Le attiviste queer e femministe in Tunisia stanno trasformando le proteste

Giuseppe Acconcia intervista Henda Chennaoui


Le attiviste queer e femministe in Tunisia
Foto di Amine GHRABI | Flickr, CC BY-NC 2.0

MOVIMENTO e MOBILITAZIONE – Un decennio dopo la Rivoluzione del 2011, una nuova generazione di tunisin* è tornata sulle strade con un movimento ampio e intersezionale unito attraverso la militanza popolare: Le attiviste queer e femministe in Tunisia stanno trasformando le proteste


Prima di diffondersi in Nord Africa e Medio Oriente, le rivolte della cosiddetta “Primavera araba” iniziarono nel dicembre 2010 in Tunisia. I gruppi subalterni furono gli attori chiave di questa nuova forma di mobilitazione popolare che richiedeva diritti umani e sociali, salari dignitosi e giustizia sociale. I lavoratori del principale sindacato tunisino, il Tunisian General Labor Union (UGTT), furono al centro delle proteste che si erano verificate molto prima del 2011. Al tempo stesso, durante gli anni Novanta e nel corso del nuovo millennio, le donne del Tunisian Association of Democratic Women (ATFD) hanno messo in atto un’opposizione significativa al regime nella lotta per i diritti di genere contro il femminismo di stato, l’Islamismo e il crescente conservatorismo.

La transizione democratica in Tunisia, iniziata nel 2010, è culminata il 14 gennaio 2014 con l’adozione di una nuova costituzione. Attraverso questo processo, le donne tunisine hanno ottenuto importanti risultati, grazie all’approvazione di diverse leggi che accrescono i diritti politici e legali delle donne, come la legge 58, approvata nel 2017, che punisce la violenza contro le donne. Nonostante ciò, le donne tunisine, la comunità LGBTQ+ e i giovani attivisti subiscono ancora la violenza e la repressione della polizia.

Nel gennaio 2021 – esattamente dieci anni dopo le manifestazioni di massa in risposta all’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi, le quali hanno innescato gli eventi che hanno portato alla fine del regime di Zine El Abidine Ben Ali – è scoppiata una nuova ondata di proteste in Tunisia.

La seguente intervista con Henda Chennaoui analizza queste nuove mobilitazioni. Henda è una delle principali femministe tunisine e attivista per i diritti delle donne che si occupa di lotte sociali, attivismo queer, resistenza civile e disuguaglianze economiche.

I Tunisini sono tornati di nuovo in strada. Quali sono le richieste di questi movimenti sociali oggi?

Tutto è iniziato con dimostrazioni notturne all’inizio di gennaio di quest’anno. Era la settimana del decimo anniversario della Rivoluzione del 2010-2011 e il governo aveva imposto il coprifuoco. Ogni anno a dicembre e gennaio, ci sono manifestazioni per chiedere giustizia sociale, soprattutto nei quartieri poveri e operai di Tunisi.

Quest’anno i giovani sono scesi in strada fianco a fianco di persone svantaggiate che vivono in periferia. Questo è successo non solo nelle aree urbane povere, ma anche fuori dalla capitale.
Le manifestazioni si sono svolte di notte e sono state oggetto di una forte repressione da parte della polizia, soprattutto nelle zone svantaggiate. I giovani che protestavano sono stati arrestati in massa e spesso sottoposti a tortura nelle carceri. I media tradizionali sono rimasti completamente in silenzio, mentre il Ministero dell’Interno ha accusato i manifestanti di essere dei “vandali”.

Pertanto, questa repressione da parte della polizia ha spinto molti altri giovani tunisini, attivisti della società civile, associazioni informali e movimenti politici a uscire allo scoperto e ad offrire il proprio sostegno. Marce e manifestazioni spontanee si sono raccolte nel centro di Tunisi per chiedere la libertà dei prigionieri politici e per dare visibilità ai manifestanti nei quartieri più poveri. Il 14 gennaio i “feriti della Rivoluzione“, coloro che erano stati feriti durante la Rivoluzione del 2010-2011, hanno organizzato un’occupazione nel centro di Tunisi. Erano lì per chiedere che, dopo più di dieci anni, le autorità tunisine riconoscessero il loro status. La loro manifestazione si è protratta fino a metà febbraio.

