Progetto Montagna Sacra

A cura di
Toni Farina


Il Progetto Montagna Sacra è ideato per il centenario del primo parco italiano, il Parco nazionale Gran Paradiso. Un progetto culturale che non prevede vincoli e divieti, ma solo una adesione ideale.

Per aderire mandare un mail a: [email protected] indicando la qualifica con cui si vuole apparire (ad esempio camminatore, insegnante, amante della montagna, guida ecc…).

Per chi vuole leggere ecco il progetto integrale.

Una “Montagna Sacra” per il centenario del Parco nazionale Gran Paradiso. Un progetto culturale

Le premesse

1922. Una data storica per la conservazione della natura in Italia. E’ l’anno che ufficializza l’istituzione del Parco nazionale Gran Paradiso (PNGP), seguito, a poche settimane, anche del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM). L’istituzione dei primi due parchi nazionali italiani – tra i primi anche in Europa (preceduti dai PN istituiti in Svezia, Svizzera e Germania) – salva dall’estinzione tre specie “iconiche” della grande fauna italiana: lo stambecco nel PNGP, l’orso marsicano e il camoscio d’Abruzzo nel PNALM. La loro istituzione consente altresì la tutela di paesaggi, ecosistemi, comunità e specie animali e vegetali di straordinario valore scientifico e culturale e segna la nascita dell’ambientalismo pionieristico italiano.

Il prossimo anno, 2022, ricorrerà quindi il centenario dei due parchi, “fiori all’occhiello” del sistema di aree protette nazionali. La ricorrenza sarà occasione di manifestazioni, dibattiti, mostre, incontri e pubblicazioni, già in fase di preparazione da parte dei due Enti. Forse, per un’occasione del genere, serve proporre qualcosa di più.

Le problematiche ambientali che, cent’anni orsono, hanno portato alla nascita di PNGP e PNALM, come di altri parchi nazionali in Europa e altrove, sono ben diverse da quelle che l’umanità deve oggi fronteggiare e già evidenziate, nel 1972, dallo studio del Club di Roma “The limits to Growth”. La distruzione di ambienti e specie – culminata in Italia negli ultimi decenni del XIX secolo – è oggi connessa a minacce di scala globale, quali il riscaldamento climatico, la sovrappopolazione, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse, in associazione a una presenza umana sempre più invasiva e permeante gli ecosistemi. La natura intatta, libera o quasi da impronta umana (“the human footprint”), si trova relegata a pochi angoli e a estensioni sempre più limitate del nostro Pianeta.

Il territorio del PNGP, come quello della maggior parte delle aree mondiali protette (l’85% di esse non supera i 1.000 km2), copre un’estensione relativamente ristretta (710 km2). Il Parco tutela le ricchezze biologiche racchiuse al suo interno, ma poco può fare verso problematiche di scala globale.

Non del tutto.

Per la sua storia, per tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta nel panorama della conservazione, anche a livello internazionale, il PNGP può e deve fornire, proprio in occasione del suo centenario, un segnale culturale forte per la tutela della natura, un messaggio di responsabilità, nuovo e dirompente, comparabile a quello che, cent’anni orsono, ha significato la sua istituzione. Il centenario del PNGP (come del PNALM) deve essere occasione per ripensare il ruolo di queste istituzioni. Un ruolo di riferimento, più incisivo di quanto sinora avuto, per far sì che la transizione ecologica non sia solo affidata alla tecnica, ma sia anche e, soprattutto, transizione culturale.

La prima riflessione

L’anno della pandemia, l’anno del confinamento degli uomini nelle loro abitazioni, ha visto gli animali ricomparire in spazi “umani” con una rapidità sorprendente. Noi chiusi, loro liberi. Ma il confinamento ha anche prodotto, appena le norme lo hanno consentito, un’esplosione di presenza umana nelle aree protette, come mai prima. Un’affluenza che impone nuove riflessioni verso le necessità di rispetto e tutela delle aree di natura più delicate.

È evidente, infatti, che anche le attività ricreative “verdi” (escursionismo, ciclismo, corsa, arrampicata, sci alpinismo, canoeing, ecc.) pongono problemi d’impatto sull’ambiente, determinato non tanto dai mezzi (in sé, “eco-compatibili”) con cui sono praticate, ma dall’intensità (numero di persone) e dalla frequenza (ricorrenza temporale) del fenomeno. L’impatto non è slegato dalla coscienza con cui le attività sono praticate, ossia una natura fruita dai più come spazio, come palestra delle proprie attività, luogo d’azione e di soddisfacimento personale e non come ambiente, magari fragile ed esclusivo, di vita di altri esseri.

