L’Antropocene indica il campo di una nuova politica a sinistra

Paolo Cacciari

Ecologia. Il limite di chi, a sinistra pone l’accento sull’accesso e sulla distribuzione della ricchezza, e di chi, tra i verdi, non vede le logiche dell’accumulazione capitalista.

C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi – ci dicono le paleoantropologhe femministe) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi.

Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, élite dominanti che hanno plasmato le relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un lungo ciclo di civilizzazione, addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero ridefinire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici e acidifica gli oceani; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali; il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo autodefinitosi sapiens. Altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, cioè con la dimensione culturale e valoriale eco-etica.

In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di dominio.

Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza economica. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale (facilmente sussunto dal mercato) che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo, pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante.

La cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare ad unità la lotta ad ogni forma di dominio e di dominazione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: non basta la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione e interdipendenza di tutti i fenomeni naturali e sociali, della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual è il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 ani fa; con l’affermazione del pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica; 500 anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitaloce? Ombrecorte, 2017); con la rivoluzione industriale nell’Ottocento; il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il foll-out di radionuclei; nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417  parti per milione di anidride carbonica (come 23 milioni di anno fa); il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle Next Generation.


Fonte: il manifesto, 25.08.2020


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