Contro il merito. Critica di un sistema che non mantiene le promesse | Leonardo Grimoldi

Da tempo il discorso pubblico è egemonizzato dal «vocabolario del merito», invocato in maniera trasversale da forze politiche e opinione pubblica come la panacea di tutti i mali. Il libro di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito (Laterza, Bari-Roma 2019), già dal titolo prende decisamente posizione contro quello che l’autore interpreta come un costrutto ideologico che sta colonizzando non solo il mondo della scuola, ma l’intero settore pubblico in nome di un imperativo, quello del merito, dalla forte attrattiva ma carico di insidie. Boarelli, infatti, che sembra servirsi del termine ideologia proprio in senso marxiano di inganno e mistificazione, è convinto che l’autorappresentazione positiva del merito non coincida affatto con la sua vera natura, la quale riguarda invece un sistema concettuale mutuato dalla cultura d’impresa e dalle sue parole d’ordine: «mercato» e «competitività».

Nella sua autorappresentazione, spiega l’autore, il merito è un fattore di giustizia: ciascuno, grazie ai propri talenti, potrà ricevere ciò che ha meritato. Chi, di principio, sarebbe contrario a una tale attrattiva? L’Italia, in questo senso, «ha rappresentato un facile terreno di conquista, perché l’assenza di merito rappresenta una delle tare storiche che incancrenisce ogni articolazione della vita sociale del paese» (p. 3). In generale il termine ha dunque un valore positivo, poiché indica che per le proprie qualità o per le proprie opere si è degni di lode, di stima, e al limite anche di ricompensa. Questo significato, a prima vista pacifico, nasconde in realtà molte zone d’ombra: la cosiddetta «meritocrazia» non mantiene le sue promesse, questa la convinzione dell’autore, da cui l’urgenza di smascherare il costrutto ideologico che la tiene in piedi.

Il lavoro di Boarelli, che vanta una fitta rete di riferimenti bibliografici, mostra che il sistema del merito poggia su tre capisaldi fondamentali: il «capitale umano», le «competenze» e la «valutazione standardizzata», tutti in qualche misura legati all’idea che «il mercato rappresenti la forma “naturale” di organizzazione della società» (pp. 50-51). La filiazione economicistica del merito è già evidente nel processo attraverso il quale, a partire dagli anni ‘50 del Novecento, il merito si è ideologizzato. L’autore si riferisce qui al lavoro di alcuni economisti statunitensi appartenenti alla cosiddetta «scuola di Chicago» (principale laboratorio del pensiero neoliberista), a cui si deve l’elaborazione della teoria del «capitale umano». L’idea di fondo di questa teoria consiste nell’estendere il concetto di «capitale» a tutte le conoscenze, competenze e abilità che ciascuno accumula nel corso della vita (cfr. p. 11).

Muovendo da questi presupposti, l’analisi economica si è presto insinuata in campi non economici diventando una «chiave di lettura per tutti i processi sociali» (p. 11). Ancora una volta, l’attrattiva ha svolto un ruolo decisivo: «L’accostamento tra ciascun individuo e il capitale produce un significato positivo, poiché mette in relazione il patrimonio non materiale accumulato nel tempo attraverso lo studio e l’esperienza professionale con un termine che evoca ricchezza» (p. 12). Così, prosegue l’autore, il linguaggio comune attribuisce al concetto un valore positivo, tacendo però l’aspetto allarmante, ossia che l’uomo agisce e si misura esclusivamente in base al guadagno (notiamo, en passant, che Aristotele considerava la vita legata al guadagno non degna di essere vissuta).

Nel nostro continente un ruolo fondamentale nell’elaborazione dell’ideologia del merito è stato svolto dall’Unione europea, soprattutto a partire dalla pubblicazione del Libro bianco Crescita, competitività, occupazione pubblicato nel 1993. L’adesione incondizionata alla teoria del «capitale umano» (richiamata espressamente nel testo), l’adozione della competitività e della concorrenza come elementi centrali per lo sviluppo, prendono le mosse da quel documento e vengono costantemente elaborate e perfezionate attraverso innumerevoli atti politici dell’Unione europea varati nel corso dei successivi venticinque anni. La subordinazione dei sistemi educativi e dei singoli individui al mercato, sostiene Boarelli, costituisce l’asse portante di questo cammino.

