Movimenti nonviolenti: conflitti e processi di pace

Autore
Nicolò Spinola


L’impatto dei movimenti nonviolenti: conflitti e processi di pace a partire dallo studio di Luke Abbs presentato durante un seminario organizzato dall’International Center on Nonviolent Conflict

Movimenti nonviolenti: conflitti e processi

La fine della Guerra Fredda ha dato il via a una rivoluzione della gestione delle crisi umanitarie e dei conflitti tra Stati. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 infatti, i militari statunitensi, italiani e delle maggiori potenze occidentali hanno partecipato a una serie di “missioni umanitarie”, in territori sconvolti da guerre civili o da conflitti con numerose vittime tra la popolazione. Di fronte a un primo entusiasmo verso questi nuovi tipi di guerre, l’opinione pubblica ha dovuto presto ammettere le difficoltà nel gestire queste situazioni in particolare dopo fallimenti come quello americano in Somalia.

Un famoso teorico delle relazioni internazionali come Edward Luttwak ha quindi colto l’occasione per criticare queste missioni, con un esplicativo articolo del 1999 intitolato Give war a chance. Secondo la sua teoria infatti l’Occidente è diventato avaro di uomini, a causa di una società sempre più imborghesita le cui famiglie non intendono rischiare la vita dei loro preziosi figli. Inoltre, afferma come l’attenzione posta da parte dell’opinione pubblica nei confronti di risoluzioni pacifiche ai conflitti o di guerre con pochi morti, l’invio di aiuti umanitari e la presenza di truppe ONU che obbligano a tregue forzate i belligeranti e la popolazione, abbiano come diretta conseguenza il perdurare delle guerre, che altrimenti si esaurirebbero a causa della mancanza di risorse delle parti in conflitto.

Lo studio condotto da Luke Abbs e presentato durante un seminario organizzato dall’International Center on Nonviolent Conflict ha invece provato ad analizzare il problema della risoluzione delle guerre e delle crisi degli stati da un’angolatura diversa. Lo studioso infatti ha individuato l’impatto che la presenza di movimenti nonviolenti ha sui conflitti civili e sui successivi processi di democratizzazione.

Con movimenti nonviolenti si intendono quei gruppi che chiedono un cambio di regime, che lottano per l’indipendenza di una regione o per il proprio diritto all’autodeterminazione e che sono organizzati in un movimento o organo politico. Mezzi per conseguire i loro obiettivi sono campagne strutturate e con un ampio appoggio della popolazione, nel corso dello studio non vengono quindi considerate le iniziative e i gesti individuali, che è possibile trovare tra gli attivisti di qualsiasi nazione ma che non fanno parte di una dimensione sociale più ampia. In particolare sono state indicate come maggiormente funzionali quelle coalizioni con una partecipazione di persone con un background politico, di genere e di estrazione sociale differente.

Una delle prime parti dello studio riguarda la concezione del potere che possiamo attribuire alla popolazione civile durante un conflitto armato: alla passività generalmente assegnata ai gruppi non violenti durante una guerra, Luke Abbs contrappone l’apporto alla sicurezza dei cittadini e i risultati dell’attivismo durante periodi di crisi, come per esempio nel caso del Nepal, dove una coalizione di partiti dell’opposizione alleati con un gruppo armato di ispirazione maoista riesce a far abdicare il sovrano nepalese, mettendo fine alla guerra civile. Un’analisi dei dati mostra come nella risoluzione dei conflitti, la presenza di un gruppo politico nonviolento aumenta del 10% la possibilità di giungere ad un accordo che concluda il conflitto armato, valore che si accentua considerevolmente se vengono presi in esame i casi in cui i movimenti nonviolenti sono attivi anche durante le ostilità.

Uno studio quantitativo ha individuato la presenza di gruppi politici nonviolenti nel 20% dei casi di guerre civili, oltre ad evidenziare le loro importanti responsabilità sulle dinamiche del conflitto: la legittimità del governo e la sua influenza sulla popolazione viene meno a causa dell’attivismo di campagne politiche non violente, queste forniscono un vantaggio per gli insorti che vedono diminuire il deficit di potere nei confronti del loro avversario.

Nonostante questo, non viene favorita una vittoria delle forze ribelli ma una conclusione del conflitto attraverso un accordo di pace tra le varie parti. Il contributo più importante riguarda la ricostruzione post guerra civile, periodo di estrema fragilità per le istituzioni di uno stato di nascita recente nel quale il pericolo di un secondo conflitto è estremamente probabile e che in media porta ad una nuova guerra nei primi cinque anni di vita della democrazia. Secondo la monografia scritta da Luke Abbs, la presenza di rappresentati di gruppi politici nonviolenti nei processi di pace aumenta la possibilità di creare delle istituzioni più forti e da cui le diverse parti della popolazione si sentono rappresentate.

L’impegno e il coinvolgimento della popolazione da parte dei movimenti non violenti può favorire una pacificazione della società, secondo quanto viene spiegato dallo studioso infatti si passa da un confronto distruttivo (una guerra civile), ad uno costruttivo (risoluzione politica delle rimostranze della popolazione), portando all’individuazione di spazi politici per la risoluzione delle controversie. L’attivismo della popolazione non è sempre trionfante, come nel caso del Myanmar o delle Filippine, dove le proteste degli attivisti nonviolenti non hanno fermato i gruppi insurrezionalisti che erano attivi nel paese o non sono riusciti a istituire un governo democratico.

Lo studio monografico di Luke Abbs ha comunque evidenziato il legame che intercorre tra società civile e gestione dei conflitti, sottolineando come un coordinamento diverso delle richieste della popolazione, non più considerata come semplice elemento passivo di una guerra ma come uno stakeholder importante nella gestione dello stato, possa favorire la stabilità di una regione e delle sue istituzioni democratiche.


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