Le parole contano. Il COVID-19 è una pandemia? Siamo in guerra con il virus?
Una rivista medica autorevole
Il 1° dicembre 2020 il Network Bibliotecario Sanitario Toscano ha pubblicato la traduzione di alcuni brani di un articolo uscito a fine settembre su The Lancet firmato da Richard Horton, capo redattore della Rivista. Ne leggiamo le prime frasi.
Recentemente i mass media hanno pubblicato articoli con titoli in cui ricorre spesso il termine “sindemia”.
L’interesse dei mass media è iniziato in seguito all’articolo COVID-19 isnot a pandemic di Richard Horton, pubblicato il 26 settembre su The Lancet. L’autore sostiene che l’approccio nella gestione della diffusione, ma soprattutto della patologia, sia sbagliato, perché la crisi sanitaria è stata affrontata focalizzando l’attenzione alla malattia infettiva, e non con un “approccio sindemico”.Già dal 2017 la rivista inglese pubblicava un insieme di articoli, inserendoli in una serie denominata Syndemics. Un “approccio sindemico” esamina le conseguenze sulla salute delle interazioni tra le patologie e i fattori sociali, ambientali o economici che promuovono tali interazioni e peggiorano la malattia.
L’articolo pubblicato dal Network Bibliotecario prosegue inserendo numerosi interessanti approfondimenti, sia tratti dalla letteratura internazionale, sia relativi a dati specifici raccolti nella Regione Toscana. Io vorrei riprendere qui alcuni passi dell’articolo di Holton, che aiutano a sviluppare una prospettiva diversa sul problema del COVID-19 e sulle strategie che si potrebbero / dovrebbero mettere in atto per affrontare la situazione.
Un approccio troppo focalizzato
Secondo Horton la ‘scienza’ che ha guidato i governi rispecchia la visione di medici specialisti in malattie infettive, di epidemiologi abituati a costruire modelli: ha assunto cioè uno sguardo orientato alle grandi epidemie del passato. Tutti gli sforzi sono concentrati a interrompere la catena di trasmissione del contagio, per controllare la diffusione del patogeno. Ma le cose non sono così semplici. In realtà, invece, due categorie di patologie stanno interagendo all’interno di specifiche popolazioni: l’infezione con sindrome respiratoria acuta (SARS-CoV-2) e una serie di malattie non trasmissibili (non-communicable diseases; NCDs). L’aggregazione di queste due forme di patologie – su uno sfondo di disparità economica e sociale – rende più gravi gli effetti negativi di ciascuna.
Una sindemia – sottolinea Horton – con è una co-morbilità: le sindemie sono caratterizzate da interazioni che aumentano la propensione delle persone a peggiorare il loro stato di salute. Per affrontare il COVID-19 bisogna curare l’ipertensione, l’obesità, il diabete, le malattie croniche cardiovascolari e respiratorie, le forme tumorali: non solo nei paesi ricchi, ma anche in quelli poveri, dove le malattie non trasmissibili rappresentano – per il miliardo dei più poveri – almeno un terzo delle patologie.
Le implicazioni sociali del COVID-19
La conseguenza più importante, nell’adottare la prospettiva del COVID-19 come sindemia, è di sottolinearne le implicazioni sociali. La vulnerabilità degli anziani; le comunità Nere e Asiatiche; le minoranze etniche; i lavoratori malpagati e privi di protezione sanitaria… ebbene, per quanto possa risultare protettivo un vaccino, la ricerca di una soluzione puramente medica al COVID-19 fallirà. Come avevano già sottolineato vari autori (e.g. Singer et a., 2017), «un approccio sindemico fornisce un orientamento molto diverso alla medicina clinica e alla salute pubblica, e dimostra come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie possa ottenere un successo molto superiore a quello che si consegue controllando l’epidemia o curando i singoli pazienti». L’Autore conclude con una considerazione riferita all’attualità: «La crisi economica che sta avanzando non si risolverà con un farmaco o con un vaccino. Affrontare il COVID-19 come una sindemia invita ad assumere una visione più ampia, che comprende l’educazione, il lavoro, la casa, il cibo, l’ambiente».