Nel 2014, il Ministero dell’Interno ha innalzato delle barricate per impedire alla gente di marciare in Avenue Habib Bourghiba, la strada principale da cui partì la rivoluzione il 14 gennaio 2011. I manifestanti oggi sono determinati ad abbattere quelle barricate.

Come al solito, queste proteste erano solo semi-organizzate. I partecipanti includevano attivisti LGBTQ+, femministe, studenti, giovani disoccupati e laureati, sindacalisti, giovani ultras del calcio, oppositori della criminalizzazione della cannabis e altri.

Il movimento non ha una chiara identità politica; richiede riforme economiche, giustizia fiscale, misure anti-austerità e la fine della corruzione. Si è anche svolta una manifestazione degli agricoltori contro l’austerità e la privatizzazione dell’agricoltura.

Queste proteste sono una prosecuzione delle manifestazioni del 2010-2011?

Sì, possiamo dire che c’è una continuità. Come i movimenti precedenti, gli attuali manifestanti chiedono riforme della giustizia ed economiche e più libertà civili. Vogliono anche salvaguardare le conquiste della Rivoluzione, come la libertà di espressione e il diritto all’organizzazione politica dal basso.

Da gennaio, ho assistito ad ogni singola manifestazione e ho notato una continuità, sia da parte del governo sia dai media, nel loro approccio alla propaganda. La novità questa volta, anche se non mi sorprende, è l’intersezionalità del movimento. Gli slogan sui diritti delle donne e della comunità LGBT+ si possono ascoltare insieme alle richieste di giustizia sociale. Ciò mostra la maturità dell’attivismo in Tunisia: una generazione unita a livello popolare così come a livello politico e di militanza, con base nelle aree lavorative e nelle classi inferiori, sta formando un fronte unito che esprime le stesse richieste.

Come hanno risposto le autorità tunisine – e in particolare la polizia – alle proteste?

La polizia usa sempre gli stessi metodi di repressione come arresti arbitrari e azioni di terrorismo nei confronti di intere comunità e quartieri. Stiamo assistendo alla tortura di bambini nelle prigioni e a violenti interrogatori fatti ai giovani manifestanti. Almeno 1.000 ragazzi sono stati arrestati tra metà gennaio e metà febbraio. I processi politici sono usati come strumento per terrorizzare le loro famiglie e comunità.

Nessuno dei leader politici tunisini parla di questa violenza. Nessuno sta condannando queste pratiche o avvertendo che i responsabili saranno puniti secondo le leggi che condannano la violenza durante le manifestazioni. La polizia ha perseguitato la comunità LGBTQ +, femministe e giovani attivisti che spesso sono dei leader nelle loro comunità, specialmente nelle aree povere. Li prendono di mira per mettere a tacere i potenziali capi del movimento.

Questo è uno sviluppo pericoloso e una minaccia per le libertà che sono state conquistate con la Rivoluzione, come il diritto di organizzarsi e di manifestare. Ciò non farà che aumentare le frustrazioni di molti Tunisini. Viviamo in una grave crisi economica, non solo connessa alla pandemia, ma a causa di anni di discriminazione e cattiva gestione.

Quali sono le nuove richieste che le femministe tunisine avanzano nelle proteste in corso?

Le femministe sono state in prima linea nelle recenti proteste, lanciando slogan politici che chiedono giustizia sociale per tutti i Tunisini, denunciano la corruzione e sostengono il riconoscimento dei martiri della Rivoluzione. Oggi, organizzazioni come la Tunisian Association of Democratic Women (ATFD) insieme a movimenti femministi minori sono particolarmente concentrati sulla giustizia economica, come l’uguaglianza tra uomini e donne per quanto riguarda la legislazione sull’eredità.

