Crisi ecologica. Realizzare la transizione a partire dai più vulnerabili | Elisa Mondino

Crisi ecologica transizione vulnerabili
Photo by John Moeses Bauan on Unsplash

Nell’iniziativa OpenForum, del Forum Disuguaglianze e Diversità, si susseguono più di 200 ospiti per dialogare e confrontarsi sui temi che toccano in nostro Paese. Il 6 dicembre si parla di crisi ecologica e del ruolo che i più vulnerabili ricoprono nel percorso di transizione ad un’economia più verde. Nel corso della giornata, si susseguono interventi e interviste di soggetti eterogenei: associazioni della società civile, l’amministrazione pubblica e singoli individui. Ognuno esprime i propri punti di vista, i propri bisogni e i progetti che hanno rispetto alla transizione da un’economia fossile ad un’economia più socialmente ed ecologicamente sostenibile.  

Da tutti gli interventi si evince che la transizione ecologica è in atto ed è ora più che mai necessaria. L’intero mondo sta soffrendo le conseguenze. La desertificazione e la siccità creano condizioni di vita intollerabili per la popolazione del Sahel e dell’Etiopia, alimentando tensioni e conflitti. La deforestazione avvicina sempre di più umani e specie animali selvatici, con il rischio altissimo di spillover di malattie. La pandemia di Covid-19 ne è l’esempio perfetto. In Italia, come emerge dai dati riportati da Patrizia Luongo, il 60% della popolazione è esposta al rischio di frane e alluvioni.

Insomma, è chiaro che il futuro è adesso. Ciò significa che è finito il tempo dell’incertezza e si deve dare il via a politiche ambientaliste più coraggiose. Vuol dire non rimandare più presa di coscienza e azione. L’Unione Europea ne ha fatto il fulcro del piano di ripresa post-pandemia e tutti gli Stati membri sono tenuti ad adeguare le loro politiche al Green Deal europeo. Il punto cruciale su cui si discute è, però, come questo sia attuabile nel migliore dei modi. 

Per poter approcciare un argomento così complesso come la transizione ecologica, il primo passo è rivedere la narrazione collettiva sull’ecologia. L’informazione pubblica ha un ruolo molto importante in questo senso: rendere accessibile al pubblico i dati scientifici sul cambiamento climatico e costruire consapevolezza. Costruire un “fronte unitario” dell’informazione è propedeutico alla progettazione di un piano inclusivo per la transizione.  

Gabriela Jacomella porta ad esempio il titolo de Il Giornale: “La rivincita della plastica da regina dell’inquinamento a scudo contro il virus. Mascherine, visiere, contenitori: niente protegge di più del nemico degli ecologisti. Che ora vive un altro boom.”  Decostruire questo tipo di narrazione è necessario: rischia di ridicolizzare una delle maggiori questioni ambientali. L’iper produzione di materiale plastico comporta problemi di smaltimento e riciclaggio, l’inquinamento dei mari e ha implicazioni sulla qualità del cibo che ingeriamo. Sicuramente l’usa e getta è una formula che si è resa necessaria per affrontare la pandemia in corso, tuttavia, non toglie nulla alla lotta ecologista all’inquinamento da plastica. 

In secondo luogo è fondamentale inquadrare le disuguaglianze sociali nell’ambito ambientale. La narrativa che circonda le tematiche ambientali rischia di far apparire la transizione ecologica come una prerogativa della classe media benestante.

Si è discusso dell’Ecobonus del 110%. Uno strumento di politica economica, con effetti moltiplicativi, che favorisce la decarbonizzazione e rende l’efficientamento energetico una prospettiva reale per molte aziende e molte famiglie, con l’effetto di diminuire le disuguaglianze sociali ed energetiche fuori e dentro casa. Tuttavia è emerso che, pur essendo un’iniziativa con enormi potenzialità, rischia di tagliare fuori gli appartenenti alle fasce sociali più deboli, della cosiddetta “povertà energetica”, cioè coloro che hanno difficoltà ad accedere ad un paniere minimo di beni e servizi energetici, per il soddisfacimento di bisogni fondamentali. In questa categoria tra il 2016 e il 2017, vi rientrava l’8,8% delle famiglie italiane. Per fare un esempio, coloro che non hanno neppure un impianto di riscaldamento, non avrebbero accesso al bonus.