Non sorprende che il campo individuato per “sperimentare” la teoria del capitale umano sia stato quello della scuola: «Il fatto che l’istruzione aumenti il guadagno futuro degli studenti la rende una forma di investimento» (p. 13). Per “investire” il proprio capitale è necessario un metodo, quello delle competenze, che nel mondo della scuola ha ormai assunto la valenza di un mantra. Anche in questo caso, spiega l’autore, siamo di fronte a un concetto assai vago e incerto, che tuttavia i teorici delle competenze hanno saputo volgere in punto di forza: «un concetto dallo statuto incerto può adattarsi ad ogni uso ed essere plasmato su misura in qualsiasi contesto» (p. 14). Tra le molte definizioni possibili, Boarelli ha scelto quella di Michele Pellerey: «La competenza è la capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di situazioni sfidanti» (Ibidem). Il che significa due cose: primo, che il sistema educativo deve superare i metodi tradizionali basati sulla mera trasmissione di conoscenze, mettendo queste ultime in relazione alle abilità di ciascun individuo; secondo, che le competenze corrispondono alla capacità di combinare abilità e conoscenze di ciascuno al fine di risolvere problemi specifici in contesti specifici.

Su questa base, spiega Boarelli, ha preso le mosse il lungo processo che, dal Libro bianco di cui sopra, ha portato l’Unione europea all’elaborazione di un quadro delle «competenze chiave» adottato dai paesi membri a partire dal 2006. Scrive l’autore: «I documenti dell’Unione europea sono accomunati da una visione utilitaristica della conoscenza» (p. 16). L’obiettivo dichiarato è quello di incrementare la compenetrazione fra industria e sistemi d’istruzione, progetto in cui le competenze devono giocare un ruolo determinante in quanto «spingono i sistemi educativi ad abbandonare la costruzione di saperi critici in favore dell’organizzazione di saperi strumentali» (p. 18). Questi ultimi, del resto, devono diventare espressione della cosiddetta «cultura d’impresa», che ha come fine «il successo nella vita» (che è anche il titolo del rapporto dell’Ocse dedicato a questo tema), «un “successo” che può essere conseguito se si possiedono competenze per trovare un impiego e conservarlo, adattandosi all’evoluzione delle tecnologie» (Ibidem).

Questo modello, dietro la maschera di lunghe e depistanti definizioni capaci di mescolare abilmente le carte, rivela profonde implicazioni sociali, etiche e politiche, la cui portata è stata pienamente colta da Boarelli, convinto che interrogarsi sul merito significa in definitiva interrogarsi sulla democrazia (cfr. p. 114). Come si legge nel rapporto dell’Ocse citato dall’autore (cfr. p. 19), la capacità di relazionarsi con gli altri non riguarda solo la coesione sociale ma, in misura sempre maggiore, anche il successo economico. Questa visione aziendalistica muta infatti la qualità delle relazioni sociali: «attraverso le competenze, la sfera dell’economia allarga i propri confini invadendo l’intero spazio sociale e costruendo modelli normativi cui uniformare il comportamento degli individui» (Ibidem). Si assiste così a uno slittamento che va dal sociale all’individuale, in una dinamica che attribuisce il successo o il fallimento esclusivamente alle capacità del singolo individuo, disancorato da ogni dimensione sociale. Coloro che non vedranno riconosciuti i propri meriti dovranno dunque attribuirne la responsabilità alla loro incapacità di «stare sul mercato».

La cultura d’impresa si è così impadronita della dinamica formativa con lo scopo di orientarla verso il mercato e la competizione, e lo ha fatto sotto gli occhi (e spesso con l’ausilio) del mondo della scuola, che non ha saputo opporre alcun argine al dilagare di questo modello, ma anzi lo ha colpevolmente assecondato. Un esempio illuminante lo fornisce il modo in cui la scuola ha recepito il dogma delle competenze, legandolo indissolubilmente (ma arbitrariamente) alla didattica. Un merito non minore dell’opera di Boarelli consiste infatti nell’aver mostrato che la pretesa identificazione fra didattica e competenze, tipica delle nostre scuole, è un clamoroso equivoco culturale. I fautori dell’approccio per competenze hanno sempre criticato la didattica tradizionale, detta anche «passiva», poiché essa implicherebbe un insegnamento “frontale”, volto alla mera trasmissione di nozioni, in cui il discente non avrebbe alcun ruolo attivo. Di qui anche il ritornello secondo cui i giovani d’oggi, a causa delle nuove tecnologie, avrebbero una capacità di concentrazione molto limitata, e che dunque sarebbe necessario un nuovo approccio didattico, un nuovo metodo (quello per competenze, appunto), capace di coinvolgere gli studenti in maniera attiva e propositiva.