La crisi da coronavirus e la decrescita
Nel giorno del solstizio d’inverno, il 21 dicembre scorso, è uscito il n.ro 14 di una rivista internazionale, «Visions for sustainability», con un numero speciale dedicato a ‘Salute e decrescita’. L’Editoriale è firmato da Jean Louis Aillon e Michel Cardito, due ricercatori che lavorano in Italia (Istituto di Ricerca Interdisciplinare sulla Sostenibilità, Torino, e Università di Bologna). Dopo aver ricordato la figura di Ivan Illich, che dedicò molte riflessioni critiche alle conseguenze negative sulla medicina causate da una sfrenata espansione industriale (Nemesi Medica, 1976), essi sottolineano come concetti fondamentali della ‘decrescita’ (well–being, buenvivir, care, buona vita) si ritrovano anche in certe definizioni di ‘salute’, per esempio quella proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1946: «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto l’assenza di malattie o infermità».Dopo aver brevemente presentato i temi esposti negli articoli che costituiscono questo numero speciale, Aillon e Cardito intraprendono una esplorazione della problematica ‘COVID-19’ dal punto di vista della prospettiva della ‘decrescita’, e sottolineano il fatto che l’attuale modello di sviluppo, allo scopo di massimizzare la produttività e la crescita economica, sfrutta sempre di più l’ambiente e gli animali. In effetti l’agricoltura intensiva, i cambiamenti d’uso della terra, la deforestazione e l’invasione da parte dell’uomo di luoghi sempre più remoti – con la conseguente perdita di biodiversità – sono state messe in relazione con l’emergere di zoonosi e di malattie trasmesse da vettori (come dengue, ebola, zika), e sono probabilmente tra i co-fattori responsabili della diffusione di COVID-19.
Due forme di virus
Gli autori dell’Editoriale, e gli articoli che seguono, mettono in evidenza come, in modi diversi, la ‘crescita’ influenza negativamente la salute delle persone e del pianeta, e come la transizione proposta dal movimento della ‘decrescita’ potrebbe produrre risultati positivi. Analizzando più in profondità i rapporti tra crescita/decrescita e COVID, essi arrivano a due conclusioni.
- Le conseguenze negative del sovra-sfruttamento umano e naturale non solo favoriscono l’emergenza del virus (la pandemia in sé, l’infezione), ma accentuano le condizioni di disparità sociale ed economica. La decrescita economica può essere una strada molto importante da intraprendere per ridurre queste condizioni di ingiustizia.
- Vi è un ‘virus’ che ha colpito le nostre menti, creando paura e paranoia: sono le conseguenze psicologiche della pandemia (l’infezione ‘psichica’). La morte esce dagli ospedali e circola liberamente nella società. Abbiamo bisogno di costruire una società autonoma e conviviale, basata sulla fiducia nella vita, sulla speranza e sull’amore. Abbiamo la necessità di poter discutere democraticamente – in quanto cittadini – quali rischi la nostra società pensa sia ragionevole affrontare, senza delegare queste decisioni agli ‘esperti’.
La reazione al COVID-19 è una guerra?
Mai come in questo periodo sono state utilizzate metafore belliche per parlare della situazione ‘COVID-19’. Quella contro la Covid-19 viene presentata come una guerra, ilvirus è un nemico invisibile e l’emergenza un’esplosione silenziosa. Infermieri e medici sono i nostri eroi. Si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra.
- Marzo 2020. Donald Trump dichiara dalla Casa Bianca: «I think that we’ve done a fantastic job from just about every standpoint. With that being said, you look — no matter where you look, this is something — it’s an invisible enemy».
- Marzo 2020. Per giustificare l’applicazione delle misure di confinamento in Francia Macron afferma: «Nous sommes en guerre. Pas contre une autre nation, mais contre un ennemi invisible et insaisissable».
- Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza COVID-19: «mascherine e ventilatori sono le munizioni che ci servono per combattere questa guerra».
