Oltre gli stati-nazione: è tempo che l’Europa ottenga una promozione?

Jake Lynch

A inizio 1989, mi stavo addestrando al Centro Studi di Giornalismo dell’Università di Cardiff, quando i tutori del nostro corso prepararono un trattamento speciale per noi studenti: dovevamo praticare il nostro nascente senso della notizia – e la nostra stenografia – a una conferenza stampa con il nuovo ambasciatore al Regno Unito della Repubblica Federale di Germania.

Hermann von Richtofen era un interlocutore urbano e sagace, e pronipote del ‘Barone Rosso’, asso del volo nella 1a guerra mondiale – un legame di parentela che spiegò con consumato sano umorismo. Espose una visione della Comunità Europea (tale era allora), e della parte che ci aveva la Germania-Ovest, che avrebbe provveduto alla sicurezza sociale e alla solidarietà insieme a una prosperità condivisa. La sola nota discordante arrivò quando riuscii ad attrarre la sua attenzione dal fondo con una domanda – mi chiedevo: se era quella l’ambizione – data la sua incompatibilità con l’ideologia dominante del governo conservatore sotto Margaret Thatcher – allora la CEE non avrebbe dovuto espellere la Gran Bretagna? I particolari della risposta dell’ambasciatore sono persi nei meandri della memoria, benché ovviamente dovesse eccepire alla premessa, senza dubbio in impeccabile linguaggio diplomatico.

Tre decenni dopo, la Gran Bretagna ne ha risparmiato il fastidio all’Europa, uscendosene sponte sua. Nel periodo intercorso, si sono scritte salvaguardie per lavoratori e cittadini nel Capitolo Sociale del Trattato di Maastricht del 1992 – dal quale il successore di Thatcher, John Major, ottenne un’opzione d’uscita britannica – e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Anche il governo neolaburista sensibilmente più filo-UE schivò l’assunzione di quegli obblighi con uno speciale protocollo che ne sanciva l’inapplicabilità nei tribunali britannici, ottenuto nel corso dei negoziati per il Trattato di Lisbona del 2009. (Così facendo il paio con la Polonia, che ha appena rieletto l’amministrazione Duda avversa ai diritti).

Saltando ora al 2020, con l’accumularsi di prove che la Brexit sarà esattamente dannosa e nemica degli interessi di chi l’ha votata, come ammonite tutto il tempo dai Remainer. Perfino prima della crisi del Coronavirus, una crescita più torpida, prezzi d’importazione più alti e investimenti ridotti si stimava avessero indotto un costo annuo pro-capite fra 500 e 1.000 sterline. Giusto per ricapitolare alcuni degli sviluppi recenti più vistosi:

  • I residenti di Ashford, nel Kent che ha votato per l’uscita, si sono svegliati alla notizia di questo mese che si farà un gigantesco autoporto alle loro porte su quello che finora era tranquillo  terreno agricolo, per il traffico merci in ritardo per i nuovi controlli al confine ai porti sulla Manica, con buona pace per i benefici degli scambi senza attrito. (Il costo stimato di 400 milioni di dichiarazioni doganali aggiuntive si aggira su 15 miliardi di sterline annui).
  • La EHIC (Tessera Sanitaria Europea) non sarà più disponibile ai britannici, come annunciato – il che li obbliga ad ottenere costose assicurazioni sanitarie per i viaggi [esteri], insieme a copiosa documentazione per portare con sé animali o anche solo per guidare con la propria auto in Europa continentale.
  • I coltivatori si sono adunati con i propri trattori a Londra, sulla Piazza del Parlamento a Westminster, per protesta contro l’opposizione ministeriale agli standard di coltivazione ed allevamento da includere in qualunque nuovo accorso commerciale. Nei porti americani ci sono enormi eccedenze di carne bovine alimentata ad ormoni e di mais geneticamente modificato in attesa d’inondare il mercato britannico una volta sloggiate quelle fastidiose norme UE.

Frattanto i negoziatori del governo di Boris Johnson si sono tirati indietro dalla Dichiarazione Politica d’accompagnamento dell’Accordo di Ritiro firmato pochi mesi fa, sulle garanzie sociali, ambientali e di protezione consumatori: le cosiddette clausole di campo da gioco liscio. È chiaro verso dove si mira: verso la complessiva rimozione di ogni barriera di qualunque sorta al sempre più incalzante accumulo di ricchezza da parte dei settori del capitalismo britannico che campano sulla rendita.

Sarebbe semplicistico dipingere la Brexit come un complotto, Piuttosto, rievoca il concetto di potere d’influsso di Michel Foucault, come nome che diamo alla “complessa situazione strategica nella società”. Non c’è – ci si avverte – “alcun quartiere generale che presieda alla sua razionalità”, benché al tempo stesso “non ci sia potere che venga esercitato senza un quadro di mire e obiettivi”. I miliardari da hedge fund che hanno appoggiato la proposta Johnson per la guida dei Tory, pur detenendo posizioni a breve calcolate per rendere comunque in caso di risultato d’accordo nullo, possono tuttavia esemplificare il commento di Foucault (nello stesso passaggio della classica History of Sexuality) sul “cinismo locale del potere”.