Attraverso la riflessione di John Dewey, che è stato tra i primi a proporre una didattica partecipativa, l’autore è nelle condizioni di smascherare anche questo costrutto ideologico. Dewey ha sostenuto che la didattica attiva mira a fornire agli studenti gli strumenti per incidere sulla realtà, per metterla in questione e al limite modificarla. Ma l’approccio per competenze, osserva Boarelli, si basa al contrario sull’adesione alla realtà esistente; non mira a una lettura critica, né tantomeno pretende di cambiarla: «il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi» (p. 25). La sua azione è pertanto «modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri “portafogli” di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul “mercato”» (Ibidem). L’accostamento tra didattica e competenze è stata insomma una mossa strategica utile per mimetizzare il nucleo portante delle competenze e spostare di conseguenza i riflettori sulla didattica. In realtà, il metodo didattico non ha nulla a che vedere con le competenze: il primo precisa il modo attraverso il quale i saperi vengono trasmessi, mentre le competenze ignorano i saperi e mirano a sviluppare strategie volte all’adeguamento passivo in contesti già costituiti e non passibili di modifica alcuna.

Questo obiettivo è stato perseguito attraverso lo strumento forse più importante di cui dispone l’ideologia del merito, ossia la valutazione standardizzata: «Le competenze devono essere misurate: questo è l’imperativo che le accompagna. Lo strumento principale, specie nel campo dell’istruzione, è quello dei test» (p. 28). In Italia ormai da anni i test sono stati affidati all’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo), il quale ogni anno li somministra a tutti gli studenti delle classi seconde e quinte della scuola primaria, delle classi terze della scuola secondaria di primo grado, delle classi seconde e quinte delle scuole superiori.

Per capire queste forme di valutazione, è necessario comprendere come operano, in quali modi interagiscono con i processi di apprendimento e quali effetti producono sul sistema educativo nel suo complesso. Boarelli svolge anche qui un lavoro pregevole, prendendo in esame alcune ricerche condotte “sul campo” che hanno lo scopo di esemplificare il modus operandi dei test; tra le altre, utilissime risultano quelle promosse dai rispettivi docenti in una classe di seconda elementare e in una classe delle superiori. In entrambe le classi sono state somministrate prove di comprensione del testo; come è noto, i test dell’Invalsi prevedono una sola risposta corretta da scegliere entro un certo numero di opzioni. Gli esiti sono stati i medesimi: le risposte considerate «corrette» dal sistema sono risultate estremamente riduttive. Gli allievi infatti sono costretti a rimanere all’interno di un perimetro dato, poiché lo scopo non è produrre discussione e confronto, dunque sapere critico, ma misurare la prestazione in un contesto preconfezionato. Attraverso una scelta arbitraria che favorisce un pensiero univoco, perché misurabile, i test estraggono dalla conoscenza alcuni contenuti e ne tralasciano altri: «In altre parole resta fuori dalla scuola la parte più importante dell’esperienza umana» (p. 33). Impedendo il confronto e la discussione, il «pensiero divergente» viene così bandito dalla scuola, assieme alla relazione tra insegnante e studente, dal momento che la valutazione è affidata ad agenzie esterne (non ai docenti) che operano attraverso princìpi uniformi e astratti, «adatti a valutare prestazioni e non esseri umani» (p. 35).

