Indietro il futuro e la responsabilità del consumatore

Giorgio Barazza

Indietro il futuro e la responsabilità del consumatore? Spesso i consumatori sono interessati solo a soddisfare le proprie necessità nel modo più comodo ed economico possibile. Così però, non adempiono al proprio dovere. Perché quando compriamo dobbiamo tenere conto delle ripercussioni globali della nostra transazione.

DA DOVE VENGONO LE MERCI

Da dove viene la merce? Chi l’ha fatta? Con quale materiale? Quali sono le condizioni di vita e di lavoro dei produttori? Quale quota del prezzo finale va per la remunerazione del lavoratore? E il resto del denaro come viene distribuito? Come viene prodotto l’articolo? La produzione come si inerisce nell’economia nazionale? Qual è in merito il rapporto con le altre nazioni? Il consumatore quanto più compra beni e oggetti provenienti da lontano meno potere di influenza ha sul potere produttivo; e meno possibilità ha di avere informazioni accurate, meno è coinvolta è coinvolta e personalmente interessata.

Se il bene proviene da una fonte in cui è presente lo sfruttamento del lavoro oppure quello politico, finanziario ed economico di altre nazioni, classi o razze, il consumatore di tali beni sarà in parte responsabile, così come una persona che acquista articoli rubati da un bazar crea un mercato per questi articoli incoraggiando così “l’arte” del furto. Dunque, chi compra beni solo sulla base del prezzo e sulla buona qualità finale si assume la responsabilità di favorire quelle situazioni. Dovremmo acquistare beni solo da fonti rispetto alle quali abbiamo informazioni precise e sulle quali possiamo esercitare un’influenza. Non possiamo assolverci sostenendo che non sappiamo abbastanza rispetto alla fonte del bene.

Se la materia prima per la cioccolata proviene da una piantagione sulle coste dell’Africa occidentale che fa ricorso a forme di lavoro schiavistico a danno dei nativi, è poi trasportata per nave su rotte controllate con la violenza, è lavorata in Gran Bretagna sfruttando la mono d’opera ed è poi commercializzata in India grazie a una politica doganale coloniale, un consumatore di cioccolata si avvale di lavoro sfruttato in Africa, della violenza praticata sulle rotte navali, di bassi salari in Gran Bretagna e dell’assoggettamento politico dell’India. Tutto questo si trova in una barretta di cioccolata. …LE MERCI PARLANO

Siamo pronti ad assumerci questa grave responsabilità giusto per soddisfare il nostro palato oppure dovremmo accontentarci di un alimento locale? Non possiamo ignorare le conseguenze anche lontane delle nostre azioni. Se non riusciamo a scegliere da soli, dovremmo farci aiutare da organismi quali la All India Village Industries Association e la AISA che possono darci garanzie sui prodotti che vendono. (in Italia ad esempio FA’ LA COSA GIUSTA) “Per questo lo stesso khadi dovrebbe essere acquistato solo nei negozi certificati.

SWADESHI

Se troviamo che è al di sopra delle nostre possibilità capire quello che sta dietro le nostre transazioni, dovremo limitarle a un raggio che sia sotto il nostro controllo. È questa la base dello swadeshi (indipendenza), che non è un mero slogan politico. Più accuratamente possiamo giudicare i risultati delle nostre azioni e più consapevolmente siamo in grado di rispettare il nostro dovere.

Se sul comprar un sari (lungo tessuto con cui si avvolgono il corpo le donne) non ci si fa guidare solo dalla varietà dei bei modelli a buon prezzo fabbricati in Europa, ma si sceglie un cotone filato e tessuto a mano da donne dei villaggi, pur un po’ più costoso e meno brillante, meno leggero da indossare, si tratterà di praticare l’autocontrollo su di sé (SWARAJI), di accettare un “sacrificio” (tapasya). Ciò non significa necessariamente sedersi sui chiodi o trafiggersi le guance. Nella vita di ogni giorno, quando lasciamo cadere una voglia o ci assumiamo una limitazione per perseguire il principio della vita, accettiamo il sacrificio di sé nello stesso modo di chi si è assunto il compito di rinunciare al mondo.

