La polizia ci tiene al sicuro? Un mito! Ecco perché | Olivia Pace

Una volta rimossa la facciata di “garanti della sicurezza”, in realtà polizia e militari perpetuano la violenza a livello personale e professionale.

Nota contenutistica: questo pezzo parla di violenza sessuale sistemica e stupro.

La mia iniziazione all’attivismo e la maggior parte della mia formazione come organizzatrice di iniziative politiche si è svolta alla Portland State University con la campagna “Disarm PSU”. Nel 2015 il consiglio di amministrazione dell’università ha votato a favore della realizzazione ed implementazione di una forza di polizia armata appositamente nominata all’interno del campus. Gli studenti, il personale e i docenti prima di quel momento avevano combattuto per due anni contro la possibile creazione di questa forza di polizia. 

Durante l’esplosione iniziale del movimento Black Lives Matter, successivamente, in un campus sempre più diversificato, la comunità universitaria è rimasta estremamente spaventata dalla violenza della polizia e dal terrore che quest’organizzazione potrebbe portare ai neri e tutti gli studenti di colore del campus.

In risposta a tutte queste preoccupazioni, il consiglio di amministrazione insieme al collegio dell’università hanno presentato una litania di motivazioni profondamente problematiche rispetto all’iniziativa. 

Una di queste era che questa forza di polizia armata avrebbe potuto contribuire a mitigare la violenza sessuale nel campus attraverso una maggiore capacità e possibilità di usare la violenta, così come attraverso le nuove capacità investigative che avrebbero avuto i poliziotti in quanto agenti delegati.

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Mentre ascoltavamo questo ragionamento, io e i miei amici organizzatori, per lo più donne e persone di genere non conforme della fascia degli adolescenti e dei ventenni, ci siamo guardati intorno con stupore. Tutti noi avevamo subito un qualche tipo di violenza anche sessuale, ad un certo punto delle nostre vite. Alla maggior parte delle persone che conoscevamo era successo lo stesso. Nessuno di noi era andato alla polizia. Nessuno di noi conosceva qualcuno che fosse stato aiutato dalla polizia per cercare di ottenere giustizia contro chi li avevano violentati. 

La polizia perpetua la violenza di genere sia nella vita personale che in quella professionale.

Dalle forze di polizia alle forze armate, queste “armi” dello Stato pretendono di essere arbitri di giustizia e sicurezza in un modo estremamente superficiale. In realtà, non solo queste forze non riescono a creare sicurezza o a portare giustizia ai sopravvissuti alle violenze sessuali. Questi sistemi invece perpetuano essi stessi attivamente la violenza sessuale e la violenza di genere. 

Tra il 2005 e il 2013 più di 1.000 volte i poliziotti degli Stati Uniti sono stati accusati di “stupro forzato” o “carezze forzate”. Questi numeri non tengono conto dei molti casi che non rientrano poi negli standard legali di stupro e violenza sessuale, come gli agenti di polizia sotto copertura che costringono a fare sesso le prostitute durante le operazioni di punizione, una questione che Juno Mac e Molly Smith hanno esplorato in “Revolting Prostitutes”. 

La polizia perpetua questo tipo di violenza di genere sia nella vita personale che in quella professionale. Alcuni studi hanno scoperto che tra il 24% e il 40% delle famiglie di agenti di polizia subisce violenze domestiche, da 2 a 4 volte il tasso di violenza all’interno della popolazione generale. Questi numeri però non permettono nemmeno di iniziare a parlare dei milioni di prigionieri che vengono violentati mentre sono in carcere, dopo un primissimo contatto con la polizia.

Come ha insistito Martin Luther King Jr., il governo degli Stati Uniti è il più grande fornitore di violenza del mondo. Questa violenza non avviene solo attraverso le armi, ma anche attraverso la violenza economica, culturale, diplomatica e sessuale, solo per citarne alcune. Le convinzioni riduttive, razziste e xenofobe sulle persone che vivono nel Sud del mondo, in particolare quelle dei paesi musulmani, presuppongono che le donne di questi paesi siano soggiogate a un livello che le donne negli Stati Uniti non potrebbero mai immaginare.

Eppure queste convinzioni, questi stereotipi, insieme alle illusioni storiche ampiamente diffuse sul ruolo degli Stati Uniti come paladini della democrazia nel mondo, servono solo a giustificare la presenza dell’esercito americano all’estero. La violenza sessuale all’interno dell’esercito statunitense è dilagante, e la violenza contro il personale non militare all’estero è una questione raramente discussa, ma ancora estremamente diffusa. 

Per decenni, i residenti locali di Okinawa, una prefettura del Giappone e stazione di decine di migliaia di Marines degli Stati Uniti, hanno espresso profonda preoccupazione per le violenze sessuali commesse dai Marines sulla popolazione locale. Diversi casi di alto profilo provenienti dall’isola riguardano l’abuso sessuale di bambini. 

