I villaggi francesi che hanno salvato migliaia di persone durante la seconda guerra mondiale continuano ad accogliere i rifugiati | Bryan Farrell

L’antropologa Maggie Paxson si era recata a Le Chambon per studiare un luogo “specializzato” in accoglienza e convivenza pacifica, e ha scoperto che le sue belle azioni non appartengono solo al passato.

Gli abitanti del villaggio di Le Chambon, in Francia, hanno organizzato una manifestazione contro la legge francese sull’immigrazione nel 2010. (Wikimedia / Havang (nl))

Lo scorso autunno, proprio quando stava per uscire la prima puntata di “City of Refuge” (un podcast che racconta storie – poco conosciute – di soccorso durante la seconda guerra mondiale), è stato pubblicato un nuovo libro su Le Chambon, il villaggio francese noto per le sue memorabili operazioni di salvataggio all’epoca. Avendo letto più di 10 libri sull’argomento, non mi sentivo pronta a leggerne un altro. Non riuscivo a immaginare quale novità avrei potuto scoprire.

Poi, Patrick Henry, l’autore di un altro libro su Le Chambon, We Only Know Men, mi ha inviato una email per dirmi che non vedeva l’ora di parlarmi dell’ultima uscita, intitolata semplicemente The Plateau (un riferimento alla collocazione remota del villaggio).

“È scritto davvero bene,” diceva Henry, “e mostra un aspetto mai esplorato prima: gli abitanti del villaggio continuano a condurre operazioni di soccorso ancora oggi, esattamente come facevano nel XVI secolo e durante l’Olocausto”.

Era una notizia assolutamente nuova per me. Le mie risorse piuttosto limitate e una conoscenza della lingua francese totalmente assente hanno circoscritto il mio campo di interesse al passato. Non ho mai pensato a come potrebbe essere Le Chambon oggi – né tantomeno alla possibilità che stesse portando avanti la sua storica operazione di accoglienza e aiuto. Così, decisi che avevo bisogno non solo di leggere il libro, ma anche di parlare con l’autrice Maggie Paxson che – ho scoperto solo dopo – ha avuto un’esperienza fatidica quando è entrata per la prima volta in contatto con il posto in cui avrebbe poi trascorso circa 10 anni.

“Il mio primo incontro con Le Chambon,” mi ha riferito Paxson, “è stato quando una zia mi regalò un libro intitolato Lest Innocent Blood Be Shed di Philip Hallie. E disse: ‘Questo ha qualcosa a che vedere con la nostra famiglia.’”

In quel momento, Paxson non badò troppo alle parole della zia, pensando che avrebbe approfondito l’argomento in un altro momento. Quel momento arrivò anni dopo quando, in veste di antropologa, si era trasferita in un paesino rurale nel nord della Russia, scalfito da anni di guerra e violenza. Paxson, però, avrebbe voluto immergersi in un luogo distante da quell’oscurità, più “confortante” e stimolante.

“Ricordo di aver pensato: ‘Quando chiediamo a queste persone di raccontarci la storia della loro vita, cosa stiamo facendo in realtà? Le stiamo aiutando? Stiamo facendo loro del male?’. Non sapevo darmi una risposta. E ho cominciato a riflettere a lungo su quale fosse il mio ruolo e su come avrei potuto contribuire a rendere il mondo un posto migliore.”

Alla fine, ebbe un’illuminazione: se invece di analizzare la guerra e i suoi devastanti effetti sui popoli, avesse impiegato le sue competenze per studiare la pace e i luoghi specializzati nel fornire un contributo importante alla sua “sopravvivenza”?

“Ascoltando storie di pace avrei potuto scoprire molto: Come fanno ad agire nel bene quando è difficile essere buoni? Cosa sanno loro che noi ancora non sappiamo?”.

Era più o meno allora che Paxson ebbe un’altra importante illuminazione, mentre si trovava al Museo dell’Olocausto di Washington D.C.: “Feci caso a un cognome che compariva in una mostra, Trocmé.”

Aveva collegato quel cognome non a Magda e André Trocmé – marito e moglie, che aiutarono a condurre le operazioni di soccorso sull’altopiano francese – ma a una sua parente lontana, Suzie, protagonista dei tanti racconti di famiglia che, con curiosità, ascoltava da bambina. Suzie era la seconda moglie di suo nonno, e la madre di Paxson – che era ebrea – parlava spesso di lei e di come avesse preso parte alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale.