Il punto forte di questo sistema valutativo, che opera ormai stabilmente anche nelle università, nell’amministrazione pubblica e in molte imprese private, riguarda la loro presunta scientificità e oggettività. Mentre le forme di valutazione standardizzata sono il frutto di una scelta tra le tante possibili, ci viene ripetuto fino alla noia che invece sono neutrali e oggettive, e che hanno il solo scopo di «misurare». Si tratta di una affermazione banale e facilmente confutabile, dice Boarelli, dal momento che la scelta degli strumenti di misurazione non è affatto neutrale, così come non lo è la scelta degli «oggetti» da misurare. La valutazione standardizzata, in altri termini, gode di grande popolarità in quanto si fonda «sull’idea – falsa ma attraente – dell’oggettività, contrapposta a quella – reale ma difficile da gestire – della soggettività, componente ineludibile di ogni valutazione fondata sulla relazione» (p. 37).

Dato che per Boarelli, come detto, interrogarsi sul merito significa interrogarsi sulla democrazia, nella parte finale del suo lavoro egli si concentra sulle conseguenze «politiche» del sistema meritocratico, tra cui grande importanza rivestono l’erosione del concetto di cittadinanza e l’occultamento del conflitto. L’incompatibilità fra cittadinanza e merito è già evidente dal ruolo dell’individualizzazione, la quale innescando la competizione determina un profondo indebolimento della coesione sociale. La situazione del nostro sistema scolastico, sotto questo profilo, è paradossale: ovunque, e con pari veemenza, cittadinanza e competenze vengono considerate irrinunciabili, salvo omettere, come il lavoro di Boarelli mostra chiaramente, che dove c’è l’una, non possono esserci le altre: «Il merito non è costruito intorno ai cittadini, ma intorno agli utenti, ai clienti» (p. 113). Se promuovi un sistema fondato sul merito individuale, completamente disancorato da ogni dinamica sociale, e poi fai appello alla cittadinanza (che sarebbe per di più una «competenza»), sorge il ragionevole dubbio che ci si trovi di fronte a una mistificazione ideologica volta a depistare le coscienze, più che a educarle.

Quella che l’autore chiama «anestesia del conflitto» è, se possibile, ancora più problematica. Egli è infatti convinto che il conflitto svolga un ruolo sociale decisivo, attraverso il quale individui e comunità costruiscono una dimensione storica dinamica, che muta nel tempo, «sfuggendo al pericolo sempre incombente di rimanere confinati entro identità fisse e immutabili» (p. 86). Non è possibile rimuovere il conflitto, poiché conflittuale (dialettico, si potrebbe dire) è il processo entro il quale la vita si dispiega. Tuttavia, come ha mostrato Boarelli, il merito non procede sul piano sociale, ma su quello individuale, ed è qui che si insinua la forma degenerata del conflitto, ossia lo scontro: «a differenza del conflitto, lo scontro è modellato intorno alla contrapposizione tra entità assolute, astratte, assunte a priori senza bisogno di verifiche: il bene contro il male, la sicurezza contro l’insicurezza, il nuovo contro il vecchio» (Ibidem). È la logica che domina ormai da anni anche il dibattito politico, strutturato attorno a poche contrapposizioni schematiche che «semplificano e banalizzano la realtà e contribuiscono ad acuire le tensioni sociali» (p. 87). Di qui anche la crisi dell’idea di uguaglianza, baricentro di ogni democrazia: «Non c’è nessun merito nel nascere in questa o quella famiglia […]. Non c’è alcun merito nel disporre sin dalla nascita di adeguati mezzi economici e culturali, e non c’è alcun demerito nel non possederne» (p. 113).

L’ideologia del merito, frutto delle scelte politiche degli ultimi vent’anni, è orientata alla formazione di una mentalità imprenditoriale in cui «l’uguaglianza delle opportunità è inquadrata in un’ottica interamente individuale» (p. 107). Nessuno, conclude l’autore, è escluso di principio dalla gara competitiva per avere «successo nella vita», ma «la gara è truccata, perché le condizioni di partenza sono diseguali e i sostenitori del merito non si preoccupano di rimuovere gli ostacoli che danno origine a questa disparità» (Ibidem).


1 commento
  1. Enrico peyretti
    Enrico peyretti dice:

    Ottimo! Da diffondere. Scuola = 1* cultura come coltivazione e crescita dell'umanità nellievo 2* conoscenze con metodo critico 3* competenze di azione orientata a valori umanistici, a traformazione, nn mera esecuzione.

    Rispondi

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