Prevenzione dell’estremismo violento o aiuto allo sviluppo dei media?
La caratteristica ideologia della Guerra al Terrorismo è stata riassunta da Richard Perle, falco dell’era di Reagan che al tempo dei dirottamenti suicidi dell’11 settembre [2001] dirigeva il think-tank interno al Pentagono Defense Policy Board.
“Dobbiamo decontestualizzare il terrore/ismo” intonava. “Qualunque tentativodi trattare le radici del terrorismo è un tentativo di giustificarlo. Dev’essere semplicemente combattuto e distrutto”.
Il giorno dopo gli attacchi volai in Macedonia per una riunione di giornalisti e istruttori di giornalismo, in un albergo dove tutti i canali [televisivi] locali avevano rinunciato ai propri programmi per una copertura continua della crisi su CNN. Un presentatore se non altro interpellò il suo ospite in studio – un altro esperto di Washington – sulla saggezza dell’utilizzo della forza militare: “Ma il terrorismo non è un’idra a più teste?” “Sì” gli risposero immediatamente: “E noi le mozzeremo tutte le teste”.
Quell’impulso, di reagire senza riguardi, ha mantenuto le industrie militari in attività profittevole per due decenni. Ma la strategia di combattere e distruggere fu sempre un fallimento, perfino rispetto ai propri stessi termini. Il rapporto sul primo anniversario per il Gruppo di Ricerca di Oxford, da parte di Paul Rogers e Scilla Elworthy, stabilì che “[Al Qaeda] e i suoi associati han fatto sì di programmare, e spesso intraprendere, una notevole gamma di attività, con il complesso delle quali esibendo una capacità che supera quella esistente prima degli attentati dell’1 settembre. Già solo su tale base è difficile accettare qualunque asserzione che la guerra al terrore/ismo si stia vincendo”.
Da allora, la Guerra al Terrorismo è diventata evanescente tanto nella retorica politica quanto nella copertura mediatica. La database Factiva di fonti globali di notizie rivela 1,405 citazioni dell’espressione nel mese di settembre 2005; 331 nel settembre 2010; 238 nel settembre 2015, e solo 94 il mese scorso.
Ma le sue premesse dominano ancora sulle politiche estere e militari degli USA e paesi loro alleati, e stanno diventando incistate sempre più profondamente, non da meno all’ONU. Il think-tank britannico su pace e sicurezza, Saferworld, ha documentato “straordinari costi…” della campagna;
“in Afghanistan, Pakistan e Iraq, almeno 480.000 personesono state uccise direttamente, fra i quali almeno 240.000 erano civili”.Il suo rapporto mostra inoltre come il contro-terrorismo sia cresciuto fino a un “quarto pilastro” non dichiarato, distorcendo e riducendo l’opera ONU per la pace, lo sviluppo e i diritti umani.
Come mostra il documento di discussione Saferworld, il concetto essenziale espresso da Richard Perle nel lontano 2001 si è evoluto, assumendo via via diverse etichette come il “contrasto”(C) e la “prevenzione dell’estremismo violento” (PVE), e dando luogo a interventi multipli in società affette da conflitti violenti, in vari campi, fra i quali l’informazione e la comunicazione. Il sito web dell’Ufficio Affari Esteri e Commonwealth del Regno Unito, per esempio, si vanta specificamente del suo sostegno finanziario alle campagne comunicative PVE, designate come elemento primario dell’Aiuto allo Sviluppo Oltremare a stati fragili e a rischio di sfascio.
Tali campagne sono criticate per numerosi motivi: in quanto ostili ai diritti umani, particolarmente alla libera espressione, ad esempio; e in quanto stigmatizzanti coloro già esclusi o ai margini delle loro società. Le loro premesse comunicative peculiari si basano su concetti superati di comunicazione strategica: al meglio propense a trascurare i “fattori che contribuiscono al terrorismo”, osservano Matt Freear e Andrew Glazzard nel bollettino del Royal United Services Institute; nel caso peggiore atte a soffocare i legittimi tentativi di fare le proprie rimostranze su temi di giustizia, ove queste siano inopportune per le autorità di paesi associati e/o donatori.
Fin dall’inizio, la Guerra al Terrorismo ebbe un soffio di malafede intellettuale – che i responsabili di tali politiche seppero sempre che non avevano senso ma ci si accomodavano comunque per compiacere i falchi di Washington, i giornali bellicosi o gli avidi fabbricanti di armi. In Gran Bretagna il campione di politica estera conservatrice nonché ultimo governatore di Hong Kong, Lord Patten, sosteneva che le preoccupazioni di sicurezza in Afghanistan sarebbero state meglio accudite con un’“assistenza allo sviluppo attentamente mirata” piuttosto che con le presunte bombe intelligenti che al tempo piovevano sul paese con la precipitosa furia vendicatrice dell’amministrazione di George W Bush.
Tema ripreso mesi dopo col raduno a Monterrey, Messico, nel marzo 2002, dei capi di 50 paesi poveri per premere per una maggiore azione collettiva per adempiere agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG), adottati dall’ONU per dimezzare la povertà globale entro il 2015. Uno dopo l’altro, i relatori si succedettero nel collegare quel progetto alla riduzione della minaccia terroristica, riferì l’Associated Press. “Nella scia dell’11 settembre, esigeremo con vigore che sviluppo, pace e sicurezza siano inseparabili”, dichiarò il presidente dell’Assemblea Generale ONU, Han Seung-soo.