La violenza sessuale in Colombia per mano dell’esercito statunitense è stata estremamente pervasiva negli ultimi decenni, dai presunti abusi sessuali su minori da parte dei sergenti dell’esercito, ai maltrattamenti e gli abusi dei lavoratori del sesso da parte dei membri della DEA e dei servizi segreti. Un rapporto della commissione per la verità colombiana del 2015 ha giustamente etichettato questi atti come esempi di “imperialismo sessuale”.

In aggiunta, tutti questi sistemi violenti, militaristici e carcerari non mitigano in modo significativo la violenza sessuale all’interno delle comunità che controllano. Si stima che circa il 4,6% delle persone che commettono uno stupro vada in prigione, anche se questo numero è probabilmente molto più basso, dato che spessoe donne vittime di violenza sessuale non sporgono denuncia alla polizia. All’interno del sistema attuale, la violenza persiste, e mentre il tasso di criminalità violenta diminuisce, le carceri rinchiudono selettivamente coloro che sono meno privilegiati, mentre gli Epstein e gli Weinstein del mondo la fanno franca con innumerevoli stupri e aggressioni sessuali prima di essere ritenuti “responsabili” per davvero. 

Con questa riflessione, l’idea che la violenza sessuale possa essere risolta con la polizia, la carcerazione e il militarismo, diventa farsesca. Eppure, quando si affronta la questione dell’abolizione dei corpi di polizia, la prima domanda degli scettici (si tratta della maggioranza della popolazione) è in genere qualcosa del tipo “che dire allora di assassini e stupratori?” 

La violenza nella nostra società è principalmente una funzione del capitalismo razziale, un sistema costruito sulla violenza della schiavitù e del genocidio.

Ciò significa che ciò che è necessario per arrivare ad un appello globale rispetto all’abolizione della polizia è in gran parte lo sviluppo di una coscienza e una consapevolezza di come il nostro sistema attuale perpetui la violenza piuttosto che risolverla, e sulla comprensione di quale sia la radice della violenza alla base della nostra società. 

Se comprendiamo la violenza sessuale perpetuata dallo Stato come parte del più ampio problema della violenza nella nostra società, piuttosto che essere in qualche modo separati da essa, possiamo raccogliere risposte reali sul perché cose come la violenza sessuale persistano oggi, e come affrontarle.

La violenza sessuale non persiste in modo così dilagante a causa della mancanza di ordine pubblico, dei fallimenti individuali o delle carenze di una cultura specifica. La violenza nella nostra società è principalmente una funzione del capitalismo razziale, un sistema costruito sulla violenza della schiavitù e del genocidio, un argomento che Ibram X. Kendi esplora benissimo nel suo libro “Come essere antirazzista”. 

Ecco perché quei meccanismi che servono a proteggere il capitale perpetuano lo stesso tipo di violenza che ci viene fatto credere di prevenire. 

Se il militarismo potesse risolvere la violenza sessuale, il movimento Me Too sarebbe obsoleto in quest’epoca di incarcerazione di massa. Affrontare la violenza sessuale significa affrontare la supremazia bianca, il patriarcato e il capitalismo – questioni sociali di ampio respiro che attraversano la cultura. 

Questo non può essere fatto però attraverso la polizia e la punizione dei singoli individui, ma attraverso un metodo come la giustizia trasformativa. La giustizia trasformativa comporta non solo la gestione di singoli casi di violenza all’interno di una comunità, lontano dalle punizioni carcerarie, ma anche la costruzione di movimenti per affrontare l’ingiustizia economica e sociale.

L’attuale movimento Black Lives Matter per le vite dei neri comincia proprio ad affrontare questo problema attraverso l’appello per lo smantellamento e la “ricostruzione” o reinvenzione dei corpi di polizia, invitando la gente a immaginare come i fondi attualmente stanziati per la polizia possano essere incanalati verso la costruzione di meccanismi che promuovano realmente la sicurezza e il benessere delle comunità, come l’assistenza all’infanzia senza tasse scolastiche o la sanità pubblica per tutti gli anziani (Medicare).

La polizia e il militarismo destabilizzano e portano violenza in tutte le comunità. La giustizia trasformativa promuove invece comunità più forti che possano affrontare i problemi della violenza in modo olistico quando emergono. 

Legando queste questioni (che spesso sono trattate come esclusivamente interpersonali) a questioni sociali ed economiche più ampie che vengono affrontate attraverso l’antimilitarismo e i movimenti anti-carcerali come Black Lives Matter, abbiamo davvero una possibilità di mitigare in modo sostanziale la violenza sessuale nel nostro mondo.


Olivia Pace 

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Olivia Pace è una scrittrice nera, queer e donna, educatrice e organizzatrice/attivista politica di Portland, OR. Pubblica il suo lavoro su AYO Magazine, Prism Reports, il blog Forgive Everyone Collective e Stylist Magazine. Potete saperne di più sul suo lavoro seguendo il sito:

http://www.oliviapace.com/


Fonte: Waging Nonviolence, War Resisters, 1 dic 2020

Traduzione di Andrea Zenoni per il Centro Studi Sereno Regis

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