Vivere l’ergastolo

Benedetta Pisani

Il protagonista di oggi si chiama Carmelo Musumeci, scrittore, laureato in Giurisprudenza, Diritto penitenziario e Filosofia. Nella sua prima tesi di laurea, intitolata “Vivere l’ergastolo”, scrive:

“Venivo condannato all’ergastolo. Non mi si è voluto punire, ma distruggere: l’ergastolo va contro la natura. […] La pena dell‘ergastolo non è un deterrente, non migliora l’uomo, non ha niente di ragionevole e istituzionalizza la vendetta attraverso la sofferenza, rispondendo alla violenza criminale con la violenza legale.”

Fino a due anni fa, non avevo idea di come funzionasse il sistema penale italiano… Non me lo ero mai chiesto, forse avevo paura di scoprire la verità. Poi, mi si è aperto – meglio, chiuso – un mondo, quando ho ascoltato mia sorella Alessandra preparare il discorso di laurea sulla pena ostativa in Italia. Me l’aveva posta in termini semplici, per farmi comprendere bene l’assurdità della questione:

L’ergastolo costituisce la pena più severa tra quelle contemplate dal nostro ordinamento ed è previsto per delitti di particolare gravità perpetrati contro la personalità dello Stato, la pubblica incolumità e la vita. Accanto all’ergastolo comune (art. 22 del Codice penale) esiste l’ergastolo cd. ostativo alla concessione dei benefici penitenziari (art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario). Se all’ergastolano comune è lasciato un barlume di speranza consistente nella possibilità di accedere alle misure alternative previste dalla legge, chi invece subisce una condanna ex art. 4 bis risulta condannato, in sostanza, a una “pena di morte viva” perché, in assenza di condotta collaborante esigibile, quegli istituti gli sono preclusi per sempre.

art. 4 bis, L. 354/1975: “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti [tra cui quelli per mafia e terrorismo] solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia”


Collaborare rischiando la vita e quella dei propri cari (esponendosi alle rappresaglie della logica mafiosa), o rifiutare di collaborare rinunciando a ogni possibilità di liberazione. Di fronte a questo dilemma, qual è stata la tua reazione? Cosa – e chi – ti ha aiutato a non cadere nel “ricatto legale”, scegliendo di non collaborare?

Vivere l'ergastolo

In Versilia, da criminale, avevo i miei uomini, la mia batteria. A quel tempo eravamo amici: siamo cresciuti insieme, rischiavamo la vita insieme. Come facevo a tradirli? Per questo ho deciso di pagare solo io. Non è omertà. In tutti i casi, credo che la legalità e la fiducia prima di pretenderle bisogna darle, Per il resto è difficile collaborare con uno Stato che ti tortura con il regime del 41-bis e ti dà una pena che non finisce mai da scontare.

Io, e credo che la maggioranza degli ergastolani ostativi, non collaboriamo perché ritengono semplicemente che non è giusto farlo. Ognuno deve scontare, giusto o sbagliata che sia, la propria pena senza scaricarla sugli altri e senza diventare delatori. Io ho deciso di non collaborare con la giustizia, ma ho deciso di farlo con il mio cuore e con la società cercando di essere una persona migliore nonostante il carcere. Penso che in uno stato di diritto il meccanismo non dovrebbe essere solo la collaborazione

“Se confessi e collabori esci, se non confessi e non collabori muori in carcere. Sembra che la non “collaborazione” sia considerata più grave dell’omicidio. Credo che la conseguenza della “non collaborazione” sia una pena troppo alta e sproporzionata. Cioè, il togliere i benefici ai non collaboratori mi sembra una pena enorme perché la “non collaborazione” non è un reato. Al limite potrebbero dire: “se non collabori dovrai fare cinque anni in più” ma è inumano dire: “se non collabori non esci mai”. Mi ricordo che un giorno il direttore dell’Asinara mi chiamò e mi disse: “Musumeci, è inutile che rompa le palle: il regime del 41 bis è stato creato per farvi pentire. E proprio l’altro ieri mi hanno telefonato dai piani alti e mi hanno fatto i complimenti perché da questo carcere in un anno sono usciti trentasei collaboratori di giustizia”.


