L’impegno a combattere le ingiustizie può essere traumatico – dobbiamo imparare a elaborare il trauma e trarne l’effetto benefico | Kazu Haga

Stiamo solo cercando di “mettere fine a tutto questo schifo”, o vogliamo invece aprire le ferite di questa nazione e disinfettarle così che possano guarire?

The 40-day Reparations Procession in the East Bay. (Instagram/Reparations Procession)

Siamo traumatizzati. Iniziamo da questo.

Il trauma può essere definito come la reazione fisica del nostro corpo dopo aver vissuto o assistito a un evento estremamente sgradevole. Il disturbo da stress post-traumatico, o DSPT, è una condizione psicologica causata da un evento spiacevole “al di fuori dell’esperienza umana abituale”.

Una pandemia globale. La conseguente crisi economica. Video di agenti della polizia che uccidono persone nere disarmate. Immagini di militari federali che, armati di fucili d’assalto, affrontano le masse di manifestanti ogni notte. La tragedia climatica globale. L’incessante aumento di persone senza fissa dimora. Trump.

Si può senz’altro sostenere che nessuna di quelle sopraelencate sia inseribile nella gamma di esperienze umane “abituali”. Anche se non siamo stati personalmente colpiti da questi eventi o non conosciamo nessuno che sia stato contagiato dal virus Covid-19 – e magari godiamo di uno stipendio mensile decente, non siamo mai stati attaccati dalla polizia e viviamo in un quartiere agiato – il semplice fatto di assistere a questi episodi tramite i media può causare quello che gli psicologici chiamano trauma indiretto. Lo assorbiamo semplicemente perché l’aria ne è pregna.

Probabilmente, ciascuno di noi ha riscontrato questo trauma nella propria vita quotidiana, nelle relazioni umani e all’interno del contesto familiare. Tra gli innumerevoli sintomi, sono comuni ansia, irascibilità, iper-vigilanza, ritiro sociale, affaticamento, cinismo, mancanza di empatia e irrequietezza.

E negli ultimi mesi, ho assistito personalmente a manifestazioni collettive di questo trauma.

Quando il trauma è innescato, perdiamo lo stimolo ad acquisire nuove informazioni, a essere creativi e considerare l’esistenza di prospettive diverse, o anche pensare al lungo periodo.

Forse esagero, ma sento che nei miei 39 anni di esistenza su questo pianeta, non ho mai vissuto un momento come questo, in cui tutto appare così frammentato e polarizzato, e le situazioni sono così complicate che la società sembra cadere a pezzi. Che sia per i manifestanti sparati e investiti nelle strade, per la brutale violenza che aleggia sulla questione delle mascherine, o per la situazione tragica che caratterizza i sistemi politici nell’ultimo periodo, mi sento immerso nel pieno di un trauma collettivo.

Quando il trauma è innescato, la nostra neuro-corteccia – la parte del cervello che ci consente di ragionare, pensare alle conseguenze di ogni azione, risolvere problemi e acquisire e generare nuove informazioni – viene disattivata. Iniziamo a mettere in uso la parte meno evoluta del nostro encefalo: il sistema limbico (responsabile delle emozioni) e il complesso rettiliano (responsabile degli istinti di sopravvivenza).

Quando il trauma è innescato, anche se le nostre vite non sono in reale pericolo, il nostre cervello lo percepisce. Entra in gioco il nostro istinto di sopravvivenza e perdiamo la capacità di vedere le sfumature… Tutto è bianco o nero. O è una minaccia o non lo è. O è giusto o è sbagliato.

Quando il trauma è innescato, perdiamo lo stimolo ad acquisire nuove informazioni, a essere creativi e considerare l’esistenza di prospettive diverse, o anche pensare al lungo periodo. Se le nostre vite sono in pericolo, non abbiamo tempo da perdere per certe cose. Dobbiamo semplicemente reagire, combattere o scappare, con l’unico obiettivo di rimanere vivi.

Quando il trauma è innescato, tutto ci appare fuori controllo anche se non lo è. Il cervello inonda il corpo di adrenalina e cortisolo, facendo irrigidire i muscoli. Il pericolo sembra nascondersi dietro ogni angolo. E una sorta di iper-vigilanza demolisce la nostra naturale resilienza.