Il sacrificio è alla base di tutte le religioni. E assume varie forme quando ci impegniamo a soddisfare lo spirito di swadeshi. Prendiamo il caso del sale industriale, raffinato, ben confezionato e il sale scuro pieno di polvere e pietruzze, estratto dai nostri contadini. Occorre carattere per acquistare quest’ultimo. Scioglierlo e pulirlo a casa; ma se lo facciamo ne faremo un alimento più sano di quello industriale.

Una donna medico statunitense compra sempre il gur (pezzi di zucchero di canna non raffinato) al bazar, lo fa bollire, lo pulisce e lo tiene in forma liquida per i propri bambini; non perché ami i prodotti dei villaggi, ma perché sa che si tratta di un prodotto ben più nutriente dello zucchero raffinato industriale.

Noi, più di lei, abbiamo molte buone ragioni per preferire i prodotti locali, influenzando il livello della produzione. Lo facciamo?

I nostri contadini e artigiani, produttori di beni che le macchine non possono copiare, sono rimasti vittime di una competizione iniqua, perché noi consumatori non li abbiamo protetti, preferendoli. Riusciremo a salvarli oppure tradiremo i produttori agricoli e artigianali, consegnandoli i loro nemici? Vorrei spiegare meglio come mai la mentalità che preferisce l’acquisto di beni esteri affama e uccide le nostre industrie e, dunque, alla fin fine riduce il nostro paese a una condizione di povertà e degrado.

Siamo diventati genitori adottivi delle industrie straniere, dimenticando il nostro popolo. Guardiamoci intorno in casa, contiamo di quanti oggetti esteri e industriali siamo circondati. Il loro prezzo cumulato equivale all’ampiezza della disoccupazione che abbiamo contribuito a provocare nella nostra terra. La donna amministratrice della casa, diventa anche la direttrice delle industrie che succiano via la nostra ricchezza. È istruita a mutare questo delicato ruolo? Altre nazioni fanno anche peggio. Giappone, Germania, Italia, Russia incoraggiano le donne ad avere più bambini per alimentare i ranghi degli eserciti, riducendo la nobiltà della maternità a livello di fabbrica di munizioni e nutrono le loro industrie con il sangue dei loro figli, conducendo una guerra per ragioni economiche. Intanto noi facciamo di tutto per distruggere il poco che abbiamo.

Una yatra (pellegrinaggio) moderna è la strada per la libertà. Se vogliamo un prodotto che non sfrutti e che sia indiano dovremmo forse peregrinare di negozio in negozio. Ma non dobbiamo considerarlo uno sforzo sterile. In realtà si tratta di una moderna yatra. Ci sono persone che compiaciute misurano la lunghezza dei loro pellegrinaggi da Kanya Kumari a Kashi, per guadagnare meriti. Possiamo fare di meno?

Dobbiamo infatti sviluppare uno zelo religioso bruciante per il benessere dei nostri villaggi. Se come popolo riusciamo a rifiutare categoricamente di acquistare beni esteri e industriali per scegliere quel che è prodotto in India le nazioni straniere avranno meno interesse a tenerci assoggettati. Ecco dunque che lo swadeshi è un passo necessario per liberarci dal dominio di evitare future invasioni, ma questo richiede l’adempimento quotidiano del nostro dovere. Salveremo le vite di milioni di persone. Abbandoneremo la strada che ci ha portato alla schiavitù e alla distruzione. Quando le donne giocheranno bene il proprio ruolo, realizzeremo in pieno il detto secondo il quale «la mano che guida la culla governa il mondo».

LA DIAGNOSI

Ecco forse qual è la malattia, mentre la gente ha bisogno di certi beni, si incoraggia la produzione di altre merci, che non solo non soddisfano i bisogni primari, ma incoraggiano l’individualismo a spese dell’attenzione al benessere generale. Occorre dunque una riorganizzazione sociale ed educativa.

Dobbiamo dunque portare avanti degli esperimenti nei quali la comunità (locale)di villaggio giochi il ruolo centrale. L’esperimento non è meramente tecnologico, è una prova di ricostruzione sociale, non va condotto in laboratorio ma, nella quotidiana vita di villaggio.


Scheda a cura di Giorgio Barazza, tratta da: Joseph C. Kumarappa, Economia di condivisione. Come uscire dalla crisi mondiale, a cura di Marinella Correggia, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2011, pagg. 42-49.


 

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