Tutto lascia ipotizzare che numeri e modalità di questo uso ludico-sportivo-ricreativo di natura si manterranno o, anzi, incrementeranno negli anni a venire. Il primo problema per la conservazione nelle aree protette è già, e sarà sempre più, l’impatto turistico/ricreativo di massa.

Il PNGP racchiude uno spicchio di straordinari ambienti alpini. Ambienti simbolo, per loro stessa natura, di inacessibilità, inviolabilità e di dominio della natura. La realtà non è esattamente questa. Tutte le cime del Parco sono “classiche” alpinistiche. Le arrampicate, su roccia o ghiaccio, sono ampiamente diffuse e praticate da numeri rilevanti di persone. Non esistono nel Parco luoghi o aree precluse agli uomini o non raggiungibili da alpinisti esperti.

Le altre riflessioni

Invasività e alterità

L’Uomo è di gran lunga la prima e più importante specie invasiva. Da quando è uscito dall’Africa (l’“Out of Africa” degli antropologi) H. sapiens ha poco per volta raggiunto e colonizzato – unica specie vivente – ogni angolo del mondo, Antartide esclusa. La sua espansione si è accompagnata alla scomparsa degli “altri”: le tre-quattro specie cugine del genere Homo prima esistenti e poi migliaia di altre specie (quante scomparse prima di essere descritte?), in percentuali elevatissime tra quelle di grandi dimensioni e insulari.

Ora siamo quasi 8 miliardi e il numero crescerà ancora, sin oltre i 10 miliardi. Quale spazio avranno gli “altri” in un mondo sempre più sovrappopolato e antropizzato? Forse lo spazio di un’Arca di Noé? No, non basta. Limitate ad aree ristrette (popolazioni numericamente piccole), le specie inevitabilmente si estinguono e non tutte si adattano a vivere in ambienti antropizzati.

Indipendente da ogni diretto tornaconto umano, è nostra etica responsabilità consegnare alle future generazioni la ricchezza biologica che abbiamo conosciuto (già notevolmente impoverita rispetto al passato). Per farlo, si dovrà pensare di lasciare spazio alla “alterità” (ciò che non è noi), decidendo di escludere la nostra presenza da date aree del Pianeta, da (con)sacrare agli altri. E’ l’idea recentemente espressa anche da Edward O. Wilson – il Darwin del XXI secolo – con il suo libro “Metà della Terra”.

Conquista e limiti

L’idea della conquista (la “mad ambition”), la stessa che ci ha condotto in ogni angolo della Terra, sulla Luna e, tra qualche anno anche su Marte, è profondamente insita nella natura umana, tanto da averne forse una base genetica. L’idea della conquista è, soprattutto, fortemente radicata nella cultura alpinistica, ne è, in qualche modo, l’anima stessa. La natura alpina, da oggetto di ammirazione estetica dei romantici, è divenuta con l’alpinismo (e anche con la scienza) luogo di conquista e di sottomissione, a scopo militare, sportivo e ora soprattutto turistico.

Un’anima che si è, peraltro, fortemente trasformata negli ultimi anni, con la prevalenza dell’esibizione sociale sulla semplice soddisfazione privata. È il momento del protagonismo, delle performance sportive autocelebrative, praticate da persone indifferenti (in percentuale non trascurabile) al rispetto e alla conoscenza dei luoghi, nonché al relativo impatto della propria presenza. Palestre all’aria aperta più che ambienti, come si è detto, terreno prediletto per mettere in scena il superamento di ogni limite (quello della verticalità, della fatica, delle prestazioni, della velocità, dell’affollamento, del deterioramento degli habitat naturali…).

Forse è giunto il momento di porsi dei limiti, superando il concetto novecentesco della conquista “no-limits”, come già fecero – in grande anticipo sui tempi – gli scalatori del Nuovo Mattino negli anni Settanta, che respinsero l’obbligo e il feticcio della vetta.

È tempo di cambiare. Conquiste non più fisiche, ma spirituali. Cime come luoghi da lasciare “inviolati” alle aspirazioni di “possesso” fisico, ma fonti di ispirazione, contemplazione e riflessioni interiori.

