Agire per la pace
Per agire per la pace è davvero il caso di dedicare alcuni minuti del nostro tempo ad una lettura attenta e riflessiva dell’ultimo contributo tematico di Jan Oberg, che opportunamente il Centro Studi Sereno Regis ha pubblicato lo scorso 25 settembre, con il titolo, in italiano, «Il discorso smarrito sulla pace e le arti come possibile via d’uscita?». Jan Oberg non è nuovo a studi e riflessioni di tale profilo: cofondatore del TFF, il Transnational Foundation for Peace & Future Research, una delle realtà internazionali più solide nel campo della ricerca-azione per la pace, ispirata al motto galtunghiano della costruzione della «pace con mezzi pacifici».
Jan Oberg è docente, come si direbbe in italiano, di Scienze per la Pace (Peace Studies), professore presso l’Università di Lund, già direttore dell’Istituto di Ricerca per la Pace del medesimo Ateneo (Lund University Peace Research Institute, LUPRI), in passato membro anche del Comitato per la Sicurezza e il Disarmo del governo danese. Esperto nella ricerca-azione, si è impegnato in iniziative e mediazioni di pace in ex-Jugoslavia, Georgia, Burundi, Iraq e Siria.
È questo il retroterra sul cui sfondo torna, nel “saggio breve” sopra richiamato, a interrogarsi (e interrogare noi in senso ampio, come comunità degli operatori e delle operatrici di pace e come opinione pubblica mondiale) su un paio di grandi questioni. Conviene passarle in rassegna, per estrarne il nucleo e portarne in evidenza la riflessione. Prima questione: la scomparsa della “pace”.
Si tratta della sua riflessione di apertura ed è, al tempo stesso, il nodo con cui da decenni le forze e i protagonisti del movimento dei movimenti e, in particolare, dei movimenti per la pace e contro la guerra, si trovano a confrontarsi: «il discorso sulla pace o per la pace è prevalentemente sparito negli ultimi 20-30 anni. Vale per la ricerca – e le sue possibilità di finanziamento non-governativo – per la politica in generale e i media. Nella politica estera e di sicurezza, il livello intellettuale è ora tale che non pare neppure strano ai decisori di non procurarsi mai consigli sulla pace o consultare esperti di pace. L’ipotesi fantasiosa è che solo se ci sono sufficienti «mezzi di sicurezza» militari applicati ad abbastanza problemi della società, si instaurerà allora, automaticamente, la pace».
Si tratta di un’osservazione puntuale e pertinente, che rappresenta la condizione reale attuale, ma della quale è opportuno focalizzare le radici in profondità. La “militarizzazione” è diventata sempre più una dimensione profonda, strutturale, delle modalità di organizzazione delle relazioni sociali e dello spazio pubblico; capitalismo, patriarcato e militarismo sempre più intensamente si affermano come aspetti della medesima dinamica, una dinamica strutturale, che finisce inevitabilmente per generare anche radicali impatti culturali, nelle percezioni e nelle aspirazioni, negli immaginari e nei cosiddetti «stili di pensiero».
Non solo l’approccio militare è diventato e continua sempre più ad essere l’approccio fondamentale ed essenziale nelle relazioni internazionali e nelle controversie internazionali (pensiamo solo alle politiche sulle migrazioni e alla continua, perfino ossessiva, associazione del tema “migrazioni” con il tema “sicurezza”).
Ma anche funzioni e compiti del tutto “civili” vengono sempre più gestiti con strumenti e capacità “militari” lasciando trasparire una modalità o un disegno di continua rifunzionalizzazione e legittimazione del militare (esempi a iosa, dai soldati nelle strade a gestire l’ordine pubblico, alla protezione civile – appunto, civile – sostanzialmente affidata ai militari, fino alla presenza dei militari con funzioni di docenti o divulgatori nelle scuole, aspetto al quale ci richiama opportunamente la campagna del MIR per le «Scuole Smilitarizzate», contro «la presenza e l’incremento, in ambito scolastico, di molteplici attività, iniziative e progetti, in collaborazione con le Forze Armate e quindi in palese contrasto con le finalità educative, formative e culturali dell’istituzione scolastica»).
Seconda questione: la concretezza della “pace”. Si tratta, a leggere tra le righe, di un’allusione, neanche troppo velata, anche alle nostre responsabilità. Ancora parafrasando Galtung, sia in omissioni (tutte le volte che tutti questi eccessi di militarizzazione, in fondo, non ci hanno disturbato più di tanto), sia in azioni (tutte le volte che non ci siamo sforzati di immaginare la pace come da «costruire», più che da «declamare»).
«Il 95% della gente in Occidente dedica il 95% delle proprie energie al mondo così com’è – criticando questo o quello, facendo diagnosi e prognosi, predicendo catastrofi, emanando avvertimenti e combattendosi reciprocamente sulla giusta interpretazione o montando cospirazioni e propaganda. Ma una tale energia negativa non ci porterà da nessuna parte». Durante una presentazione di un volume, qualche anno fa, mi sono imbattuto anch’io in quella spiacevole sensazione che nasce dalla sorpresa del tuo interlocutore: «Neanche sapevo che esistesse un lavoro come operatore di pace!».
Ma il discorso si potrebbe estendere: quante volte la nostra azione è solo proclama e testimonianza, e si miscela con la propaganda e con la velleità? Forse, pensare alla pace «in azione» è un buon punto di partenza per cominciare a interloquire con quelle riflessioni, così esigenti, che il testo ci sollecita.
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