A cosa serve un festival al tempo del virus?


Il 17 novembre 2020 è iniziato il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. A introdurlo – con una riflessione personale proposta sul sito è stato Maurizio del Bufalo, presidente dell’associazione “Cinema e Diritti”, fondatore, coordinatore e promotore del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli.

Ci sarebbe da chiedersi se, dopo tanta amarezza, dolore, sorpresa dovuta alla pandemia che ha ferito il nostro mondo nell’anno 2020, c’è ancora spazio per tanti Festival culturali, artistici, sociali, politici che ripropongono, spesso, il paradigma del pensiero dominante e del mercato o non sarebbe meglio tacere e lasciar riflettere tutti, ognuno per sé, sul destino dei singoli e dell’Umanità, rendendo “definitivo” il distanziamento sociale che il virus ci ha imposto. È quello che ci chiediamo oggi, a pochi giorni dall’esordio della XII edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli

Del Bufalo fornisce due risposte a questo interrogativo.

La prima è che la missione che con i suoi collaboratori si era dato all’inizio, 15 anni fa, era stata quella di cercare nuovi spazi per il cinema in crisi, andando incontro a storie contemporanee, non solo italiane, incontrando le persone dove vivono, sperimentando quotidianamente il valore concreto dei Diritti Umani.

Forti di quei ricordi – continua Del Bufalo – abbiamo deciso di continuare a guardare fuori dell’uscio di casa, facendoci portavoce delle istanze di libertà e di lotta del cinema politico prodotto da popoli e Paesi che soffrivano la guerra o la mancanza di democrazia, anche nel cuore della grande Europa o persino nella lontana Australia. Siamo diventati cercatori di storie e di documentari che raccontavano le odierne forme di resistenza e di lotta contro il potere dei pochi che governano il mondo e questo ci ha trasmesso l’energia sufficiente a resistere fino ad oggi.

La seconda risposta è il valore che queste storie possono avere per sviluppare consapevolezza di ciò di cui abbiamo bisogno per essere migliori, per vivere pienamente la nostra vita, per mantenere viva una coscienza critica, continuando – come fu in passato – a fare del Cinema Italiano un punto di riferimento dei popoli in cerca di libertà.

Diritti in ginocchio. Pandemia, sovranismi e nuove discriminazioni.

Il Festival è iniziato il 17 novembre, e proseguirà fino al 28 novembre. In questi giorni si sono alternati – e proseguiranno – numerosi interventi e testimonianze, oltre a una ricca serie di film. Le opere in concorso provengono da più di 30 nazioni diverse e trattano di temi riguardanti tutti i Diritti Umani. La loro visione è gratuita. Per vedere i film in concorso basta registrarsi nel sito per avere  accesso alla visione di tutte le opere online. In diretta sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del Festival, e successivamente on demand su questo sito e sul canale YouTube del Festival saranno visibili gli eventi internazionali con film fuori concorso e contributi da esperti e testimoni.

Il Festival si è aperto, il mattino del 17 novembre, con una serie di riflessioni e testimonianze sul tema Pandemia e Democrazia. Dopo la relazione introduttiva di Gianni Tognoni (medico, esperto di epidemiologia clinica e comunitaria) si sono alternate voci di ricercatrici, studiosi, giornalisti, che hanno rivolto una particolare attenzione ai problemi e ai drammi che la diffusione del virus COVID-19 ha suscitato o esasperato nel Sud Est asiatico.

Nel pomeriggio del 17 novembre la giornata di apertura del Festival è proseguita con una nuova riflessione sul panorama internazionale, e con la presentazione della prima edizione dell’Atlante della Pandemia, una nuova pubblicazione dell’associazione 46simo Parallelo, che offrirà periodicamente un panorama della diffusione del fenomeno pandemico in relazione alle condizioni socio-economiche di tutte le regioni del mondo.

Tutte le relazioni, di grande interesse per la rilevanza e drammaticità dei loro messaggi, sono riascoltabili sul sito del Festival: tuttavia mi è sembrato utile trascrivere la prima relazione – quella di Gianni Tognoni – perché il suo contributo mi è sembrato particolarmente adatto a una riflessione approfondita, per la quale può essere utile avere a disposizione un testo scritto.

Ho avuto da Gianni Tognoni l’autorizzazione alla trascrizione, e dopo una sua cortese revisione del testo, ve lo propongo nelle prossime pagine. Premetto alla lettura delle sue riflessioni una presentazione dell’Autore, che ho tratto dal sito del Festival.  

