Nonostante Regeni. L’Italia arma l’Egitto (e non solo)

Paolo Candelari

La vendita di armi a paesi autori di gravi violazioni di diritti umani è vietata dalla legge n. 185/1990. Eppure l’Italia fornisce all’Egitto un ingente quantitativo di armi: nonostante Regeni, il cui omicidio chiama in causa i servizi segreti di quel Paese. E non è un caso isolato.

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Claudio e Paola Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016, hanno annunciato che presenteranno una denuncia contro il Governo italiano per violazione della legge n. 185/1990, che regola, o dovrebbe regolare, il commercio di armi vietandone la vendita di armi a Paesi «autori di gravi violazioni dei diritti umani».

Questo a pochi giorni dalla chiusura delle indagini della Procura di Roma che ha individuato in quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani i colpevoli dell’omicidio. L’atto di accusa ricostruisce i nove giorni di torture del ricercatore italiano. Per chi è forte di stomaco e vuole leggerne un sunto lo può trovare a questo link.

In un mondo nel verso giusto avremmo visto l’Unione Europea e i suoi governi stringersi per solidarietà a quello italiano e decidere le sanzioni da applicare all’Egitto e il nostro Governo ritirare l’ambasciatore e cancellare tutti gli affari con il paese delle piramidi. Invece cosa succede? I governi europei se ne fregano e, anzi, fanno la corsa a concludere gli affari migliori.

Macron addirittura conferisce la Legion d’onore, massima onorificenza francese, ad Al Sisi, tiranno egiziano, il cui posto degno sarebbe sul banco degli imputati nel Tribunale penale internazionale come criminale. E il nostro Governo non solo continua a fare affari con uno dei peggiori Stati per violazioni dei diritti umani, ma firma la più grossa commessa militare degli ultimi anni e, a soli 13 giorni dalle conclusioni della Procura romana, consegna all’Egitto la prima delle due fregate ad esso destinate, in flagrante violazione della legge n. 185.

È, infatti, dello scorso giugno il via libera del Governo italiano alla vendita all’Egitto di due fregate Fremm, la “Emilio Bianchi” e la “Spartaco Schergat” (quella consegnata lo scorso 23 dicembre). La cessione delle due navi sembra essere parte di una commessa ancor più grande per un valore tra i 9 e gli 11 miliardi di euro: comprenderebbe altre 4 fregate, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon, un satellite di osservazione e 20 velivoli di addestramento M-346 di Leonardo Spa.

L’accordo tra Roma e Il Cairo si è chiamato «la commessa del secolo». Si tratterebbe del più cospicuo export di armamenti ottenuto dall’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale e la più importante mai conclusa dall’Egitto.

Un accordo di tali dimensioni suscita scandalo e domande. Secondo il sito di approfondimento arabo indipendente, Noon post, l’affare «cambia radicalmente l’equilibrio delle forze militari nella regione, in un momento in cui le tensioni tra potenze internazionali e regionali nel Mediterraneo sono in aumento», mentre il sito della televisione del Qatar Al Jazeera al Mubasher si chiede «L’Egitto rafforza il suo arsenale militare con un grande accordo con l’Italia. La morte di Regeni c’entra qualcosa?».

Secondo il quotidiano indipendente Al Khalij al Jadid, «il Cairo sta cercando di placare Roma sulla questione Regeni con un accordo di alto livello». Il giornale ricorda che, dopo la morte del ricercatore, le licenze per l’esportazione militare dall’Italia al regime di Al Sisi sono passate dai 7,1 milioni di euro del 2016 a 7,4 nel 2017 fino a raggiungere 69 milioni di euro nel 2018. Nel 2019 l’Egitto è diventato il destinatario del maggior numero di licenze, pari a 871,7 milioni di euro.