La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 13 giugno 2019 nel caso Marcello Viola c. Italia, ha giudicato il regime dell’ergastolo “ostativo” incompatibile con il principio della dignità umana e con l’articolo 3 della Convenzione europea che “proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante”. Pochi mesi dopo, la Corte costituzionale italiana con la sentenza n. 253 del 23 ottobre 2019, dichiara che l’automatismo della legislazione italiana, per cui alla mancata collaborazione corrisponderebbe la persistenza di pericolosità sociale, è illegittimo poiché riduce la valutazione della persona detenuta esclusivamente al momento della commissione del reato, e alimenta la dinamica criminale a discapito di quella rieducativa – violando, di fatto, l’art. 27 della Costituzione.

Tuttavia, di fronte all’incostituzionalità rilevata, la Corte ha scelto di rinviare al Parlamento la trattazione delle questioni, in data maggio 2022, sostenendo che l’accoglimento immediato delle questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione “rischierebbe di  inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”.

“Si pensa che dichiarando incostituzionale il meccanismo dell’ergastolo ostativo i mafiosi tornino liberi. Invece abrogando l’ergastolo ostativo si consente ai magistrati di sorveglianza di valutare il loro percorso e verificare, come succede per gli autori di tutti gli altri crimini, se dopo 26 anni (mica uno) ci sono i presupposti per avere la liberazione condizionale. Sostenere che questo rappresenti un problema per il contrasto alla criminalità organizzata vuol dire sostenere che un pezzo dalla magistratura, la sorveglianza, non sa combattere la criminalità organizzata, battaglia che sicuramente fa parte dei suoi doveri.”

Prof. Emilio Santoro

Dare una definizione univoca al concetto di giustizia è estremamente difficile, ma risulta ancora più difficile credere che corrisponda a un automatismo vendicativo e anticostituzionale.
 Cos’è per te la giustizia? Lungi dall’avere un’influenza positiva sul contrasto alla criminalità organizzata, quali sono le
vere conseguenze dell’ergastolo ostativo nella vita delle persone detenute e nell’opinione pubblica?

La schiavitù, la pena di morte, la vendetta, la tortura fanno parte della cultura di ogni società, sia antica che moderna. Invece l’usanza di punire tenendo chiusa una persona in una cella per anni e anni è un fatto relativamente nuovo. Penso che la pena dell’ergastolo rende ingiusta e crudele la giustizia più della pena di morte. Mi è venuto da riflettere sul verbo “scontare”, infatti si dice “scontare la pena”. Quindi è già insito nella parola stessa che “scontando una pena” questa diminuisca, infatti più sconti la pena e più la parte restante diminuisce. Quindi è già insito nella ratio del concetto giuridico di “scontare la pena” che la pena prima o poi si esaurisca proprio in virtù del fatto che con il passare degli anni la pena si sconta.

Allora è assurdo e contraddittorio dire “sconta l’ergastolo ostativo” oppure “sta scontando l’ergastolo ostativo” perché nonostante il passare degli anni, la pena residua non diminuisce. È vero! L’ergastolo ostativo va persino contro la matematica e l’italiano. La pena perpetua non ti toglie solo la libertà, ti strappa pure il futuro. Ti potrebbero togliere tutto ma non la tua intera vita. Lo Stato si può prendere una parte di futuro, ma non tutto, se vuole essere migliore di un criminale.

L’ergastolo ostativo è disumano perché l’uomo per vivere e morire ha bisogno della speranza che la sua vita un giorno forse sarà diversa o migliore. La pena perpetua è un sacrilegio perché anticipa l’inferno sulla terra e la pena eterna senza possibilità di essere modificata è competenza solo di Dio (per chi crede). L’uomo è l’unico animale che può cambiare, per questo non potrebbe e non dovrebbe essere considerato cattivo e colpevole per sempre. La giustizia potrebbe, anche se non sono d’accordo, ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non dovrebbe più tenerlo in carcere quando è diventato buono. O farlo uscire solo quando baratta la sua libertà con quella di qualcun altro collaborando e usando la giustizia.

Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio, come può fare bene o guarire? Voglio ricordare che per chi ha commesso un crimine, il perdono fa più male della vendetta, il perdono lo costringe a non trovare dentro di sé nessuna giustificazione per quello che ha fatto. Ecco perché converrebbe combattere il male con il bene, col perdono, con una pena equa e rieducativa. La pena dell’ergastolo ostativo lascia la vita, ma divora la mente, il cuore e l’anima.