Gianni Tognoni, medico, esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. Da 35 anni alla guida del Tribunale Permanente dei Popoli, il Dott. Tognoni è stato coinvolto nella promozione della persona e dei diritti delle persone, a cominciare dalla sua partecipazione al Tribunale Russell 2 sulle dittature latinoamericane (1973-76) e alla preparazione della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Nel campo professionale della medicina, ha collaborato con l’OMS nella formulazione di politiche sui farmaci essenziali e ha attivato gruppi di ricerca in epidemiologia di comunità nella maggior parte dei paesi dell’America Centrale e Latina e in Africa. A Tognoni è affidata la relazione introduttiva del nostro Festival perché nella sua figura di medico e difensore dei Diritti Umani, riassume idealmente la cultura universale a cui ci siamo appellati in questi anni, invocando dapprima la Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 e poi l’intervento della scienza nelle questioni ambientali, affrontate con l’ultima edizione del nostro Festival (2019), dedicata al cambiamento climatico.


Gianni Tognoni – Testo dell’intervento al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli- 17 novembre 2020

Pandemia e democrazia

Ho cercato di mettere nella mia riflessione i due punti di vista che sono sicuramente complementari per l’argomento di cui parliamo: la pandemia virale, che rimanda automaticamente a un problema medico sanitario, e per altri versi a quella che è stata la gestione più o meno democratica di questa pandemia. .. Dato il tempo a disposizione, e per tutte le cose già dette, sintetizzo abbastanza alcune affermazioni, proprio per dare un filo alle discussioni che saranno poi sviluppate.

La decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di qualificare come pandemia una condizione contagiosa deve essere collocata nel contesto che da circa 25 anni è divenuto corrente nel linguaggio anzitutto economico, e poi più estesamente geopolitico, che è quello della globalizzazione: intendendo con questo una realtà di ‘comunicazione totale e permanente’ di merci, di transazioni finanziarie, di spostamenti. In questo contesto, epidemie , cioè diffusioni di malattie virali della stessa gravità del Covid-19 sono state la ‘norma’ nei paesi di quello che si continua a chiamare Terzo Mondo: mondo ‘altro’, anche se esposto alla stessa globalizzazione economica e geopolitica:  Ebola in Africa, Zika in America Latina sono due dei nomi più noti. Con la sola differenza che, per ragioni non note, la loro diffusione è stata ‘contenuta’: non è entrata nella circolazione globalizzata, che pure si poteva prevedere come possibilità, tanto che una situazione di pandemia era già stata ipotizzata almeno a partire dal 2015, date alcune caratteristiche che già avevano caratterizzato epidemie come quella della SARS o della MERS che avevano sfiorato anche paesi diversi da quelli di origine. La qualifica di pandemia, che sembrava dovesse essere un termine da tenere ben chiuso in un cassetto pieno di cose antiche,  è riemersa perché questo virus sembrava, poi si è dimostrato effettivamente, portatore di una infettività superiore a quella di tutti gli altri, senza frontiere, e capace di inserirsi nei circuiti tipici di un mondo ‘globale’, che nella sua pretesa di controllo e di conoscenze immediatamente  disponibili si pensava protetto da eventi dirompenti.

 Distanza e chiusura

È interessante vedere che in fondo la pandemia fotografa – e questo è un primo punto importante – l’inattesa incapacità di una scienza che si pensava come globale nel proteggere la salute dei paesi ricchi di andare al di là della descrizione del virus, di controllarlo, e di saperne i percorsi di diffusione e ancor meno tutto quello che eventualmente si poteva fare. Di fatto le due risposte che sono state date alla pandemia sono state risposte prettamente non sanitarie: risposte antiche, le stesse della peste di Atene,  di quella del Boccaccio, della spagnola di un secolo fa. La scienza del tempo ipertecnologico e globale ha potuto produrre solo due misure di protezione: la distanza fisica (purtroppo qualificata come ‘sociale’), e la chiusura delle comunicazioni: con l’accompagnamento delle mascherine, già per altro ben presenti anche nelle foto d’epoca della  spagnola. Misure che anche nella terminologia hanno dato l’idea che si sospendevano le regole del gioco delle relazioni  tra umani e tra popoli.