No, il vero genio della Brexit è stato convincere la gente che la politica ‘riguarda’ qualcos’altro che i suoi interessi, ossia accostando concetti di giustizia sociale: equità nella distribuzione di rischi e compensi, per esempio, con implicazioni nei posti di lavoro e nei livelli di vita. La complessa situazione strategica nella società Britannica contiene abbondanti miti tossici, da invocarsi e sfruttarsi per indurre la gente a gettare col voto i propri diritti e contro i propri interessi (la Gran Bretagna ‘era sola’ in guerra; l’impero è stato un’influenza ‘civilizzatrice’). Così, affermazioni tipiche dei Leaver tendono a essere avvolte in strati fitti di discorso compattato, che richiede una lunga spiegazione per essere dipanato (e, come osservò una volta Ronald Reagan, se in politica si deve spiegare qualcosa, si perde).

Si prenda, per esempio, la signora che ho incontrato mentre portava a passeggio il cane a Haworth (sede del Museo Bronte Parsonage), mentre ero occupato a riferire dalla sede elettorale marginale di Keighley all’elezione generale del dicembre scorso. “Non vogliamo che siano gli europei a dirci che fare”, mi informò, tralasciando che i britannici SONO europei e che la GranBretagna come stato membro fosse quasi invariabilmente sul versante vincente nelle discussioni sulla portata delle norme UE. “Staremo meglio per conto nostro”, diceva un altro elettore “tanto più che siamo la più gande nazione commerciale dal tempo dei veneziani”. Commerciale & per conto nostro?

Concetto interessante… ovviamente, in ogni accordo commerciale ci dev’essere un accordo, che inevitabilmente contiene norme, che devono essere attuate imponendo, ove necessario. Le vere questioni sono correttamente identificate da innumerevoli commenti informati: quali norme valgono, e chi le stabilisce? Gli USA esigono un accordo post-Brexit da inghiottire intero da una Gran Bretagna disperata – da digerire senz’altro con sontuose portate di pollo lavato con cloro.

L’empia alleanza fra la mitologia del Piccolo Inglese e l’affarismo parassitario dovrebbe essere riconosciuta a Bruxelles come il nemico strategico che è sempre stata, da indebolire con ogni mezzo necessario. La pesantezza economica si dovrebbe far defluire dalla City di Londra – come sembra essersi reso conto il negoziatore capo UE, Michel Barnier, che ammonisce che il settore dei servizi finanziari britannici “non può mantenere i benefici del mercato singolo senza gli obblighi inerenti”.

Gli scozzesi denotano una specie di nazionalismo civico, progressista, evidentemente più compatibile con l’essere membro UE che il banfare isolazionista glorioso del suo corrispondente inglese. La Commissione Europea dovrebbe elaborare come ritenere la posizione fiscale di una Scozia indipendente compatibile con i criteri associativi di Copenhagen; poi ricompensare il voto scozzese preponderante per restare nell’Unione del referendum del 2016 confezionando un attraente pacchetto post-Coronavirus per agevolare la transizione. Il Galles, che votò sì per l’uscita ma rapidamente cambiò idea, potrebbe seguire. Quanto potrebbe volerci alle due parti d’Irlanda per riunirsi sotto la bandiera blu-stellata è opinabile, ma potrebbe cominciare con il percepirlo come prossimo passo logico.

La Brexit può contare sui presidenti Trump e Putin fra i suoi – in quanto considerate, per quel che è, uno sviluppo che indebolisce la Gran Bretagna e l’UE al tempo stesso. Senza l’influenza di Londra, peeò, la UE può cambiar rotta, più sul lato francese del suo antico dibattito fra “ampliare” e “approfondire”. Il fondo di recupero dal Coronavirus di 500 miliardi di euro proposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel può rappresentare l’inizio di un capitolo nuovo, in cui l’Europa comincia ad essere coesa come entità fiscale anziché puramente monetaria. Frattanto, Macron sta bloccando i piani d’accesso di Albania e Nord-Macedonia, sostenendo che prima di ammettere nuovi membri la UE ha bisogno di più poteri per assicurarsi di mantenere gli standard in quelli esistenti. Alla Polonia, per esempio, non dovrebbe essere permesso di retrocedere dal dominio della legge.

Una più profonda integrazione UE sarebbe un sottoprodotto ben accolto della Brexit, e forse un esempio della teoria di Lewis Coser sulle funzioni sociali del conflitto. I sondaggi in stati membri evidenziano un’unione in crescente popolarità. Gli elettori in tutto il continente guardano la GB e quel che vedono non gli piace: adesso possono unirsi contro un nemico comune. In un modo devastato dal populismo autoritario e dall’intenso allentarsi dei vincoli – su sfruttamenti ed estrazioni di ogni tipo – introdotto di soppiatto con quello, la UE, pur con tutte le sue frustrazioni e carenze, rappresenta un importante filo di speranza. La visione di von Richthofen resta valida. Forse, col tempo perfino gli inglesi arriveranno a condividerla.


EDITORIAL, 20 Jul 2020 #648 | Jake Lynch – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


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