Una visione del mondo monocromatica. Bianco o nero. Nessuna sfumatura.

Lottare per pensare a una strategia a lungo termine. Essere incapaci di captare informazioni diverse da quelle che abbiamo già assorbito.

Ti suona familiare?

Sta succedendo ovunque.

Credo che Trump sia un individuo estremamente traumatizzato che non ha avuto nessuna opportunità per guarire davvero. E dando sfogo a questo trauma, sta risvegliando il trauma interiore di molti dei suoi seguaci e sostenitori.

I movimenti attivisti si impegnano costantemente a contrastare la violenza della polizia e a parlare di traumi storici – spesso, però, in modo impacciato, che riapre la ferita ma non aiuta a guarirla.

Poi, scendono in piazza. E lì il trauma s’incontra con il trauma.

E non è un’interazione produttiva.

Per condurre una produttiva azione nonviolenta è necessario ricorrere a strumenti di regolazione emozionale e imparare come rinascere dalle nostre stesse ferite.

L’azione nonviolenta diretta può essere intensa e allarmante, oltre a poter facilmente innescare una reazione traumatica. Ma è di cruciale importanza per spingere verso un reale cambiamento. La nostra risposta alla violenza e all’ingiustizia deve corrispondere alla escalation derivante dall’azione che mettiamo in pratica. Un’azione contro dei pericoli profondamente degenerati. Niente di meno di un confronto diretto con i sistemi del potere sembra essere più appropriato.

In che modo possiamo intraprendere un’azione in grado di portarci alla guarigione? Come evitare che il trauma si scontri con il trauma, il panico con il panico e la lotta con altra lotta? Come facciamo a costruire dei movimenti che riescano a “chiudere” tatticamente un’autostrada, mentre aprono nuove possibilità di guarigione e trasformazione?

Analisi del trauma

Victor Lee Lewis, avvocato della giustizia raziale e guaritore, dice che ogni attivista ha bisogno di avere qualche competenza nel campo della neuroscienza per comprendere l’impatto di un trauma sul corpo umano. Oltre alla letteratura classica sulle strategie della nonviolenza, che comprende “The Politics of Nonviolent Action” di Gene Sharp o “Rules for Radicals” di Saul Alinsky, dovremmo analizzare i manuali di Resmaa Menakem, come “My Grandmother’s Hands” o anche “The Body Keeps the Score” di Bessel van der Kolk e “The Politics of Trauma” di Staci Haines.

Studiosi come Peter Levine e Brené Brown dovrebbero essere frequentemente citati nei circoli, così come Grace Lee Boggs o Leonard Peltier.

Questa nazione sta sottovalutando l’eventualità di un trauma collettivo. Trauma che, se dovesse manifestarsi in un individuo o in una collettività, presenterà le stesse caratteristiche  e richiederà strategie simili per poter guarire. Se riusciamo a comprendere a fondo le dinamiche del trauma, saremo in grado di gestirlo e di uscirne nel migliore dei modi.

Gestire il “traumatico”

Preparare le comunità all’azione nonviolenta dovrebbe consistere non solo nelle tradizionali metodologie di formazione – tra cui quella sanitaria e legale. Dovrebbe includere anche strumenti di regolazione emozionale nel breve periodo e l’impegno da parte di ciascuno di noi a riconoscere la causa scatenante del malessere e provare a guarire le nostre stesse ferite.

Gandhi ha parlato dell’importanza della “auto-purificazione” come parte fondamentale della preparazione spirituale per un satyagrahi – un guerriero nonviolento. Ai suoi tempi, non esisteva una parola per esprimere la “guarigione dal trauma” ma, quando ci prepariamo ad affrontare eventi potenzialmente traumatici (essere arrestati o aggrediti con gas lacrimogeni, spray al peperoncino…), parte del nostro percorso spirituale ed emozionale dovrebbe concentrarsi sull’acquisizione di consapevolezza circa la quantità di dolore, tristezza e risentimento che coviamo dentro di noi, così da poter scendere in strada con il cuore più leggero.

Sentimenti come l’angoscia e la collera non solo sono naturali, ma è importante celebrarli e incarnarli. E non posso fare a meno di pensare che l’azione diretta – con le grida, i gas lacrimogeni, la natura pubblica e frenetica di questi spazi – non sia il modo più produttivo o sicuro per noi per liberare il dolore non processato e la rabbia.