A volte un’intera vicenda biografica viene identificata in un’esperienza unica, che segna più di tutte le altre la nostra vita. Un’esperienza che viene guardata da un’unica prospettiva, giudicante e impietosa: quella di chi ignora la verità e chiude gli occhi di fronte a uno dei lati più oscuri e incontrollati della nostra società.

Nella sua autobiografia romanzata, Carmelo Musumeci offre una narrazione nuda del carcere e di tutto ciò che lo precede, raccontando la quotidianità, gli episodi marcanti, le emozioni e i ricordi, prima, durante e dopo la detenzione.

Nella prefazione all’opera Zanna Blu,  Margherita Hack scrive:

“Carmelo è Zanna Blu e questa opera di Musumeci è il riscatto: non più il racconto reale di una vita nuda e cruda che trova nel presente il risultato di un passato rovinoso, poco attento, gramo di sentimenti e di amore di cui un fanciullo ha bisogno e chiede.

  1. Questi sono racconti che insegnano il coraggio, l’amore per la libertà, l’amore disperato per la compagna; scritti in maniera semplice, senza retorica. Grazie a questa sua capacità di esprimere i suoi sentimenti, Carmelo si ricostruisce una vita spirituale libera, che vale la pena di essere vissuta e che trasmette al lettore, bambino o adulto che sia, una profonda umanità.
  2. Sono favole, ma favole che fanno riflettere.”

Chi è Carmelo fanciullo? Cosa gli diresti oggi?

Che cosa gli direi oggi? Di continuare ad amare e a sognare, ma in modo diverso. Da bambino sognavo di diventare grande per vendicarmi di essere stato bambino. Ci sono riuscito senza neppure accorgermene. Credo che per non fare il male bisogna conoscere il bene e, purtroppo, molti di noi hanno conosciuto solo il male. Ricordo che da bambino, quando la mia povera nonna mi portava nella piazzetta del paese e vedeva un uomo con la divisa, poteva essere anche un vigile, mi sussurrava “Stai attento… quello è l’uomo nero.” Come potevo non crederle? Con questo però non cerco attenuanti perché sì, è vero, sotto un certo punto di vista sono nato colpevole, ma poi ho deciso io stesso di diventarlo.

Adesso mi auguro solo di poter avere la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene, perché la vera pena s’inizia a scontare fuori e quando sei cambiato. Sono anche convinto che non c’è miglior “vendetta” per la società che rendere migliori le persone, perché se si cambia ci si rende conto del male fatto e solo allora può emergere il senso di colpa. E il senso di colpa è la più terribile delle pene, peggiore del carcere e dell’ergastolo senza scampo. Per fortuna (o sfortuna) molti non lo sanno e preferiscono solo tenerci in carcere e buttare via le chiavi.


Nel libro Le vostre prigioni racconti gli anni più bui della tua storia carceraria. Una raccolta di pagine di diario, poesie e storie, che denunciano l’esistenza in Italia della “Pena di Morte Viva” e il dolore che questa infligge sulle persone detenute, sulle loro famiglie e sulla società tutta.
 “Una sofferenza inutile che non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati”, scrivi.

Inevitabile, l’analogia con il libro di memorie di Silvio Pellico, Le mie prigioni, in cui l’autore descrive gli anni della detenzione, testimoniando la durezza e l’ingiustizia della repressione austriaca, ma senza alcun proposito di denuncia. Eternamente vittima di un malinteso, quella di Pellico non è un’opera politica, ma dichiaratamente religiosa, in cui l’accettazione cristiana è l’unica ancora di salvezza.

“Oh qual brama ha il prigioniero di veder creature della sua specie! La religione cristiana, che è sì ricca d’umanità, non ha dimenticato di annoverare fra le opere di misericordia il visitare i carcerati.”


Qual è stata la tua ancora di salvezza? E che ruolo ha avuto la religione nella tua vita, prima, durante e dopo la detenzione?

Più che credere in Dio, ho sempre preferito credere nell’uomo. In tutti i casi, ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta.

