Il Martin Luther King Day negli USA e nel mondo di oggi

Angela Dogliotti

Il 18 gennaio si è celebrato negli USA, come ogni anno dopo il suo assassinio, il Martin Luther King Day, in ricordo della nascita del pastore battista, leader del movimento contro la segregazione razziale, avvenuta il 15 gennaio 1929 (la ricorrenza si celebra sempre il terzo lunedì di gennaio).

Sulla Newsletter Waging Nonviolence del 18 gennaio sono comparsi diversi articoli che meritano di essere ripresi, sulla sua figura e sul contributo che il suo pensiero e la sua esperienza possono darci nell’attuale contesto, sia statunitense, sia internazionale.

L’articolo di Arthur Romano, M.L.King’s vision of a interconnected world is more relevant than ever, (La visione di M.L. King di un mondo interconnesso è più attuale che mai), fa riferimento al discorso che King pronunciò in occasione del premio Nobel per la Pace (1964), e che si trova nell’ultimo libro da lui scritto, Where do We Go From Here: Chaos or Community? In effetti il testo sembra scritto in questi giorni, in un contesto di crisi globali convergenti, come la pandemia, il peggioramento delle diseguaglianze economiche in tutto il mondo, i cambiamenti climatici sempre più preoccupanti e il razzismo sistemico ovunque crescente, e dopo l’incredibile attacco a Capitol Hill da parte di una folla che cercava di imporre con la violenza l’ideologia dell’America First, rispondendo all’invito del Presidente sconfitto.

Il convergere di queste crisi, infatti, rende sempre più evidente che nel villaggio globale (o “casa del mondo”, come lo chiama King) si è tutti interconnessi , per cui , scrive Romano, «se non smantelliamo la supremazia bianca e il razzismo sistemico, se continuiamo a investire nelle forze armate a tassi molto maggiori di quanto investiamo per i poveri e le persone vulnerabili, se non prendiamo sul serio il divario di ricchezza in patria e tra le nazioni più ricche e i nostri vicini… scenderemo nei cumuli di spazzatura della storia, non per minacce esterne , ma a causa del nostro decadimento interno».

«Sono convinto che se vogliamo andare dalla parte giusta della rivoluzione mondiale, noi come nazione dobbiamo praticare una rivoluzione radicale di valori», scriveva King. Vedeva l’espansione della presenza militare USA nel mondo come un’eredità del colonialismo europeo, profondamente radicato nel razzismo e nella supremazia bianca, con gli obiettivi primari non di promuovere la democrazia, ma di affermare il predominio e lo sfruttamento economico. Da questa prospettiva aveva espresso anche una radicale critica alla guerra del Vietnam. «Che ce ne rendiamo conto o meno, la nostra partecipazione alla guerra del Vietnam è un’espressione inquietante della nostra mancanza di simpatia per gli oppressi, del nostro anti-comunismo paranoico, del nostro fallimento nel sentire il dolore e l’angoscia dei non abbienti… Rivela la nostra volontà di continuare a partecipare alle avventure neo-coloniali».

Per tornare al contesto odierno, scrive ancora Romano che oggi «siamo profondamente polarizzati come non lo siamo stati mai negli Stati Uniti. La presidenza Trump era l’antitesi della visione di King, poiché cercava di costruire il potere alimentando l’ansia e la rabbia razziali dei bianchi – così come la paura a proposito della diseguaglianza economica- mettendo le persone l’una contro l’altra. Mentre molti chiedono giustamente che sia avviato un processo di guarigione, penso che King ci ricorderebbe che guarigione e lotta per la giustizia si forgiano insieme, nel fuoco della stessa lotta».

Ed è quanto sostiene, citando King, anche Emma Jordan Simpson a proposito della “odiosa pace americana”, visto che egli non ha lasciato spazio alla confusione sul fatto che la strada verso la pace sia contrassegnata da responsabilità, giustizia e verità: «Se pace significa tenere la bocca chiusa in mezzo all’ingiustizia e al male, io non ci sto. Se pace significa adeguarsi con compiacenza a uno status quo letale, non voglio la pace. Se pace significa disponibilità a essere sfruttato economicamente, dominato politicamente, umiliato e segregato, non voglio la pace».

Per questo, sostiene Emma Simpson, «Fare il difficile lavoro di ricerca della verità e chiedere conto al Presidente delle sue responsabilità nei confronti degli insurrezionalisti che ha incitato è un piccolo acconto sulla verità richiesta per la democrazia. Senza quel difficile lavoro la vera guarigione e la vera pace non potranno mai verificarsi».

Con altre parole, anche Maria J. Stephan, co-autrice del noto Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic  of Nonviolent Conflict, definisce “polarizzazione tossica” la propaganda che incita a vedere nell’altra parte un nemico monolitico e pericoloso e istiga a ricorrere a ogni mezzo per imporre la difesa dei propri interessi e della propria visione, come è avvenuto con l’assalto a Capitol Hill.

«La costruzione di coalizioni e movimenti di vasta scala necessari per trasformare i sistemi sociali e politici in una società profondamente divisa è una sfida enorme. Mentre i conflitti, i disaccordi e la polarizzazione relativa ai problemi sono normali e necessari, la polarizzazione tossica… è pericolosa e paralizza la nostra capacità di risolvere problemi seri. La polarizzazione tossica, che alcuni hanno definito settarismo politico, incoraggia un’estrema semplificazione della realtà e la creazione di un contesto caratterizzato da un noi contro loro, in cui l’odio verso l’esterno è più forte di quanto non sia l’amore verso l’interno. Entrare in contatto con chiunque dall’altra parte o fare qualsiasi tipo di compromesso sono visti come un tradimento».

Le strade per superare questo stallo e rafforzare una vera democrazia sono viste nella diffusione di una resistenza civile dal basso: «A lungo termine, il dialogo e l’azione diretta, la resistenza nonviolenta e il consolidamento della pace saranno necessari per affrontare la violenza e le ingiustizie profondamente radicate in questo paese.

È significativo che l’attacco della scorsa settimana sia avvenuto subito dopo le straordinarie elezioni in Georgia, uno stato con il secondo maggior numero di linciaggi nel paese, che ha visto un pastore nero e un figlio di immigrati ebrei vincere e ribaltare il Senato degli Stati Uniti. Anni di organizzazione guidata da donne nere e di potenti coalizioni in quello stato hanno reso possibile la vittoria. Allo stesso modo la scorsa estate, in seguito all’omicidio di George Floyd e dopo anni di organizzazione guidata dai neri, ci sono state migliaia di proteste e manifestazioni che chiedevano la fine delle brutalità della polizia e del razzismo sistemico- il più ampio e persistente movimento nella storia degli Stati Uniti».

«Ai tempi di King, questo riunire il movimento per la giustizia razziale con i movimenti contro la guerra e postcoloniali… stava scuotendo le fondamenta della società statunitense quando egli fu assassinato. È quella solidarietà che la casa comune ci chiede oggi. Black Lives Matter e molti altri movimenti sociali visionari stanno già muovendo il mondo in quella direzione – e questo è solo l’inizio», scrive Romano a conclusione del suo articolo.

Si potrebbe aggiungere che oggi, in un contesto di molteplici crisi convergenti, è necessario scorgere come tutti questi percorsi siano connessi e come ancor più sia urgente una svolta sistemica, capace di vedere l’inevitabile interconnessione che lega non solo tra di loro gli esseri umani sull’unico pianeta che è la casa comune di tutti, ma li lega anche agli altri esseri viventi e alla natura, che tutti alimenta e sostiene.


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