“Ho iniziato a mettere insieme i pezzi… La famiglia di Suzie non era semplicemente parte della Resistenza francese, ma di un tipo speciale di resistenza.”

A quel punto, Paxson era decisamente pronta per immergersi nel racconto di Philip Hallie. Poco dopo scoprì che Suzie Trocmé era la sorella di Daniel Trocmé, il secondo cugino più piccolo di André, il quale gestiva due case di accoglienza per giovani rifugiati a Le Chambon, ma fu tragicamente arrestato e assassinato dai nazisti.

“Ho iniziato a pensare molto a Daniel e ricordo di aver scritto “Fare ricerche su Daniel”, perché ero convinta di aver capito chi fosse. Era un giovane uomo, un ricercatore, un viaggiatore e combatteva contro queste cose perché voleva a tutti i costi essere una brava persona.  Ero certa che lo avrei trovato sull’altopiano. E così l’ho seguito ed è lì che è cominciata la mia storia.”

Seguiamo Paxson per scoprire cosa ha scoperto sulle operazioni di accoglienza ancora in corso nel villaggio.


Dieci anni fa, durante la tua prima visita al villaggio, hai capito quasi subito che stava diventando un luogo di accoglienza per alcuni richiedenti asilo. Da cosa l’avevi intuito? Puoi descrivere le tue sensazioni?

Maggie Paxson, autrice di The Plateau
(foto di Matt Mendelsohn)

Sono stata davvero fortunata ad aver incontrato un’insegnante del Collège Cévenol, durante la mia primissima escursione al villaggio. Mi ha invitato fuori a cena e mi ha detto “Sai, qui al villaggio ci sono alcuni richiedenti asilo.” E io ero tipo “Aspetta, sul serio?”. È stato entusiasmante scoprire che ancora oggi il villaggio accoglie delle persone che hanno bisogno di aiuto. Questa è stata la svolta per il mio lavoro di ricerca. All’inizio, il mio approccio era: In questo posto è successo qualcosa di straordinario e molto raro. Ci sono “tracce sociali” che possano aiutarmi a capire quanto è accaduto? Ma dopo ero tipo, “Oh, ci sono dei rifugiati. Ci sono persone che hanno bisogno di aiuto, ora”.  Ho potuto constatare con i miei occhi che cosa significa essere straniero oggi. E, a livello scientifico, è stato fantastico.

Puoi dirci di più sull’organizzazione che gestiva il centro di accoglienza per rifugiati o richiedenti asilo?

Erano i cosiddetti Centres D’Accueil Pour Demandeurs D’Asile, Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo. La Francia è divisa in départements. Sono come degli stati e ciascuno di loro ha un certo numero di questi piccoli centri, che sono lì per fare in modo che questo processo avvenga. Se riesci a trovare degli agganci, hai decisamente maggiori possibilità di ottenere asilo e puoi avere accesso a una serie di servizi. Un posto in cui dormire, assistenti sociali in grado di aiutarti a compilare moduli e avvocati per difenderti.

A Le Chambon, c’è uno di questi centri, un po’ diverso dagli altri. È composto da piccoli appartamenti e  una cucina condivisa per le tante famiglie proveniente da zone di guerra, esposte a costanti rischi.
Mentre ero lì, ho incontrato persone provenienti dalle zone caucasiche, dall’est Europa, dal Congo, Rwanda, Angola, Guinea e – più avanti, quando avevo ormai quasi terminato il mio lavoro di ricerca – persone che avevano attraversato il Mediterraneo per fuggire dall’Africa.

Hai parlato di un’insegnante del Collège Cévenol. Gli ascoltatori di “City of Refuge” sapranno che questa scuola fu fondata dai Trocmé e dai Theis poco prima dello scoppio della guerra. Quindi, era ancora operativa quando eri lì?

Lo era eccome, e c’erano studenti provenienti da ogni parte del mondo. Fu un’altra importante scoperta per me, perché mi ha dato la possibilità di indagare le loro percezioni su quel remoto villaggio francese e su quella scuola all’insegna dell’accoglienza, dell’accettazione e della nonviolenza. Ho pensato, “Devo rimboccarmi le maniche e entrare in contatto con questi ragazzi.”

Puoi dirci qualcosa in più sui richiedenti asilo che hai incontrato?