- Massimo Galli, direttore dell’ospedale Sacco di Milano considera gli ospedali la «retrovia di questa guerra, perché è di una guerra che si tratta» e medici e infermieri parlano di una «guerra difficile da combattere perché non si conosce il nemico» in cui «l’unica arma è stare a casa e rispettare le regole»
Tuttavia, come sottolinea Solidoro, «quando la politica affronta un problema molto complesso e suggerisce di averlo compreso e di sapere come sradicarlo dichiarandogli guerra, il processo di studio, decisione e considerazione delle alternative è già sostanzialmente terminato. Ma pure nell’urgenza dell’azione non si può dimenticare la necessità di un corretto processo decisionale».Questo è un concetto che viene ripreso e ribadito da Daniele Cassandro: «La metafora del paese in guerra e del singolo malato-eroe è particolarmente rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo oggi […]. Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Abbiamo urgente bisogno di nuove metafore e di nuove parole per raccontarci i giorni che stiamo vivendo; quelle vecchie rischiano di trasformare in un incubo non solo il presente ma anche, e soprattutto, il futuro che ci aspetta».
I rischi per la salute sono scelte politiche
Qual è il rischio per la salute che potrebbe essere accettabile per una società? Secondo Allion e Cardito la risposta non può venirci dalla scienza, che può fornire solo statistiche e numeri sull’entità dei rischi di essere malati o di morire. Il concetto di ‘rischio’ è una costruzione sociale: differisce da paese a paese, si modifica con il tempo, dipende dalla visione del mondo dominante. A questo proposito hanno fatto molto discutere alcune recenti riflessioni del filosofo Giorgio Agamben, che mettono bene in luce la natura culturale e sociale del ‘rischio’, e i dilemmi cui sono sottoposti i decisori. A seconda del valore che associamo ad aspetti del vivere, possono significativamente cambiare le regole da rispettare. Se si considera la nuda vita come valore assoluto, stili di vita e abitudini alimentari più sani dovrebbero essere oggetto di norme giuridiche: vietato fumare e bere alcoolici, obbligatorio fare attività fisiche, abolire l’uso delle auto private… ma ciò non avviene. Eppure, sempre a difesa della nuda vita, si è scelto di lasciar morire da sole persone care, e di rinunciare ai riti delle esequie, suscitando il dolore e l’angoscia di chi considera la vita come espressione sociale, culturale e spirituale. Due idee di ‘vita’, due concetti di rischio, due scelte politiche opposte!
Dilemmi che si presentano a partire dalle metafore che rappresentano la nostra realtà… quindi: facciamo guerra al virus per salvare la nuda vita dei singoli individui? o accettiamo la complessità del vivere sociale e spirituale della comunità, di cui intendiamo prenderci cura?
La metafora gioca un ruolo molto significativo nel determinare ciò che è reale per noi (Lakoff e Johnson, 1998).
Verso nuove metafore: verso la diplomazia e la cura
In una recente intervista realizzata da Francesca Maffioli, la filosofa della scienza Vinciane Despret così commenta la persistenza della metafora della ‘guerra al virus’: essa «ha rappresentato a mio avviso un “pessimo inizio”. Innanzitutto per inadeguatezza: non ci si può dichiarare in guerra contro un virus, le guerre sono tra gli Stati. Secondariamente perché questa retorica genera l’effetto nefasto di considerarsi in guerra e quindi di marcheraupas, di inquadrare la propria andatura secondo i modi della marcia militare, nel senso dei soldati ma anche dei civili in quanto potenziali vittime di uno stato in guerra».Secondo la Desprez «Infantilizzazione, obbedienza e una certa docilità sono state le conseguenze di questa retorica emergenziale». A suo parere è opportuno abbandonare la pretesa di ‘controllare l’incontrollabile’, cioè la vita nella sua esuberante e imprevedibile creatività, e guardare alla risposta diplomatica, chesignifica la convivenza con il virus.
E – più in generale – abbandonare l’idea di essere in guerra, e collaborare invece alla costruzione di una ‘società della cura’ può essere la via da seguire. Come ha sottolineato Luigi Cancrini, psichiatra: «La guerra è il tempo dell’odio. In guerra per sopravvivere si è costretti a uccidere l’altro. Invece questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà».
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