Distanza e chiusura In fondo erano l’espressione dell’impotenza e dell’ignoranza di una comunità scientifica nel controllare quello che era stato il segnale della grande globalizzazione: non si sapeva come eventualmente bloccare le catene di trasmissione commerciale e di mercato che erano guardate come il sistema di trasmissione anche del virus. Noi abbiamo vissuto tutto questo tempo, e ancora adesso sostanzialmente, con due misure che non vengono presentate come espressione dei limiti della nostra capacità di conoscere e gestire la realtà, ma come impegni e obblighi cui obbedire, in assenza per altro di un rapporto partecipativo con decisioni che vengono prese da un ‘centro’ (o da tanti centri) che si dichiara sostenuto da una scienza incapace però di trasparenza e di condivisione di incertezza.

Quello che tuttavia è importante dal punto di vista sia sanitario che di democrazia è il fatto che quando uno prende delle misure di questo tipo e non riconosce esplicitamente il limite di questa risposta, e non qualifica direttamente che queste risposte corrispondono soltanto a sistemi polizieschi e della sicurezza, evidentemente si stabilisce una distanza culturale e di valori tra chi decide e gli altri. C’è qualcuno che controlla centralmente delle decisioni e gli altri non hanno che da obbedire e sperare. E’ impressionante  in questo senso vedere come l’ignoranza e l’impotenza della comunità scientifica internazionale è stata anche quella di non riuscire o non volere descrivere in una maniera comparabile tra i diversi paesi quello che stava e sta succedendo. Basta vedere – lo si ripete tante volte ma è molto più grave di quello che si pensi – dal punto di vista innanzitutto scientifico, e poi dal punto di vista politico e culturale, il fatto che gli unici messaggi che sono stati dati di tutta questa pandemia sono stati messaggi emessi per bollettini, come se ci fosse la guerra. Numeri, sostanzialmente incomprensibili, spesso ballerini e non riconducibili a popolazioni identificabili, di contagiati, morti, tamponi…: come se tutta la conoscenza fosse raccolta in questi numeri. Ed è interessante perché, primo, è una menzogna, una fake new, non è vero che la nostra conoscenza di quello che succede può essere riassunta in morti e contagiati, anzi, questa è una cosa molto fuorviante, soprattutto poi quando si mettono questi morti e contagiati in confronti tra paesi tra loro non confrontabili. Non ha senso confrontare la diffusione della pandemia in India piuttosto che negli Stati Uniti, in Italia piuttosto che in un paese dell’America Latina come l’Ecuador, che è senza un sistema sanitario pur avendo un sistema sanitario dichiarato.

Big data e digitalizzazione

La pandemia diventa la scusa per far scomparire la vita delle persone, la loro vita reale, la loro cultura, e per dare spazio soltanto a quei ‘mezzi’ di comunicazione che sono guardati oggi come l’unico ‘modo’ di comunicazione. Con un problema importante che secondo me ha molto a che fare con la democrazia: alla vigilia della pandemia, se uno guardava quali erano le parole chiave che venivano date per avere un’idea del futuro che poteva far uscire da una crisi o da una precarietà economica, c’erano due grandi termini che si applicavano come veramente i ‘salvavita’ . Uno è quello dei big data, la grande disponibilità dei dati, che potevano permettere di fare tutto… nell’economia, nel commercio … e tutti dovevamo essere coscienti di essere in un tempo fortunato perché con i big data, l’intelligenza artificiale, il deep learning – tutte queste parole inglesi che davano un’idea del controllo della realtà,  questi si sono trasformati – la parola è grande – in un grande imbroglio.  I big data sembrano effettivamente quelli che non parlano della realtà, ma parlano di se stessi. E finiscono per essere l’espressione di un futuro che sarà sempre più controllato da pochissimi attori – il fatto che i grandi controllori di big data, in modi diversi, Facebook piuttosto che Amazon piuttosto che Google, sono diventati ancor più potenti ma con una caratteristica: che questi big data stanno circolando liberamente, come dei virus, non controllati, non producono conoscenza, e tutto il discorso chiamiamolo ‘scientifico’ si è ridotto a quello che è un confronto di cosiddetti esperti nei talk show.    

