Talebani a Herat e Kandahar. Il governo ora media

Autore
Giuliano Battiston


Afghanistan. Gli studenti coranici entrano nella seconda e la terza città afghane: talebani a Herat e Kandahar. Dietro le quinte, Kabul offre la condivisione del potere e chiede a Stati uniti, Cina, Russia e Pakistan di intervenire. Il governatore dell’Helmand si arrende, arrestato per tradimento appena arrivato nella capitale

Talebani a Herat e Kandahar
Immagine di repertorio | Fonte: Wikimedia Commons CC BY-NC-ND 2.0

I Talebani sono entrati ieri a Kandahar ed Herat, la seconda e la terza città del Paese. Hanno occupato nuovi quartieri a Lashkargah, nella provincia meridionale dell’Helmand e conquistato la città di Ghazni, dopo che il governatore dell’omonima provincia, Dawood Laghmani, ha concordato la resa con i Talebani. Arrivato a Kabul, le autorità hanno arrestato Laghmani come «traditore» insieme ai suoi uomini più fidati.

Sbaragliato dall’offensiva militare dei Talebani, indebolito dall’accordo bilaterale che Washington ha voluto firmare con gli studenti islamici nel febbraio 2020, il governo di Kabul ieri a Doha ha offerto loro un piano di condivisione del potere. Così ha riferito un anonimo membro della delegazione governativa all’Ap. L’unica condizione: deporre le armi.

I Talebani però tirano dritto, sembrano aspirare alla resa completa. Quella attuale ancora non lo è. Nel momento in cui scriviamo le sorti di Herat e Kandahar, e dunque del governo, sono ancora incerte. I Talebani hanno annunciato di averle conquistate. Ma in alcuni quartieri si continua a combattere, anche se si rincorrono le voci sulla possibile fuga del governatore di Herat e dello stesso Ismail Khan, l’ex signore della guerra e dominus della provincia che nelle settimane scorse si era guadagnato i plausi della popolazione mettendosi alla guida delle milizie anti-talebane locali, all’età di 75 anni.

Fa impressione, per chi conosce la splendida città orientale, vedere i militanti armati dentro la Cittadella così come, armi alle mani, di fronte a un altro simbolo come la Jama Mashid, la grande moschea di epoca timuride.

«Vogliamo la pace e vogliamo un mediatore», ha detto a Doha Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio di riconciliazione nazionale, invocando una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza dell’Onu e spronando i membri della cosiddetta Troika allargata, Stati uniti, Cina, Russia e Pakistan a condannare i Talebani e frenarne l’avanzata.

Parole al vento. Washington ha chiuso la partita. Pechino e Mosca sono attori pragmatici. Preoccupati delle minacce di instabilità, ma pronti a stringere la mano a mullah Abdul Ghani Baradar, il volto diplomatico del movimento.

Quanto a Islamabad, il primo ministro Imran Khan, oscilla come sempre tra il negare i rapporti con i Talebani e il farsene «portavoce»: ieri ha dichiarato che per gli studenti coranici non può esserci dialogo con Kabul fino a quando al potere c’è il presidente Ashraf Ghani. Che ieri ha partecipato a un incontro con i giovani, chiedendo di unirsi intorno alla nazione e al grido «Allah Akbar», Dio è grande. Come se niente fosse, mentre i Talebani stringono la morsa intorno a Kabul.

La strategia dei Talebani non punta necessariamente alla spallata militare su Kabul. Mira a far collassare dall’interno il governo, alimentando spinte centrifughe e divisioni. Tanto più presenti in un sistema presidenziale fortemente centralizzato come quello afghano, in cui il presidente gode di un potere quasi egemone.

Ghani, per carattere e natura, ha ancor più concentrato le leve di potere nell’Arg, il palazzo presidenziale, alienando molti leader locali e aumentando la distanza, già ampia, tra il centro e la periferia del Paese. Uno degli elementi che spiegano la disfatta repentina dell’esercito.

Gli osservatori più attenti ricordano bene tutte le nomine dall’alto, piovute da Kabul, spesso respinte dalle province. Vale anche per Laghmani, il governatore scappato da Ghazni. A maggio era stato nominato da Ghani governatore della provincia di Faryab, prima che una sollevazione popolare alimentata dal maresciallo Dostum ne impedisse l’investitura. Vale la pena ribadirlo: la forza dei Talebani, in 20 anni di guerriglia e in questi ultimi mesi di offensiva militare, è la debolezza del governo e delle istituzioni.

Appare dunque paradossale che l’ultima risorsa di Ghani sia il sostegno e la «resistenza» di quei leader jihadi, vecchi membri della cosiddetta Alleanza del Nord, che in tanti anni ha cercato di marginalizzare. Tra quelli che nelle ultime settimane non si sono fatti fotografare sui campi di battaglia, qualcuno potrebbe già averlo tradito. Stringendo un patto politico bilaterale preventivo con i Talebani, al Nord.


Fonte: il manifesto, 13 agosto 2021

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