillo addolorato – e mi ricordavo con precisione il posto in cui li avevo messi – ma non altro, tanto che qualche tempo fa sentendo citare Il mare non bagna Napoli mi sono detto che prima o poi avrei dovuto comprarlo.
Nonostante io sia dotato di una buona, forse ottima, memoria per i libri che negli anni ho acquisito e di volta in volta collocato, mi capita, nel trascorrere del tempo e nell’accumularsi dei volumi, di incorrere in qualche dimenticanza. Trovo però sia bello convivere con una biblioteca che, anche se non borgesiana, è sufficientemente ampia da non poter più essere perfettamente controllata dalla propria mente. Una biblioteca in cui è possibile aggirarsi senza possedere una mappa precisa di tutti gli scaffali che la compongono, nella quale c’è dunque spazio per l’inaspettato, per un incontro inatteso, per l’imprevisto – esattamente come nella vita.
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