La Montagna Sacra

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Foto 1

La proposta è semplice, priva di costi e di divieti: istituire una Montagna Sacra nel Parco nazionale Gran Paradiso, una montagna consacrata alla natura da cui escludere ogni presenza umana, per dare senso e concretezza al centenario del Parco. Un’idea progettuale “rivoluzionaria” – in quanto capovolge dei modelli culturali: da no-limits a off-limits – di grandissimo valore simbolico, più che direttamente finalizzata alla conservazione (come nel caso delle riserve integrali). Un’idea mai realizzata ex novo nel mondo occidentale. Montagne sacre, nel senso religioso del termine, esistono in altre culture. Sono sacri alle culture locali il Machapuchare, 6993 m (Nepal) e il Kailash, 6638 m (Cina), preclusi all’accesso umano e, quindi, all’alpinismo, e l’Ulu?u – Ayers Rock, nell’omonimo parco nazionale australiano, vietato all’accesso turistico nel 2019.

Nel nostro caso, il termine sacro vuole enfatizzare un altro significato. La sacralità è, in effetti, una costruzione culturale, declinata in molte forme da diverse culture, anche come visione laica. Sacro come simbolo di tutta la Natura. Sacro non vuole quindi avere alcun collegamento a una particolare religione, né essere segnale di un particolare misticismo. La più antica etimologia del termine, d’altra parte, indica un luogo elevato e inaccessibile, affascinante, a prescindere dal culto religioso.

Montagna Sacra come luogo da lasciare esclusivamente agli “altri”, come simbolo affettivo ed emotivo della Natura tutta per il suo valore intrinseco, non in funzione umana.

Non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire, devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa. Si tratta di un simbolismo profondo, un simbolismo di dialogo con gli elementi naturali senza sopraffazione, che stimoli sentimenti di fascinazione e affiliazione. Sono i due costrutti individuati da E.O. Wilson nella sua ipotesi della biofilia.

Un luogo che incrementerà il proprio valore simbolico nel tempo: con che occhi sarà guardata quella cima dopo generazioni di assenza umana?La Montagna Sacra non sarà luogo di divieti. Un progetto culturale non può basarsi sull’imposizione. Non vi sarà, quindi, alcuna interdizione formale, nessun divieto d’accesso, nessuna sanzione pecuniaria per chi non vorrà “astenersi”. Molto più semplicemente, l’interdizione all’accesso sarà una scelta suggerita e, alla fine, (possibilmente) condivisa e rispettata da tutti. Il rispetto dell’area dovrà basarsi sulla condivisione e sull’autocontrollo sociale. Se qualcuno riterrà di dovere comunque salirci, renderà pubblica la propria insensibilità e il proprio egoismo.

Un progetto che propone una nuova forma di fruizione del Parco, totalmente diversa dalle attuali. Intorno alla Montagna Sacra si potranno costruire, con la collaborazione degli operatori locali, itinerari e punti di sosta che pongano l’enfasi sull’osservazione e non sulla conquista, sul momento di conoscenza e di contemplazione più che sulla competizione sportiva, così da generare riflessioni sul nostro rapporto con la natura e promuovere una diversa cultura della fruizione della montagna e, più in generale, degli ambienti naturali.


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Foto 2

Quale e perché

Il progetto propone di eleggere il Monveso di Forzo (3322 m slm) a “Montagna Sacra” del Parco nazionale Gran Paradiso.

La scelta è motivata dalle seguenti ragioni:

  1. Si tratta di “una delle più eleganti montagne del vallone di Forzo”, la cui forma di “slanciata piramide quadrangolare” (Andreis, Chabod & Santi, CAI-TCI 1980) – da qualunque versante la si guardi -, rappresenta l’icona delle cime alpine nell’immaginario collettivo.
  2. Si trova sulla cresta spartiacque tra Piemonte e Val d’Aosta ed è quindi condivisa dai due versanti del Parco (foto 1).
  3. Sul versante piemontese, la cima si trova alla testata del Vallone di Forzo (Val Soana) e, insieme alla Torre di Lavina, ne caratterizza in modo importante il paesaggio (foto 2). La cima è ben visibile già dalla media valle. Sul versante valdostano, si localizza sul versante destro del Vallone di Valeille (Val di Cogne) nel gruppo di cime detto “Le Arolle” (foto 3), ed è visibile da Gimillan e, anche se in modo meno prominente, dall’abitato di Cogne. Il Monveso è visibile dalla pianura canavesana e dall’area metropolitana torinese.
  4. Il gruppo de Le Arolle, di cui il Monveso fa parte, racchiude “montagne belle e solitarie” e dove “gli incontri umani sono al limite dell’inesistente”. Il Monveso costituisce, in effetti, una meta alpinistica da sempre molto poco frequentata, per il suo isolamento e per l’impegno fisico richiesto al raggiungimento della sua cima (dislivello di 2144 m da Forzo e di 1700 m da Lillaz).

