Possedere privatizzare individualizzare i pensieri. Persona o impersonale?

Autrice
Giulia Siotto


Istituito nel 1994 e tutt’oggi valido, il TRIPs – Trade Related aspects of Intellectual Property rights – ha lo scopo di tutelare la proprietà intellettuale. Attraverso di esso le idee che qualche persona particolarmente geniale ha avuto devono essere protette; riconosciute appartenenti a quel particolare individuo e non un altro; e, forse punto ancora più importante, i ricavi remunerativi devono arrivare all’inventore. Ma cosa ci ha spinto a poter possedere, privatizzare, individualizzare i pensieri?

A volte destinato a un pubblico specialistico, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero è il libro da leggere per comprendere e tentare una risposta al problema. L’autore, Roberto Esposito, elabora nel corso dell’opera la seguente idea. La categoria di persona è la chiave di volta per comprendere molte delle dinamiche della società in cui viviamo.

I limiti

Dopo aver dimostrato uno stretto legame tra la cultura cristiana e quella secolarizzata, Esposito evidenzia nel secondo capitolo i limiti insiti nel concetto di persona. Il problema è che la categoria di persona è un nucleo altamente conflittuale e antinomica: «produce ordine perché porta al proprio interno la possibilità del conflitto. Essa crea soggettività politica attraverso la linea di divisione che, discriminando una parte del corpo politico, colloca l’inimicizia nello spazio dell’amicizia» [1].

Nelle teorie che fanno appello alla persona viene a costituirsi automaticamente un dentro e un fuori. Per stare all’interno della categoria di persona ho bisogno di soddisfare, o meglio, di possedere alcune caratteriste. Possedendo le caratteristiche x sono legittimato a stare dentro la categoria di persona, non possedendole allora ne sono automaticamente escluso. Di più però, il conflitto viene ancora più alimentate perché attraverso l’esclusione di qualcuno, la mia identità viene a essere non lesa, ma rafforzato. 

Oggi

Per fare un esempio dei giorni nostri. Proviamo a immaginare con quali appellativi vengono chiamati gli immigrati che arrivano sui barconi. Per chi esprime frasi d’odio o xenofobe quelle persone non possiedono alcune caratteristiche e quindi non sono ritenute degne di essere persone, ma derubricate a qualche categoria ben più dispregiativa; al tempo stesso si rafforza la loro identità.

Una dinamica conflittuale, dunque, quella incentrata sul concetto di persona che discrimina sulla base del possesso o menodi alcune caratteristiche. O si possiedono quelle caratteristiche e quindi si può stare all’interno del gruppo oppure se ne rimani esclusi e posti in posizione di inferiorità. Ora, l’unico modo di uscire da un tale sistema per Esposito è rompere in modo radicale con il concetto di persona per fare invece spazio a qualcos’altro: l’impersonale.

Da persona a impersonale la strada sembra breve, quasi un gioco di parole. Tuttavia nei contenuti e negli esiti siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione dei capisaldi della società occidentale. Già solo da un punto di vista storico chi ha tentato di supportare tesi impersonali non ha fatto una bella fine. Il pensiero averroista fu condannato nel 1277; Giordano Bruno venne bruciato su un rogo; ancora nel Seicento Spinoza tentò una ripresa del concetto di impersonale e condannato dalla comunità ebraica come eretico. Cosa dunque spaventa così tanto di un pensiero che postula l’impersonale?

Averroè

Prendiamo ad esempio Averroè, uno dei massimi esponenti della filosofia impersonale. Stando alla sua filosofia non avrebbe alcun senso parlare di proprietà intellettuale o di brevetti che tutelino le invenzioni avute da qualcuno. Per Averroè, infatti, che non è possibile avere (possedere) un’idea. Propriamente non ho un’idea, semmai ne sono attraversato o ne posso usufruire, ma sicuramente non è un mio prodotto su cui posso esercitare una proprietà.

È un altro però il punto che rende ancora più rivoluzionaria la filosofia impersonale di Averroé. Non posso possedere un’idea perché essa non è mia né tua, ma è una risorsa collettiva e di tutti. «Se il pensiero non è preliminarmente di nessuno – se nessuno ne è padrone al punto da poterlo identificare a sé – vuol dire che è di tutti»[2].

Ecco allora che è possibile intravedere alcuni degli esiti sovversivi del pensiero impersonale: «vedere nell’intelligenza non una proprietà di alcuni a detrimento di altri ma una risorsa di tutti, attraverso la quale è possibile transitare senza appropriarsene, significa assegnarle una potenza collettiva»[3].

L’impersonale

Non solo. La radicalità del pensiero impersonale sarebbe applicabile in modo da letteralmente stravolgere la maggior parte degli assetti della società che abbiamo conosciuto. Pensiamo ad esempio all’assonanza che vi è tra l’intelletto universale di Averroè e il linguaggio di genere. Non è un caso infatti che mentre la filosofia impersonale viene recuperata dagli specialisti, nel frattempo negli studi di genere cresce e si diffondono sempre di più teorie che incentivano l’uso di verbi impersonali. È l’impersonale infatti che permette di non discriminare tra chi detiene alcune caratteristiche e altri che ne rimangono esclusi; facendo invece appello alla persona si instaura sempre una dinamica conflittuale e discriminante.

Ma i campi di applicazione del pensiero impersonale sono innumerevoli. Pensiamo a forme di politica alternativa dove il potere non si accentra nella persona carismatica, ma circola effettivamente tra tutti i cittadini. Come afferma Esposito: «A mutare, in tal caso, è l’intero significato di ciò che si definisce politica – non più il dominio di sé orientato a quello sugli altri, ma la elaborazione di una risorsa che fin dall’inizio appartiene a tutti».

In breve, il pensiero impersonale può far paura perché rompe con tutta la nostra tradizione occidentale, – da quella cristiana a quella secolarizzata -, ma sembra una delle alternative per cercare di costruire una società meno discriminante e più aperta e comunitaria.


Note

[1] R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013, p. 8.

[2] Ivi, p. 13.

[3] Ivi, pp.13-14.


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