Invece, abbiamo bisogno di creare più spazi sicuri, gestiti da mediatori professionisti, il cui compito è proprio quello di prendersi cura della nostra sofferenza e irascibilità. Una volta che queste emozioni vengono elaborate, il loro furioso inferno può depositarsi in un pezzo di carbone: energia concentrata e duratura, più semplice da utilizzare in modo sapiente.

Non intendo in alcun modo giudicare lo sfogo di dolore e rabbia nelle piazze. Per le comunità marginalizzate, in modo particolare, ogni caso di ingiustizia si rifà a generazioni di violenza perpetuata dallo stato che l’ha sempre fatta franca.

È semplicemente un invito a pensare di più all’influenza che lo spazio può avere sul rendimento finale di un lavoro. Non tutti gli spazi sono adatti a noi o, almeno, non in ogni momento. L’azione diretta dovrebbe essere uno “spazio” in cui la società viene spinta a guardare in faccia i suoi traumi.

Ovviamente, elaborare un trauma è un processo a lungo termine. Nel frattempo, la formazione nonviolenta dovrebbe enfatizzare l’utilizzo di strumenti di regolazione emozionale, come imparare a riconoscere le cause scatenanti, praticare esercizi di respirazione e titolazione o svolgere attività di gruppo (cantare, per esempio). Queste pratiche possono aiutarci a stimolare la nostra corteccia cerebrale in un momento particolarmente burrascoso.

Zittire vs. accogliere

Infine, dobbiamo essere consapevoli dello scopo delle nostre azioni. Si tratta semplicemente di sopraffare “l’altra parte” e imporle il cambiamento o è l’obiettivo finale a determinare la guarigione sociale, la trasformazione e la liberazione per tutti?

Stiamo cercando di “zittire”, oppure vogliamo riaprire le ferite di questa nazione e disinfettarne le infezioni – la supremazia bianca, il patriarcato, il capitalismo e tutte le altre forme di segregazionismo e dominazione – così che tutti possano veramente guarire?

Se questo è lo scopo, allora dobbiamo essere pienamente consapevoli del tipo di azioni da condurre. Come possiamo bilanciare il potere e l’assertività di cui sentiamo un disperato bisogno negli ultimi tempi, con l’amore e le relazioni umane essenziali per guarire?

Spesso mi capita di pensare al potere delle marce di protesta silenziosa, dei blocchi di meditazione, o dei riti di riconciliazione spirituale, come la Reparations Procession che sta attualmente organizzando le sue passeggiate quotidiane nell’East Bay.

Quando ero a Standing Rock, prima che scendessi in strada per condurre insieme agli altri un’azione diretta, gli anziani mi dissero: «Ricorda, stai partecipando a una cerimonia».

Che livelli di creatività potremmo raggiungere se vedessimo l’azione diretta come una cerimonia o come una strategia per affrontare un trauma e guarire le ferite? Che opportunità potrebbero aprirsi davanti a noi?

Per capirlo, non possiamo restare immobili nel nostro stato di trauma. Il trauma non stimola affatto la creatività. E questo ci porta a un altro paradosso dei nostri giorni… Come possiamo mollare un po’ la presa così da sfruttare al massimo la nostra corteccia cerebrale e riuscire finalmente ad ascoltare il nostro istinto, mentre ci impegniamo ad affrontare le urgenze e a cogliere le opportunità di questo momento?

Credo che il primo passo da fare sia molto semplice. Come disse il Rev. René August, «La lotta per la giustizia è una maratona, non una gara di velocità. La differenza tra una maratona e uno sprint sta nel modo in cui respiri. Impara a respirare».


Kazu Haga

Kazu Haga è il fondatore dell’Accademia per la pace di East Point, un importante membro dell’Ahimsa Collective e della rete Yet-To-Be-Named, ed è l’autore del libro “Healing Resistance: A Radically Different Response to Harm”. È attivo nei movimenti di cambiamento sociale dall’età di 17 anni e facilita processi di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Si occupa di giustizia riparativa, di consapevolezza e dell’organizzazione di seminari nelle carceri e nelle comunità di tutto il paese.


Fonte: Waging Nonviolence, 18 Agosto, 2020

Traduzione di Benedetta Pisani per il Centro Studi Sereno Regis

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