Per il periodo fino al 2030 gli MDG cedettero il passo agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), ciascuno dei quali va perseguito disponendo politiche specifiche. L’SDG 16 sembra prender atto della richiesta di Seung-soo impegnando l’aiuto e la comunità miranti allo sviluppo a partorire società “pacifiche e inclusive”. Il suo decimo obiettivo cita il “pubblico accesso “quale co-requisito essenziale.
Mentre si stavano adottando gli SDG, una rassegna d’iniziative d’informazione e comunicazione su C/PVE,non trovava alcuna evidenza della loro efficacia, neppure secondo i propri criteri. Invece, l’autrice, dr Kate Ferguson della Partnership for Conflict, Crime and Security Research del Regno Unito, rilevava che “approcci alternativi”, basati sul fornire aiuto allo sviluppo dei media, “sono sostenuti da una base di ricerca più forte e più stabilita, tratta dai campi multi-disciplinaridello sviluppo, del peace building, e della coesione sociale”.
Media indipendenti possono costruire risorse di fiducia in comunità a rischio e permettere l’articolazione di temi di giustizia, così vanificando gli appelli a prendere le armi.
Tuttavia James Deane, capo di politica e ricerca per Media Action BBC, avvisava in un recente seminario di un “massiccio crollo nei media indipendenti a livello mondiale”, esacerbato dalla pandemia Covid19; proseguendo:“Il modellomercatistico a sostegno dei media indipendenti è finito.Gli effetti peggiori sono nei paesi a basso reddito”.
Non dovrebbero quindi esserci apprensioni fra le agenzie di sviluppo per investire nella sostituzione del modello di mercato come mezzo per sostenere tali media. Attività che ovviamente dovrebbe partire dalla base di ricerca acquisita riguardo a quel che è efficace nel proteggere società fragili. Come potrebbe esserci fiducia che servirebbero nuove strutture mediatiche sostenute da denaro pubblico? L’attuale crisi ci riporta al 2002, quando l’allora direttore del Toda Institute for Peace and Future Research, il compianto professor Majid Tehranian, propose il Giornalismo di Pace come chiave per “negoziare l’etica dei media globali” e, a una nuova agenzia di finanziamento ONU – una Banca di Sviluppo dei Media specializzata – do assumersi tali responsabilità.
Da allora il Giornalismo di Pace – un insieme ideativo di distinzioni nei reportage sui conflitti, modellato in origine da Johan Galtung – è emerso come principio organizzativo sia per iniziative nell’assistenza allo sviluppo dei media, tipicamente sotto forma di corsi formativi per giornalisti, sia per la dottrina accademica. I ricercatori hanno stabilito che esiste effettivamente, derivando dal modello criteri valutativi per l’analisi del contenuto, e che fa una differenza nelle reazioni del pubblico [cui si rivolge].
Dove le prove sono più a chiazze di leopardo è a proposito di se e quanto redattori e reporter partecipanti ad attività finalizzate come un corso formativo, possano realizzare le proprie idee nuove – sebbene uno studio pilota con alunni del mio corso mediatico sulla risoluzione dei conflitti all’Università di Sydney abbia fornito almeno qualche base per ipotizzare che lo possano. E’ là dove la spesa in assistenza abbia permesso la creazione di strutture nuove non mosse dal mercato – come l’eccellente Mindanewsnelle Filippine meridionali, il cui personale originario frequentò il corso nel 2003 – che il Giornalismo di Pace è stato impiantato più saldamente e si è dimostrato più durevole.
La Guerra al Terrorismo è stata costruita su fondamenta di disonestà intellettuale. Al peggio, fu un pretesto per spese e schieramenti militari incessanti, iterati con una ferocia che cresceva in proporzione esattamente inversa all’evidenza rapidamente emergente della sua inefficacia nella prevenzione del terrorismo. I suoi discendenti diretti – le iniziative per “contrastare” o “prevenire l’ estremismo violento” hanno teso analogamente a procedure sfracellando senza rimorsi, compreso nei campi dell’informazione e comunicazione, pur non avendo alcuna base probatoria di prospettive di successo, neppure secondo i propri criteri.
Nel far sì che le tematiche di giustizia trovino il loro spazio nelle sfere pubbliche, i media indipendenti che fanno Giornalismo di Pace possono costruire fiducia in comunità che possono proteggerli dalle asserzioni di combattere e distruggere. Possono suggerire al pubblico permettendogli di considerare e avvalorare risposte nonviolente ai conflitti. Adesso si richiedono investimenti per sostenere il giornalismo nel suo momento di crisi. Questo, non campagne fraintese di comunicazione strategica, dovrebbe essere l’enfasi dell’aiuto e dello sviluppo nello spazio dell’ informazione, onde permettere che prendano forma società pacifiche e inclusive.
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Tratterò questi temi alla Conferenza Pace Globalein ascesa del mese prossimo all’Università di Coventry.
EDITORIAL, 12 Oct 2020| #660 | Jake Lynch – TRANSCEND Media Service
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
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