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foto 3

L’istituzione del Monveso a “Montagna Sacra” comporterebbe quindi l’esclusione umana da un’area (l’intera piramide) già attualmente frequentata in modo limitatissimo a fini alpinistici e escursionistici. C’è però da ritenere che proprio la sua istituzione costituirebbe un “unicum” attrattivo, per una fruizione turistica responsabile e a distanza, particolarmente rilevante per la Valle di Forzo.


Comitato promotore:

  • Giuseppe Barbiero – ecopsicologo, Univ. della Valle d’Aosta
  • Enrico Camanni – scrittore, giornalista, alpinista
  • Duccio Canestrini – antropologo
  • Guido Dalla Casa – filosofo e scrittore
  • Toni Farina – membro Consiglio Direttivo PNGP
  • Franco Ferrero – Direttore Consorzio Operatori turistici Valli del Canavese
  • Pietro Lacasella – blogger Alto Rilievo
  • Beppe Leyduan – blogger I Camosci Bianchi
  • Massimo Manavella – gestore Rifugio Selleries, Roure (TO)
  • Antonio Mingozzi – zoologo, Univ. della Calabria, già Direttore PNGP

Primi sottoscrittori:

  • Luisella Battaglia – filosofa, Univ. di Genova, Dir. Sc. Ist. Italiano di Bioetica
  • Franco Baudino – montanaro, già sindaco di Elva (CN)
  • Piero Belletti – Segretario generale Federazione nazionale Pro Natura
  • Diego Bianchi – Chalet Rosa dei Monti, Piamprato Soana (TO)
  • Giuseppe Bogliani – zoologo, Univ. di Pavia
  • Luisa Bonesio – Direttore Museo dei Sanatori di Sondalo (SO)
  • Fabrizio Bottelli – Direttore Oasi WWF Giardino Botanico di Oropa (BI)
  • Daniele Cat Berro – Redattore Rivista Nimbus
  • Andrea Cavallero – alpicoltura, Univ. di Torino
  • Giovanna Davini – dottore forestale, già guardaparco PNGPMarcello Dondeynaz – membro Consiglio di Amministrazione Parco naturale Mont Avic (AO)
  • Maria Grazia Gavazza – Pres. Comm. Tutela Amb. Mont. CAI Piemonte Liguria Valle d’Aosta
  • Ivana Grimod – biologa, guida naturalistica PNGP
  • Matteo Lener – biologo, Tecnologo ISPRA, Progetto Life Sic2Sic
  • Sandro Lovari – zoologo, Univ. di Siena
  • Luciano Mazzoni Benoni – antropologo, Religions for Peace
  • Giuseppe Mendicino – scrittore, dirigente comunale
  • Roberto Menzio – Rifugio Massimo Mila Ceresole Reale, Valle dell’Orco (TO)
  • Luca Mercalli – Presidente Società Meteorologica Italiana
  • Franco Michieli – geografo, esploratore, scrittore
  • Bruno Migliorati – Presidente CAI PiemonteFederica Moretti – Libreria dell’Orco, Ceresole Reale (TO)
  • Pietro Passerin d’Entreves – zoologo, già Rettore Univ. della Valle d’Aosta
  • Paolo Pileri – urbanista, Politecnico di Milano, ideatore ciclovia Vento
  • Piermauro Reboulaz – Presidente CAI Valle d’Aosta
  • Enrico Rivella – biologo, ARPA Piemonte
  • Silvia Ronchey – filologa, Univ. RomaTre
  • Laura Tempesta – Chalet Rosa dei Monti, Piamprato Soana (TO)
  • Francesco Tomatis – filosofo, Università di Salerno
  • Marco Varda – guida ambientale escursionistica Regione Piemonte
  • Boris Zobel – già Dir. Centro di Educazione ambientale Pra Catinat (TO)

Nelle foto il Monveso di Forzo visto dalla Val Soana e dalla Valle di Cogne


1 commento
  1. giorgio
    giorgio dice:

    Plaudo alla proposta di almeno una montagna sacra in Italia e, magari, qualche altra lungo la catena delle Alpi.
    Dopo tanti anni e sforzi si è arrivati a far considerare ed a fruire la montagna in modo molto più consapevole e rispettoso. E quindi ben venga l'alzare ulteriormente l'asticella.

    Rispondi

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