Come hanno reagito le autorità sanitarie tunisine alla pandemia? E in che modo i lockdown della pandemia hanno colpito in particolare le donne?

Nell’ultimo anno, le autorità tunisine non sono riuscite a sviluppare una chiara strategia contro il COVID-19. Non c’è stato alcun piano per sostenere i più emarginati durante la crisi, né dal punto di vista medico né economico. E non abbiamo la minima idea della strategia dello Stato per una campagna di vaccinazione.

I Tunisini sono abbandonati a loro stessi; non possono contare sullo stato per il sostegno. Gli ospedali sono sotto-equipaggiati poiché lo stato non è riuscito a trattare con il settore privato per sostenere il settore pubblico durante questa crisi sanitaria.

Il coprifuoco e gli stati di emergenza vengono utilizzati per impedire che i movimenti sociali nel Paese si organizzino contro l’aumento dei prezzi e l’aumento della disoccupazione causati della pandemia.

Le conseguenze della pandemia per le donne tunisine sono state catastrofiche, soprattutto a livello economico. Innumerevoli donne hanno perso il lavoro, la capacità di produrre beni e il possesso di terreni o proprietà agricole. La vulnerabilità economica è sempre stata presente per le donne tunisine, ma è stata aggravata dalla pandemia. Il numero di donne che hanno perso il lavoro è almeno triplicato nell’ultimo anno. Ma è impossibile conoscere il numero reale a causa della costante mancanza di dati ufficiali accurati sui tassi di disoccupazione.

Ma la crisi economica non è l’unica grande preoccupazione per le donne. I diritti delle donne sono attualmente messi a dura prova e, in effetti, lo sono da molto tempo. In generale, le donne vulnerabili di tutto il mondo sono state più esposte durante questa crisi. Le donne in Tunisia affrontano ogni tipo di discriminazione e violenza e durante lo scorso anno si sono moltiplicate. Subiscono violenze sia fisiche sia economiche, col numero di donne vittime di abusi domestici che aumenta di sette volte.

Durante il primo lockdown e successivamente, molte sono state le iniziative di “solidarietà comunitaria” gestite direttamente dalle donne. Ciò accade a livello di quartiere, soprattutto nelle zone povere di Tunisi e dintorni. Lì, abbiamo assistito ad azioni di solidarietà organizzate da donne, non solo tra donne, ma che coinvolgevano anche famiglie, bambini, uomini, tutti, oppure che, laddove fossero molto attive, offrivano delle soluzioni alla crisi sanitaria attraverso la solidarietà.

Quali diritti hanno ottenuto gli attivisti LGBTQ + dopo la rivoluzione del 2011?

La nuova generazione di giovani attivisti LGBTQ + sta promuovendo una visione intersezionale. Mentre sono impegnati nella militanza LGBTQ +, sono contemporaneamente coinvolti in molte e diverse lotte sociali e politiche. È molto diverso rispetto al passato.

Queste nuove esperienze sono in parte il risultato della natura non strutturata del movimento. Non c’è nessun partito politico dietro il movimento; si è sviluppato, invece, da una tradizione costruita a poco a poco dal 2007. Negli anni passati, non eravamo abituati a vedere militanti LGBTQ + prendere parte a manifestazioni politiche. Ma passo dopo passo il movimento ha acquisito esperienza e ora siamo arrivati ad un punto in cui è il movimento LGBTQ + a legittimare attivisti politici di sinistra come il Fronte Popolare. Dà una nuova dimensione alle proteste in tutti i Paesi arabi.

Questa intersezionalità è visibile nelle strade così come nel modo in cui si formulano le richieste politiche. I leader dei movimenti femministi e LGBTQ + sono stati particolarmente visibili durante le manifestazioni di gennaio e febbraio e, di conseguenza, sono stati presi di mira dalla polizia. Il caso di Rania Amdouni è particolarmente significativo. Amdouni è una nota attivista politica e LGBTQ + che è stata oggetto di repressione e intimidazione.

Perché il caso di Rania Amdouni è così rilevante?

