Genova 2001 e nonviolenza

Antonino Drago, Mao Valpiana

NONVIOLENZA E SACRIFICIO

L’inventario della Fierucola della Terra Italiana, n. 18/19, Agosto 2001, pp. 18-19

            In questo momento tragico sia per la morte di un giovane che per la politica italiana, oltre che per i poveri del mondo che non si vedono affatto riconosciuti dai paesi ricchi con le loro idee autogiustificatorie, si può accusare il gruppo dei black block che hanno perseguito cinicamente la loro politica di distruzione, indifferenti ad ogni altro obiettivo degli altri (amici o nemici che fossero), si può accusare le frange di estremisti che sono intervenuti a Genova con l’idea che se comunque ci scappava la possibilità non avrebbero mancato di sfogare la loro volontà antagonista contro la polizia; si può accusare la polizia di aver lasciato scorrazzare i black block per due giorni in un luogo che stava sotto gli occhi del mondo, si può accusare la sinistra di non saper più né accettare né reggere le situazioni di piazza, si può accusare Berlusconi di aver fatto il difensore a tutti i costi di una politica sbagliata, si può accusare…, si può accusare…, si può accusare…, si può accusare….

            Ma si può anche compiere un’altra azione: porsi in digiuno e in grande attenzione verso se stessi per esaminarsi se per caso la pagliuzza di cui accusiamo un altro non ci faccia vedere la trave che abbiamo sulla nostra coscienza. Gandhi, quando la grande manifestazione che aveva organizzato, degenerò rispetto al programma stabilito, perché una parte dei manifestanti si scontrò con la polizia, lasciò decadere la grande autorità politica che aveva guadagnato fino a quel momento presso gli inglesi (sembrava avesse vinto) e rinunciò alla prosecuzione dell’ azione che lui proseguì autonomamente nel vissuto personale; preferì interrompere la dialettica politica, ritirarsi in digiuno e preghiera per poter esaminare in che cosa egli avesse sbagliato.

             Qui non si tratta di esaminare se ci abbiamo messo buona volontà o no; se avremmo potuto fare un sacrificio in più o un gesto creativo in più; si tratta invece di capire che siamo tutti corresponsabili di una enorme manifestazione andata a male, perché degenerata nella violenza più bieca; come dice don Milani è tanto ladro chi ruba che chi tiene il sacco; dobbiamo chiederci in che senso la nostra strategia (se c’era) ha retto alla situazione imprevista e in che senso la nostra strategia era deviante o direzionata in maniera insufficiente sugli obiettivi?

            E’ il sacrificio costruttivo personale che distingue dalla politica di qualsiasi tipo la nonviolenza gandhiana, che non è occasionale, oppure nonviolenza di tecniche, oppure nonviolenza di calcolo astuto, oppure nonviolenza di opinione, oppure di romantica evasione dalla realtà cattiva.

            Ed è su questo punto, a mio parere, che anche il movimento più ampio (quello per la pace, contro la globalizzazione, contro il debito, per un nuovo impegno sociale delle religioni, per una nuova politica di giustizia) è oggi stagnante; il punto di aver accettato a metà una nuova politica, quella di Gandhi, e non saperla maneggiare (come lui diceva degli occidentali). Sono tanti i motivi che vengono dati per modificarla e adattarla alla bell’e meglio con quello che si è abituati a fare di solito nella politica giustificandosi con: Gandhi ha vissuto cento anni prima di noi, lui non era un occidentale, lui non viveva nel mondo della tecnica esasperata e della politica dell’occidente….

            Sono nati da noi una quantità di gruppi che si collocano attorno alla parola nonviolenza. I vari Pannella, Bonino, Bossi, gli anarchici, i dediti alle droghe e alla musica di evasione, sono tutti esempi di adattamenti occidentali di una politica ancora ben lontana dall’essere capita e perciò impossibilitata a sviluppare il suo potenziale.

            E’ vero che oggi è urgente saper reagire ai maggiori fatti della vita politica italiana, ma tra noi che mettiamo la fede personale a fondamento della nonviolenza è urgente chiarirci le idee per ritrovare un linguaggio comune che superi quello di una sola parola, ormai abusata da tutte le parti, per non fare più massa di manovra di altri che per convenienza si danno etichetta di nonviolenti; e infine ritrovare una strategia che, di fronte a quelle differenze radicali che la nonviolenza avrà sempre con altre politiche, nei loro confronti non potrà praticare il buonismo, ma dovrà sviluppare la capacità di superarle.

 Antonino Drago


LA CURA DELLA NONVIOLENZA

L’invventario della Fierucola della Terra Italiana, n. 18/19, Agosto 2001, pp. 19-20

            Non voglio dire nulla dei G8, che hanno concluso il vertice con un niente di fatto. Non voglio dire nulla del “blocco nero”, composto da professionisti della guerriglia urbana.