I big data e l’altra parola chiave che era stata proposta, che era la digitalizzazione di tutto, si sono rivelati  strumenti non inclusivi, ma che escludevano ulteriormente:  quella che ogni tanto viene chiamata la ‘infodemia’, ma si tratta di qualcosa che non sono solo troppe informazioni. E’ proprio la rivelazione che l’informazione è sostanzialmente sempre più manipolabile molto più ancora che manipolata. Uno può dire: lo sappiamo da sempre. Il problema è di sapere quanto e come questo ‘sapere’ diventa qualcosa che può essere eventualmente controllabile.

I diritti in ginocchio

Ecco che allora la parola che è scomparsa con la pandemia dal discorso generale e dalla cultura è in qualche modo effettivamente la parola delle persone, dei diritti personali e dei popoli. I diritti in ginocchio sono di fatto la rivelazione che il diritto è in ginocchio rispetto alle tecnologie o alle tecniche che ne dovrebbero garantire la attribuibilità alle persone reali. In una logica di top-down – lo possiamo vedere anche adesso in quello che è visto, e giustamente, come uno dei modi di vedere la luce in fondo al tunnel, che è il discorso dei vaccini –  tutto è gestito come parte sostanzialmente di una guerra commerciale. Nessuno sa cosa c’è dietro in realtà.  Il comunicato stampa diventa la comunicazione di un diritto che dovrebbe essere risolutivo. Ed è chiaro che il comunicato stampa serve per far presto salire le borse e differenziare i guadagni delle grandi imprese, ma dà l’idea  che nessuno sa quando, e soprattutto a quanti, arriverà.  Già sono state fatte delle valutazioni: OXFAM e altri dicono che si e no il 13% di tutto quello che sarà prodotto di vaccini andrà alla grande maggioranza degli esclusi, e che il vaccino cosiddetto universale sarà semplicemente uno dei grandi capitoli del mercato, delle guerra commerciali. . Anche il capitolo del vaccino, che è proprio all’incrocio perfetto tra sanità, diritti e prospettive di futuro, sembra obbedire a questa stessa regola di mettere la salute come parola che garantisce una volontà di bene e di metterla in qualche modo al servizio di nascondere e di rendere gestibile da pochi, da alcuni una realtà. Sono molte, importanti le proposte di fare del capitolo-vaccini il caso modello per riaprire concretamente il problema strutturale dei ‘beni comuni’. Le trattative in corso ( coperte da molti segreti, commerciali, politici, economici, giuridici) fanno chiaramente vedere che la pandemia è un ‘evento sentinella’: pone direttamente la domanda profonda su una ‘civiltà’ che non sembra disposta a considerare la vita come un bene comune: un diritto non solo affermato, ma ‘attribuibile’, universalmente. Perché il vaccino è salvavita solo se fa parte di una accessibilità ai beni essenziali, dell’acqua, del cibo, della casa che sono le pandemie permanenti rispetto alle quali l’unico vaccino può solo coincidere con un rovesciamento di modelli di sviluppo che non vedono il diritto ‘in ginocchio’, e schiavo, di fronte alla disuguaglianza programmata ed inviolabile.  La pandemia è stata  nella storia  una delle grandi protagoniste delle vicende degli stati: per la prima volta i suoi aspetti sanitari rivelano molto più il loro rapporto diretto con gli scenari che rendono possibili democrazie credibili per la loro volontà-capacità di essere garanti di una vita nella dignità per tutt*, nessun* esclus*….

Una civiltà in discussione

Dicono che in Africa non hanno così paura: è chiaro che la convivenza con le pandemie per loro, nei loro paesi, è qualcosa che abitua a tante cose, ma è perché sono abituati , o costretti alle pandemie della disuguaglianza, della marginalità, della non digitalizzazione….  La pandemia diventa molto importante sanitariamente perché è quello che si vede quotidianamente nei paesi che non hanno diritti di salute inclusi tra i diritti fondamentali, e un po’ anche da noi… E’ un dramma, è una tragedia, per tutti quelli che muoiono, ma è importante che questi indicatori siano letti per quello che sono: indicatori di una civiltà che è in discussione, come è in discussione oggi anche simbolicamente,  nel piccolo e nel grande, nella nostra cosiddetta democratica Europa, in cui avere diritti o rispettare diritti sembra che possa essere un’opzione e non un punto di partenza. D’altra parte, è chiaro che la pandemia è diventata talmente la protagonista per tutto quello che abbiamo detto del mondo e anche dell’informazione dei diritti che perfino il dibattito sui migranti, che è il punto che mette in evidenza la nostra capacità o meno di riconoscerci come umani, è stato accantonato, dopo tante promesse, perfino dall’agenda dell’Unione Europea. E noi siamo i testimoni di quello che era il destino dei tedeschi, o la volontà dei tedeschi quando si stabilivano piani e campi di concentramento: oggi, nel mondo globale , siamo tutt* testimoni, quelli che vedono tutto quello che succede, e perciò anche l’occultamento in nome di altri diritti sanitari ed economici. Siamo in un punto critico, un tempo che deve vedere veramente il diritto, come la democrazia, come un grande tema di ricerca per trovare  categorie, credibilità, linguaggi che lo rimettano un po’ al centro del mondo, e così mettendo al centro del mondo la vita delle persone. …