Ed è proprio questo programma di auto-rieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società.


“Fine pena: 9.999”. Nei documenti degli ergastolani, questo numero è la formula burocratica utilizzata per sostituire la parola mai.

Nel 2018, dopo 27 anni di reclusione, Carmelo Musumeci riceve la telefonata dal carcere di Perugia, che gli notificava l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza di richiesta di Liberazione condizionale, la quale prevede che al soggetto siano “impartite disposizioni concernenti la frequentazione di determinati luoghi o ambienti, gli orari nei quali deve essere reperito presso l’abitazione, i limiti territoriali negli spostamenti e, in particolare, l’obbligo di sottoporsi alla sorveglianza dell’autorità di pubblica sicurezza e di tenere contatti con il Centro di servizio sociale.”


Qual è il primo desiderio di libertà che hai esaudito quando sei uscito dal carcere?

Ho abbracciato un albero. Chissà perché in carcere non ci sono alberi!

Ecco cosa scrissi a suo tempo:

“Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita. Penso che più di credere a me stesso ho scelto di credere negli altri. E forse questa è stata la mia salvezza. Mi hanno notificato l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza della Liberazione condizionale.  Quando ho fra le mani arrivo l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza tra le mani mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. Respiro a bocca aperta. Lontano da occhi indiscreti, appoggio la testa contro il muro e mi assale una triste felicità.

In pochi istanti rivivo questi venticinque anni di carcere con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione senza libri né carta né penna per scrivere, né radio, né tv, ecc. In quei periodi non avevo niente. Passavo le giornate solo guardando il muro. Poi ad un tratto scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi faccio il caffè. Mi accendo una sigaretta. E, dopo la prima tirata, medito che adesso dovrei smettere di fumare perché ora la mia unica via di fuga per acquistare la libertà non è più solo la morte.

Per più di un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto nella cella di un carcere. Penso che una condanna cattiva e crudele come la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco chiama “pena di morte mascherata”, difficilmente può far riflettere sul male che uno ha fatto fuori. Io credo di essere rimasto vivo solo per l’amore che davo e che ricevevo dai miei figli e dalla mia compagna. Sono stati anni difficili perché non avevo scelto solo di sopravvivere, ma ho lottato anche per vivere.

Proprio per questo ho sofferto così tanto. Non ho mai pensato realmente di farcela e forse, proprio per questo, ce l’ho fatta. Adesso mi sembra tanto strano vedere un po’ di felicità nel mio futuro. Mi commuovo. E il mio cuore mi sussurra: “Per tanti anni hai pensato che l’unica cosa che ti restava da fare era aspettare l’anno 9.999; invece ce l’hai fatta! Sono felice per te … e anche per me”.

Quello che rimpiango maggiormente di questi 27 anni di carcere è che non ho ricordi dell’infanzia dei miei figli. Mi consolo pensando che adesso mi rifarò con i miei nipotini. Poi penso che senza l’aiuto di tante persone del mondo libero che mi hanno dato voce e luce, non ce l’avrei mai fatta. Ho trascorso buona parte della mia vita godendo dell’unico privilegio di essere rimasto libero di pensare, di scrivere e di dire quello che pensavo: adesso che sono diventato un uomo libero o quasi non smetterò certo la mia battaglia per l’abolizione dell’ergastolo.


Nella tua prima tesi di laurea, “Vivere l’ergastolo”, attraverso un questionario, hai raccolto 48 testimonianze dirette di ergastolani, per lo più sottoposti al regime 41 bis, Elevato Indice Vigilanza ed Alta Sicurezza, e quasi tutti nativi del sud dell‘Italia – un’ulteriore prova che la pena dell‘ergastolo, nella maggioranza dei casi, è frutto della disuguaglianza sociale, della sottocultura, delle problematiche economiche di alcune regione come Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Tra le domande che hai posto ai partecipanti, ce n’è una – forse la più complessa – con la quale chiudiamo tutte le interviste di HUMANS, che dunque ti ripropongo:


Carmelo, cos’è per te la felicità?

Amare ed essere amati.


Pubblicato per gentile concessione di gr8humans e Benedetta Pisani.

http://www.gr8humans.com/it/chi-siamo/

Benedetta Pisani intervista Carmelo Musumeci



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