            Non voglio dire nulla della polizia, delle sue provocazioni, della sua violenza. Mi interessa, invece, parlare di noi e delle prospettive del movimento di critica alla globalizzazione. trappola.

            Dopo Seattle, dopo Goteborg, dopo Genova, se il movimento vuole avere un futuro, deve affrontare con chiarezza la questione della nonviolenza. Non solo come parola magica da inserire nelle dichiarazioni di principio, ma come fine e mezzo del proprio agire. Qual era il fine? Impedire ai G8 di riunirsi, o trovare soluzioni per un’economia di giustizia? Le tecniche della nonviolenza non possono essere ridotte a training per parare i colpi della polizia, né basta alzare le mani bianche in alto per fare un’azione nonviolenta. Oggi bisogna ripensare completamente i metodi ormai inadeguati come i mega cortei indistinti che sono stati utilizzati dai teppisti quali paravento per le loro scorribande.

Dopo Goteborg era evidente (l’abbiamo detto e scritto) che la manifestazione di massa a Genova non andava fatta, che sarebbe stata una trappola. Abbiamo suggerito (ed organizzato) centinaia di iniziative locali, in tutta Italia, cortei silenziosi in fila indiana (per rappresentare chi non ha voce e per essere visibili con la propria identità): un modo per evitare la globalizzazione del movimento antiglobalizzazione. Ma non siamo stati ascoltati. All’interno del Genoa Social Forum (GSF) è prevalsa la logica “di massa”: tutti uniti sotto la bandiera del no-global (anarchici, comunisti, cattolici, scout, pacifisti, ambientalisti, cobas, tute bianche, missionari, antimperialisti, socialisti rivoluzionari, partiti e sindacati), pronti a offrire una prova di forza.

Invece a Genova è stato un massacro, in senso fisico e politico. Tutto prevedibile e previsto. Troppo facile ora dire che mille delinquenti organizzati hanno impedito a centomila persone pacifiche di manifestare e che la polizia ha fatto il resto. Non basta dissociarsi dalla guerriglia del Black Block; non basta denunciare le violenze delle forze dell`ordine.

Quel che è accaduto a Genova ha radici profonde e mette in evidenza limiti, approssimazioni, ambiguità di un movimento troppo variegato, che ha allargato indistintamente i propri confini. Per mesi il GSF ha tollerato ed accettato l° obiettivo delle tute bianche: ”invadere la zona rossa”. Il subcomandante dei centri sociali, promosso sul campo a vice portavoce del GSF, ha farneticato per settimane di “guerra ai G8”, ha dichiarato che “l” illegalità diffusa è alla base del cambiamento”, ha definito i poliziotti “soldati dell`impero”. Il GSF anziché sconfessare le tute bianche ed escluderle dal movimento, ha concesso loro il riconoscimento politico e le ha accettate come parte integrante e prioritaria. Il portavoce dei centri sociali ha conquistato la scena, si è messo sotto i ri?ettori e davanti alle telecamere: obiettivo raggiunto. Da quel giorno il capo delle tute bianche ha indossato la maschera da buono, dichiarando che loro sarebbero andati ad invadere la zona rossa “solo con i corpi, con gli scudi ma senza bastoni” e avrebbero deposto anche le divise. Un consumato politico. Ma chi semina vento raccoglie tempesta. Carlo Giuliani, il 23enne morto, ha preso sul serio le parole di sfida e di odio, ha creduto alla guerra contro i G8 e con un estintore voleva colpire un soldato dell`impero. Le parole sono pietre! Tollerare politicamente chi ha enfatizzato gli animi con proclami e addestramenti al corpo a corpo, è stato un errore clamoroso da parte del GSF. La nonviolenza è una cosa seria, che non si improvvisa.

            Genova lascia una ferita aperta, che non si può richiudere addossando tutta la colpa alla polizia, né si può esorcizzarla dichiarando “vittoria” perché il G8 è stato ridimensionato, come ha fatto avventatamente il portavoce del GSF. I problemi del movimento sono ben più profondi e tali resteranno finchè non si affronterà seriamente il nodo della nonviolenza. A partire dai contenuti, ancora troppo vaghi e generici per un movimento che si prefigge addirittura lo stravolgimento dei rapporti economici mondiali.

            Ci vuole ora una pausa di riflessione, una purificazione.

            Occorre un grande lavoro per creare omogeneità di intenti, di strategia e di tattica.

            Un movimento non può prendere scorciatoie.

            Deve crescere nella chiarezza.

Mao Valpiana

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