[Dopo la testimonianza di Arundati Roy]

Posso solo condividere la sua sottolineatura e mettere in evidenza il collegamento che c’è tra il problema che si è manifestato in India e quello che la pandemia sta producendo da altre parti.  Ci sono dei paesi, e l’india in questo senso è il modello dove tutto questo si esprime al massimo, in cui c’è una deriva sempre più forte di quelli che sono gli organismi o le categorie culturali di difesa dei diritti, come la magistratura, che preferisce ( obbligata? manipolata?) rispondere a  criteri che considerano una  ‘sicurezza’ funzionale a ‘dittature democratiche’  ed esercita un diritto capovolto, garante dei poteri e non dei bisogni. Arundhati Roy l’ha messo molto bene in evidenza nei suoi ultimi scritti a proposito dell’India, ed  è anche un po’ il problema che abbiamo, e mi sembra importante, nel lavoro che svolgiamo nel Tribunale Permanente dei Popoli. Dobbiamo ritornare a pensare che il diritto internazionale (nato per giustificare, nella prima globalizzazione prodotta dalla ‘conquista, il più grande genocidio della storia) è stato pensato per difendere i conquistatori, non  le popolazioni titolari dell’unico diritto inviolabile, che è  quello di essere umani. Con la globalizzazione il diritto internazionale (e dei paesi che ne sono gli esecutori fedeli) ritorna a quello che era la sua origine: è quello che garantisce i diritti acquisiti dai ‘proprietari’ (per riprendere un termine giustamente evocato come ‘centrale’, perché indiscutibile, nell’ordine economico e giuridico attuale, da un economista come Piketty). Ai tempi della conquista erano quelli che dichiaravano la conquista una scoperta di civiltà;  quello che sta succedendo ora lo conferma: da  Modi , a Bolsonaro, agli scenari di guerra che sono ritornati ad essere modi di ‘governance’ sostanzialmente considerati come normali.

Un diritto in ginocchio [Intervento conclusivo della sessione del mattino]

Credo che le pandemie (quella virale che viviamo, e quelle strutturali che si sono citate) siano un test critico per la tenuta delle democrazie. Nella storia sono state  espressioni e promotrici  di disuguaglianze. I disuguali più disuguali e più poveri morivano, come si fa adesso ancora da tante parti: nelle statistiche ufficiali le vittime delle pandemie strutturali non si contano, non si considerano ‘evitabili’. Poi la pandemia da virus mette in evidenza quali sono le strutture portanti  della società. E in questo senso vorrei fare due commenti brevi su tutta la mattina, ringraziando le colleghe che hanno presentato questa grande carrellata sull’India, proprio perché hanno messo in evidenza cose  importanti che forse vale la pena di ricordare un po’ di più qui in un Festival a Napoli. Tutto ciò che è successo in India in questi anni è successo sostanzialmente con il perfetto silenzio e la perfetta alleanza di tutti i poteri internazionali.  La pandemia ha semplicemente detto:  “guardate: se aprite gli occhi vedete intorno tante pandemie, tra cui per esempio questa infezione virale, potenzialmente mortale ,della democrazia”.  Il fatto che oggi si possa ancora discutere in Europa se l’osservanza dei diritti (fondamentali, personali, dei migranti, degli ‘scartati’ dall’economia) debba essere una condizione per stare in Europa, non è pensabile. Vedremo poi cosa succederà.  La stessa cosa e’ vera per Israele rispetto alla Palestina:   contro tutte le dichiarazioni di tutti i paesi Israele viene chiamata normalmente dalla stampa la più grande democrazia del Medio Oriente. E l’India la più ‘grande’ democrazia del mondo;  il Brasile la più grande democrazia dell’America Latina ; senza parlare della Cina, che non pensa neppure di qualificarsi come democrazia…

Io penso che la pandemia ha rivelato la pertinenza e l’urgenza del titolo del vostro Festival: siamo in un momento in cui constatiamo – tanto che diamo un titolo a un Festival – che il diritto è in ginocchio. Il grande problema oggi è che è un diritto che non ha più parola … non ha più diritto di parola.  Può soltanto constatare quante e quanto gravi ed impunite sono le violazioni. Che cosa ci si può aspettare da un ‘diritto in ginocchio’?