Inoltre, come ribadisce Serena Ruggiero, la povertà energetica non dipende solamente dal reddito, ma dalle caratteristiche del nucleo familiare, dalla geografia, come dalle differenze tra i servizi accessibili dalle città e dalle periferie.

C’è il bisogno di attuare politiche integrate e trasversali che “uniscano la lotta alla povertà energetica alla lotta alla povertà tout court”. Lo dicono anche i dati del “grafico del giorno”: vi è una relazione lineare positiva tra l’Indice di Gini (indicatore di disuguaglianza) e il numero di reati ambientali commessi. Per fare in modo che la transizione ecologica del Paese sia un successo, il piano d’azione deve essere la just transition. La competenza dei tecnici è fondamentale, ma la decarbonizzazione di cui si ha bisogno è quella che non lascia indietro le fasce sociali più fragili, su cui molto spesso ricadono i costi dei processi economici. 

La società civile ha dato prova di essere pronta. Nella giornata, si ha avuto modo di conoscere la storia di Maria Teresa Imparato, di Legambiente Campania, che in collaborazione con la Fondazione Famiglia di Maria sta creando una comunità energetica 100% rinnovabile a San Giovanni, nella periferia Est di Napoli. “La transizione energetica è una delle vie del riscatto” dal degrado sociale e ambientale. Un bellissimo esempio di processo dal basso, che coinvolge l’intera comunità nel monitoraggio dei consumi e della qualità, per attuare una redistribuzione energetica in base ai bisogni, per mettere in comune il sapere e creare legami tra le famiglie.

Ancora, il progetto di Fondazione Comunità di Messina, che nei territori liberati da baraccopoli, ha messo in campo un programma di riqualificazione e costruzione di abitazioni in materiali ecologici. Qui si sottolinea come la tecnologia possa essere un potente strumento per la transizione. Attraverso dei sistemi open software, esempio brillante di “democratizzazione” del sapere, hanno creato una comunità energetica, capace di rispondere alle diverse esigenze di consumo dei componenti.  

La voglia di cambiare c’è anche dalla parte delle imprese, ma gli ostacoli sono ancora tanti.
Daniela Ducato ci parla del Medio Campidano, uno dei territori più poveri d’italia, in Sardegna. Qui, alcune imprese del territorio hanno ideato 150 prodotti con materiali rinnovabili, ambientalmente ed economicamente sostenibili. Sottolinea però come le normative e gli standard nazionali non aiutino alla realizzazione di materiali 100% rinnovabili, ma ancora convenga economicamente creare prodotti con piccole percentuali di riciclato. Le imprese vanno accompagnate verso un futuro più sostenibile, rendendo appetibile la transizione e riconoscendo i loro sforzi in questo senso, attraverso la creazione di certificati di eccellenza o di distretti industriali in cui circoli il sapere e l’innovazione. 

Inoltre, è emerso come l’impresa green incorpori la giustizia sociale. Come evidenzia Fabio Renzi, il 56% delle imprese green sono coesive (contro il 48% delle imprese tradizionali): si occupano del benessere sociale degli impiegati. “La green economy italiana dà lavoro, lavoro qualificato; è più stabile e favorisce la mobilità sociale. È infatti in crescita il numero di capi di aziende green con meno di 35 anni.”

Infine, quando Elly Schlein cita Alex Langer: “la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile” ci spinge a riflettere. Green economy è ripensare al nostro modo di vivere. È la partecipazione e l’integrazione di imprese, territori e persone nell’intero processo di transizione, per creare uno sviluppo locale dal basso, che sia davvero socialmente, economicamente ed ecologicamente sostenibile.


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