Il discorso smarrito sulla pace e le arti come possibile via d’uscita? | Jan Oberg

Photo by Cole Keister on Unsplash

Il discorso sulla o per la pace è prevalentemente sparito negli ultimi 20-30 anni. Vale per la ricerca (e le sue possibilità di finanziamento non-governativo), alla politica in generale e ai media.

In politica estera e securitaria, il livello intellettuale è ora tale che non pare neppur strano ai decisori di non procurarsi mai consigli sulla pace o consultare esperti di pace. L’ipotesi fantasiosa è che solo se ci sono sufficienti ‘mezzi di sicurezza’ militari applicati ad abbastanza problemi societari, s’ instaurerà automaticamente la pace.

Non ricordo di aver mai udito un parlamentare o un ministro citare o concettualizzare la pace aldilà del livello del discorso da pranzo di stato – cioè privo di contenuto teorico e fattuale come pure di significato.

I media mainstream hanno nessuno che sappia focalizzarsi sulla pace – figuriamoci che sappia fare giornalismo di pace. I resoconti li domina la guerra militare, politica, psicologica ed economica, come pure gli interventi – di solito nella modalità fake-ed-omissione. Degno di nota è che questo vale anche per chi è fermamente contro questi tipi di politiche: il centro d’attenzione è critico ma di rado costruttivo: che cosa ci si deve e si può fare? Pensate a Chomsky.

Vivendo in Svezia, non ricordo per gli ultimi anni o giù di lì di aver visto una prospettiva di pace applicate al mondo o a uno specifico conflitto da parte di qualunque media mainstream nei paesi nordici. Semplicemente, non ci sono redattori, reporter o giornalisti che siano specializzati in una tale prospettiva. E i “pacifisti” sembrano esclusi da quei media.

Dunque, il discorso sulla pace è svanito, la pace resa invisibile; trattata da grosso benigno Godot a centro stanza, che tutti, sapendolo o meno, fingono che non avverrà mai e sia irrealistico – vale a dire, irrilevante e ben più irrealistico che il perdurante militarismo, nuclearismo, interventismo e la distruzione in corso di quella Natura da cui tutti dipendiamo e con cui dobbiamo avere tutti una società.

Chi fra noi è impegnato in faccende internazionali da circa mezzo secolo viene considerato come superstite di una cultura tramontata – la cultura, il pensiero, la ricerca e l’azione per la pace. Benvenuti al Museo della Pace e ai suoi [reperti]…

In altre parole, nei corridoi dei circoli di potere odierni più o meno kakistocratici (”governanti fra i meno opportuni, capaci o d’esperienza”), la parola ‘pace’ incontra silenzio, viene ridicolizzata, considerata troppo idealistica/irrealistica, fuori tempo e fuori luogo.

Conclusione a tali punti: dovremmo semplicemente continuare nonostante tutto quanto, fare luce in quel buio, perché ‘i tempi cambiano’. Se si lavora per convinzione, passione o talento – come, diciamo, un compositore – non ci si ferma solo perché non si attrae attenzione. Si continua perché appassionati ai propri valori e obiettivi e perché, proprio di questi tempi, si ha da raccontare una storia piacevolmente diversa: che la pace è possibile ma richiede un modo di pensare, una conoscenza diversa e politiche diverse.

Ecco perché dobbiamo cambiare questo fatto: 95% della gente in Occidente dedica 95% delle proprie energie al mondo così com’è – criticando questo o quello, facendo diagnosi e prognosi, predicendo catastrofi, emanando avvertimenti e combattendosi reciprocamente sulla giusta interpretazione o montando cospirazioni e propaganda.  Ma una tale energia negative non ci porterà da nessuna parte:

  • Quando ti ammali, non ti auguri un dottore che faccia solo diagnosi e prognosi ma non ha idee su una cura, non ti pare?
  • L’attenzione focale dovrebbe essere sui migliori futuri possibili – immaginandoli e trovando un percorso per arrivarci – insieme. La cara Elise Boulding ci ha sempre detto giustamente che non ci s’impegna per ciò che non si riesce a immaginare.
  • Ne sappiamo più che abbastanza dei problem d’oggi per occuparci adesso creativamente di quel che potrebbe essere invece di ciò che è … cioè, un po’ di saggezza costruita sulla conoscenza – come E F ”Piccolo è bello” Schumacher si esprimeva: Adesso siamo cisì eruditi che non possiamo fare a meno di saggezza.
  • In breve, energia positive posta nel visualizzare e “visionizzare”…

Il che mi conduce, in quest’articolo come nella mia vita, alla domanda: E dell’arte, che cosa diciamo? Possono le arti diventare uno dei blocchi costruttivi del ponte necessario fra ciò che è e ciò che potrebbe essere? Fra critica e costruttività? Fra qui/ora e visione/strategia? Fra la cecità della valanga d’informazioni e la visualizzazione di un futuro migliore?  Penso di sì, ma con la qualifica “in principio” o “teoricamente”.

L’arte è fondamentalmente un vedere qualcosa di meno o non così prontamente visibile. Riguarda la realizzazione di qualcosa che non esiste ancora ma erompe dall’ immaginazione. Comporta fare cose vecchie in modi nuovi o fare quel che non è mai stato fatto prima.