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Rania è conosciuta dalla polizia perché è un’attivista queer. Prende parte a tutte le manifestazioni ed è stata particolarmente visibile durante le ultime proteste. L’ostilità nei suoi confronti è iniziata un anno fa. Dopo la morte della collega attivista Lina Ben Mhenni, Rania ha portato la sua bara con altre donne, cosa proibita dalla legge islamica. Ciò ha sollevato l’ira dei conservatori, che hanno iniziato a inviarle minacce di morte dopo il funerale.

Rania faceva anche parte di un gruppo di giovani convocati in tribunale lo scorso novembre a seguito di una manifestazione organizzata davanti al parlamento. Questa manifestazione era contro un progetto di legge, proposto per la prima volta nel 2015, che avrebbe aumentato l’impunità delle forze di sicurezza. Alcuni parlamentari, partiti politici e attivisti della società civile hanno visto questo disegno di legge come anticostituzionale, ma la polizia lo ha fortemente sostenuto.

La persecuzione nei confronti di Rania è andata avanti per mesi. La polizia ha incoraggiato i cittadini ad attaccare fisicamente Rania e le sue amiche nelle strade solo perché omosessuali. Rania ha denunciato i suoi aggressori alle autorità, ma finora non ha ricevuto alcuna risposta. Dallo scorso gennaio, sappiamo abbastanza bene che Rania stava per essere arrestata dalla polizia. È stata ripetutamente perseguitata dalla polizia e detenuta senza alcun motivo – però le chiedono i documenti, deridono il suo aspetto fisico e la sua sessualità e la minacciano. Questa situazione la rendeva molto stanca, sia psicologicamente sia fisicamente. Era esausta di questi soprusi apparentemente infiniti.

Il 27 febbraio, mentre stava denunciando queste minacce e questi abusi alla stazione di polizia, è stata formalmente accusata di “minare la moralità pubblica”. Durante il processo, ha ricevuto un forte supporto dai suoi compagni, femministe, queer e militanti e dalla più ampia società civile. Stavamo aspettando la sua assoluzione perché non ha commesso alcun reato. Hanno giudicato sulla base di una legge ambigua e arbitraria derivante dal vecchio regime di Ben Ali che autorizzava diverse interpretazioni da parte dei giudici. Con nostra sorpresa, l’hanno condannata a sei mesi di prigione.

Rania è stata vittima di ogni tipo di discriminazione perché è “diversa”, perché è orfana, per il suo orientamento sessuale e per la sua povertà. Invece della prigione, merita una ricompensa per essere una brava cittadina e per essersi impegnata attivamente nella società civile.

E il suo caso non è unico: molte femministe e attiviste LGBTQ + hanno visto le loro foto accompagnate da minacce di morte condivise sui social media. Sono state arrestate arbitrariamente, torturate e persino le loro famiglie sono state minacciate dalla polizia mentre erano nei loro quartieri.

Una repressione così severa è la prova del fatto che il Ministero dell’Interno è preoccupato per l’intersezionalità di questi movimenti sociali, preoccupato da così tanta diversità tra i giovani che manifestano. Questo è il motivo per cui le autorità hanno risposto in modo così aggressivo. Sono consapevoli che la situazione è critica e che, riunendo così tanti gruppi diversi, questo movimento ha un potenziale davvero storico.


Henda Chennaoui

Henda Chennaoui è una femminista, giornalista indipendente e studiosa specializzata in diritti umani e movimenti sociali. Dal 2013 collabora con Nawaat, un blog collettivo indipendente. Sta seguendo un master di ricerca in sociologia presso l’Università Ibn Charaf, Tunisi.

Giuseppe Acconcia

Giuseppe Acconcia è un giornalista pluripremiato e docente di Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Ha conseguito un dottorato in politica presso l’Università di Londra. I suoi interessi di ricerca si concentrano su movimenti sociali, stato e trasformazione in Medio Oriente, studi iraniani e curdi.


Fonte: Roar Magazine, 30 Marzo 2021

Traduzione di Cinzia Destefanis per il Centro Studi Sereno Regis


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