Immaginare una nuova democrazia 

A questo punto penso davvero che la pandemia ponga domande di fondo alla democrazia : la democrazia è colpita a morte nella sua caratteristica di essere attribuibile alle persone che dovrebbe proteggere. E’ il discorso che riguarda i diritti dei popoli: a furia di accontentarsi di contare le vittime, come noi contiamo i morti nelle pandemie, non immaginiamo la loro identità  di essere soggetti vivi della storia, e si perde sempre più di vista la loro capacità progettuale. Le tante iniziative che sono state ricordate – e sono stato molto contento di sentirne tante, di storie di resistenza e, con  Arundhati Roy,  anche di immaginario – dicono che  abbiamo proprio bisogno oggi  di far ritornare nell’immaginario una democrazia che non abbia bisogno di denunce di vittime, ma una democrazia che guardi in avanti a qualcosa di diverso. Il mondo globale come era stato costruito è un mondo che arricchisce tutti quelli che sono già iper-ricchi in una maniera folle, che non è controllabile,  perché finisce per imporsi come un modello positivo di sviluppo.  Allora, non pretendo di riassumere io le cose che dite voi, ma penso che il fatto di vedere un Festival su questo tema è un po’ come dire : “guardate che noi dobbiamo riprendere – siamo in Italia – quanto Don Milani diceva sul potere delle parole quando queste appartengono solo al potere: c’è un problema urgente di alfabetizzazione. Le scuole che ci stanno ascoltando a Napoli mi piace pensarle come  un modello o un seme , che sia evangelico o che sia un seme di quelli transgenici che fanno nascere tante cose : c’è un  problema di alfabetizzazione importante, perché le nuove generazioni rispetto a tutti questi cambiamenti non possono avere una comprensione generale: nessuno la può avere, e ancor meno le nuove generazioni.  A questo punto penso che l’alfabetizzazione si deve fare non tanto insegnando  soltanto delle cose, ma entrando nel merito e forzando sull’immaginario – che è lo scopo di questo Festival del Cinema. Dobbiamo  riuscire di nuovo a rappresentarci il futuro, altrimenti continuiamo ad aspettare dei decreti che sono di sicurezza, di restrizione, e di battibecchi politici senza progetti. Penso che uno dei problemi  della pandemia  è proprio stato quello di toglierci la capacità  di prendere le distanze e di rendere possibile un immaginario. Anche per il campo ristretto della sanità, dove abbiamo visto le cose incredibili che hanno fatto tanti operatori, si sta discutendo con quelli che lavorano in sanità per dire “ma voi che sanità volete?” Il futuro non può essere un mettere pezze in un sistema sanitario che non c’è più…E’ inutile far finta, non c’è più. Perché dovremmo cambiare tutto il rapporto pubblico-privato: e tante tante cose strutturali, di cultura. In questo mondo che non c’è più, che cosa serve?  Serve ‘immaginare’, con tante pratiche diverse, la definizione di un nuovo diritto, non in ginocchio, ma un diritto  che diventi veramente dialettico e che faccia ‘vedere’ la sua dialettica, che in fondo è stato quello della “disobbedienza non è più una virtù”, dell’assoluzione di Danilo Dolci, dei diritti dei lavoratori …. C’è tanta gente del Sud che ha fatto vedere che il diritto c’è nella misura in cui si oppone al potere, non nella misura in cui finisce per essere sostanzialmente testimone che con molti equilibri finisce per accettare ciò che non è perfettamente giustificabile.  Penso che siamo un po’ dentro – non nella vigilia, ma dentro – a questa fase di avere il coraggio  di allearsi tra coloro che lavorano sui diritti – come Amnesty che abbiamo sentito prima, e come voi che lavorate sull’immaginario- perché è su questo che possiamo – penso – ‘cercare’ insieme, perché non è facile, una democrazia che riacquisti un proprio linguaggio credibile.

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