L’arte si basa su un’urgenza espressiva di natura emotiva/intuitiva di dire qualcosa – anche oltre la realtà empirica – per dare la sveglia ai concittadini globali. E’ la cosa che l’artista fa perché non sa fare di meglio che proprio quella. La vera arte è esistenziale, indifferentemente agli odierni pervertiti “mercato dell’arte” e “industria dell’arte” commerciali (seppur qualcuno che c’è dentro sia davvero un artista genuine, per complicato e contraddittorio possa sembrare).

Se non si sanno udire quelle qualità definenti , che so, nella quinta sinfonia di Beethoven o nella musica-poesia di Dylan, vederle nei dipinti di Helen Frankenthaler, sentirle negli scritti di Tolstoy, o di Elise – e anche di Gandhi – non c’è nulla che possa fare per spiegare che cosa intendo.

Ma ho in mente ancora almeno un problema: perchè tanto delle arti sia focalizzato più, molto di più, sulla violenza, la guerra, il male, la morte, il dramma, le uccisioni, l’aggressione e la sofferenza che sulla riconciliazione il perdono l’armonia, la varietà, lo sviluppo, la cooperazione, la gioia, la convivialità … e la pace? Sui problemi anziché sulle soluzioni? Silla storia / il presente più che sul futuro?

La classica discussione – se gli umani siano fondamentalmente buoni o cattivi – può estendersi a: gli umani fanno attenzione più al bene o al male? Ai problemi o alle soluzioni? Cui è molto più facile rispondere.

Forse adesso pensate che stia esagerando e queste cose non possono semplicemente essere quantificate. Argomento valido, ma credo che dovremmo comunque dialogarne.

Molte delle grandi opere in letteratura, film, musica, e dipinti elaborano temi di violenza e distruzione e traggono ispirazione nel lato buio della natura, nei comportamenti e nelle azioni umane e societarie. Essi pongono la questione sul perché il mondo passato e presente sia male, anziché stimolare la nostra immaginazione per percepire il mondo come potrebbe essere, per parafrasare George Bernhard Shaw.

Ne sono stato rammentato quando andai recentemente al primario festival fotografico di Svezia, se non di Scandinavia, il Landskrona Photo Festival, che visito sempre perché sono anch’io un fotografo d’arte.

Senza dubbio mostra un’alta qualità media, una considerevole varietà, molti tempi altamente topici, tutti gli attributi che definiscono una cura(tela) affinata.

Qual era dunque il mio problema? Beh, che almeno 40 per cento delle opere esposte si focalizzino su guerra, genocidio, massacri, campi di concentramento, sofferenza di particolari gruppi di persone, i dannati della terra. E che molto del resto sia o espressione di temi identitari spoliticizzanti o fotografia sperimentale, costruita, atta al palcoscenico o ibrida, formalistica. E il tutto anche piuttosto smorto! Niente humour, satira, tentativi di dipingere la bellezza, la convivialità, la felicità. O di far pensare lo spettatore alla pace.

Voglio dire, qual è lo scopo di mostrare un’altra serie di immagini (documentarie) di scheletri di vari massacri nelle anguste, buie celle carcerarie di una fortezza? Che si ipotizzi magari, ingenuamente, come per i film e le foto su Hiroshima e gli hibakusha, che mostrandole il pubblico me sarà inorridito e diventerà più critico di guerre e altri tipi di violenza?  Fa parte della più ampia “industria della violenza” in cui troviamo anche i musei delle guerre e dei massacri nonché l’Olocausto?  O è che ci colpisce emotivamente e fa “automaticamente” più strada, un po’ come se un fotografo riprende ritratti di celebrità anziché di non-celebrità, diventa più facilmente famoso?

Perché a questo mondo ci sono tante più immagini di distruzione che di costruzione, di violenza anziché di pace?

L’importantissima gara World Press Photo contest ne è un altro esempio – peggiore. Datene giusto uno sguardo: è zeppo di violenza e sofferenza, e io sono relativamente sicuro che chi gestisce queste gare e festival non è neppure consapevole di tale distorsione o ne abbia almeno trattato. Come se la realtà o l’ immaginazione o l’impulso creativo non potessero venire espressi anche mediante immagini di bellezza e di pace?

Viviamo in un’era influenzata molto più dalle immagini che da testi o suoni e siamo diventati tutti una specie di fotografo. Quel che le centinaia di immagini percepiamo più o meno consciamente durante una giornata mediante le varie sorte di media ci dicono sul mondo è estremamente importante nel plasmare la nostra visione del mondo. Beh, potrete dire, è sempre andata così, che il negativo ci ha dominati e affascinati, nevvero?     Se è così, diventiamo un po’ più creativi di pace e riequilibriamo il tutto!


Il prof. dr. Jan Oberg è direttore della Transnational Foundation for Peace and Future Research-TFF, e anche un  Fotografo d’Arte


EDITORIAL, 21 Sep 2020 | #657 | Jan Oberg, Ph.D. – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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    […] il Centro Studi Sereno Regis ha pubblicato lo scorso 25 settembre, con il titolo, in italiano, «Il discorso smarrito sulla pace e le arti come possibile via d’uscita?». Jan Oberg non è nuovo a studi e riflessioni di tale profilo: cofondatore del TFF, il […]

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