Alcuni sottolineano anche legami tra queste maxi-commesse con l’Egitto e la politica italiana in Libia (vedi Catherine Cornet su Internazionale), anche se apparentemente i due Paesi sostengono due contendenti che si combattono tra loro. Che una parte delle armi vendute all’Egitto finisca poi in Libia è abbastanza scontato. D’altra parte la politica italiana in Libia è da tempo ondivaga, e sembra essere dettata più da criteri, diciamo così, “affaristici” che altro; non è certo una politica di pace.

È quello che viene rimproverato anche da diversi siti di informazione indipendenti arabi, e, soprattutto, da esponenti egiziani contrari al regime. Osama Suleiman, esponente del Comitato di difesa e di sicurezza nazionale dell’ex assemblea egiziana ha sostenuto che «Al Sisi si è trasformato in un commerciante di armi e in mediatore regionale. L’accordo con l’Italia è chiaramente legato alla situazione in Libia, perché dall’Egitto è molto facile contrabbandare le armi via terra, lontano dal controllo internazionale».

In ogni caso questi contratti sono contrari alla legge n. 185, approvata esattamente 30 anni fa, sostenuta da un ampio cartello di organizzazioni del volontariato, pacifiste e nonviolente, proprio per mettere sotto controllo il commercio delle armi e impedire che esso sia rivolto a Paesi belligeranti, e dunque diventi un sostegno alla continuazione e propagazione di disastrosi conflitti bellici, e a Paesi che violino i diritti umani, come appunto l’Egitto.

Ha funzionato quella legge? Le violazioni ci sono state in numerose occasioni, ma qualche bastone tra le ruote ai mercanti d’armi è servita a metterlo. Ha permesso soprattutto ai movimenti della società civile di raccogliere e diffondere le informazioni e tenere sotto controllo l’intensa attività delle industrie militari: non per niente si è più volte cercato di modificarla o abolirla.

Prima la Rete disarmo, ora la neonata Rete per la pace e il disarmo, hanno in questi anni svolto un egregio compito di raccolta e sintesi dei dati, sfornando relazioni e strumenti utili per organizzare le campagne tese a fermare i mercanti di morte. Lo scorso anno, proprio in occasione dell’anniversario della legge Rete pace e disarmo ha pubblicato una sintesi a cui si rinvia.

In questi 30 anni sono state autorizzate esportazioni dall’Italia per un controvalore di 109,67 miliardi di euro (a valori costanti 2019). Mentre nei primi 15 anni l’export è stato costante (vedi grafico tratto dallo stesso articolo) assestato sul miliardo di euro l’anno, dopo il 2006 inizia l’impennata, interrotta solo dalla crisi finanziaria globale. Da allora i Governi (indipendentemente dal colore politico) sembrano aver avuto come obiettivo il sostegno all’export militare e non il suo controllo.

Gli ultimi cinque anni equivalgono da soli al 45% dell’intero trentennio di export militare. Queste cifre sono trainate da una spinta alla vendita verso gli Stati del Medio Oriente che negli ultimi cinque anni hanno raddoppiato la loro quota media dei primi 25 arrivando a ben il 45,9% del totale delle licenze individuali (cioè poco meno di 19 miliardi di euro). In testa si trovano due Stati autoritari mediorientali come Kuwait e Qatar (per le maxi-commesse di aerei e navi) seguiti da vicino da Regno Unito e Germania (soprattutto per la cooperazione Eurofighter) e, a una distanza maggiore, da Francia, Stati Uniti d’America e Spagna. Subito dietro, grazie a una serie di copiose licenze negli anni più recenti, altri Paesi problematici come Pakistan, Egitto, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

La legge vieta di esportare armi verso Paesi in stato di conflitto armato, sotto embargo internazionale, con politiche in contrasto con l’articolo 11 della nostra Costituzione, con gravi violazioni dei diritti umani. Uno sguardo veloce ai Paesi “top ten” destinatari delle “nostre” armi mostrano quanto l’applicazione recente sia lontana dallo spirito e dalla lettera della legge.


Per approfondimenti:

Osservatorio sulle spese militari italiani
Sito della Rete Italiana Pace e Disarmo


Pubblicato anche su Volere la luna


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