Molte famiglie venivano dalla Russia e, poiché conosco la loro lingua decisamente meglio di quella francese, ho accantonato per un po’ il ruolo di “scienziata sociale” e fatto da interprete. Ho incontrato un paio di famiglie cecene. Non tutti sanno della terribile guerra che ha afflitto la Cecenia, una delle repubbliche russe. Senza scendere troppo nei dettagli, diciamo che una persona comune con una vita ordinaria, poteva facilmente essere incastrato e ritrovarsi in un mare di guai. C’erano tanti estremisti religiosi, mafiosi e nazionalisti, e il caos e la violenza erano all’ordine del giorno.

Una di queste famiglie, che aveva vissuto a lungo in un villaggio ceceno, si trovò in grave pericolo quando decise di fuggire. Metti da parte un po’ di soldi per pagare qualcuno che ti faccia andar via – dove, non si sa –  a bordo di un camion. Stai pagando per la libertà. Per andare in Europa. Così, anche quella famiglia non aveva idea di dove fosse diretta. Finì per sbarcare in Francia, senza conoscere una parola di francese.

Erano moglie e marito, con tre figli e uno in arrivo. Ho trascorso tanto tempo con questa bellissima famiglia, strappata via dalla sua quotidianità solida e felice. Mi ci affezionai molto. Ho iniziato a preoccuparmi per loro, a pensare al modo per mantenere i contatti, al loro destino. Cosa succede quando tieni a qualcuno che si trova in una situazione di così estrema vulnerabilità?

C’era un’altra famiglia, madre e figlia, dalla Guinea. La mamma decise di scappare via quando sua figlia stava per essere sottoposta alla circoncisione femminile. Si disse, “No, non succederà.” È una donna in gamba, amorevole, pragmatica e di saldi principi morali. Abbiamo parlato tanto e lei ha spesso citato il Corano dove, precisa, non è assolutamente prevista quella pratica così dolorosa per le donne.  Insomma, un’altra bella famiglia.

Ovviamente, c’erano anche famiglie evidentemente scosse. Erano adorabili, ma l’impietoso vento di sofferenza che soffia su questa terra ha reso queste persone estremamente vulnerabili.

Cosa ti ha colpito di più degli abitanti del villaggio? Come interagivano con i richiedenti asilo?

È una piccola comunità. La popolazione a Le Chambon varia a seconda della stagione, ma diciamo che non supera i 4.000 abitanti, e l’intero altopiano conta circa 20 mila abitanti che vivono lì tutto l’anno.  In altre comunità della Francia, entrare in contatto con l’altro, che parla e veste in modo differente, può essere piuttosto scioccante, soprattutto in periodi di crisi. Quindi, anche sull’altopiano non tutti parlano dei rifugiati in modo carino. Le persone sono pur sempre persone, e hanno percezioni e opinioni spesso divergenti.

Ma nel complesso, ho assistito a una generale tendenza ad attivarsi nei confronti dello straniero. Piccoli gesti, come  il volontariato, insegnare il francese a chi non lo conosceva, regalare vestiti e tempo. Più avanti, la situazione divenne un po’ più complicata. Quando a un richiedente asilo fu negato lo status di rifugiato, la gente del posto iniziò ad aiutarlo, donandogli supporto economico ed emotivo. Allora, ho capito ancora meglio che quelle persone si offrivano di accoglierli, a scatola chiusa.

Quel che rende gli abitanti del villaggio speciali è il modo sorprendentemente semplice con cui praticano l’accoglienza: loro non vedono un’identità. Una religione. Non vedono una razza o un paese. Loro vedono una persona. Mi è sembrata una specie di alchimia, l’abilità di riuscire a vedere l’altro come un amico. Come ci riescono? Non c’è alcun dubbio: loro credono nell’essenziale unicità del genere umano. Non solo ci credono, ma sanno come metterla in pratica. Questo non significa che tutti sono di ottimo umore e super produttivi ogni giorno. E non significa che nella comunità tutti agiscano allo stesso modo. Ma una comunità che sappia cosa vuol dire essere unici e coltivi questa idea con la pratica, è straordinario.

Credi che la loro condotta attuale derivi da una sorta di sensibilizzazione storica, un po’ come è accaduto durante la seconda guerra mondiale?

Si, direi che potrebbe avere qualcosa a che vedere con questo. Le comunità sono in grado di rivivere il loro passato in molti modi. Raccontando la loro storia, il loro vissuto. Alcuni potrebbero dire “Noi siamo così e facciamo queste cose da sempre.”? Si, sono sicura che molti lo fanno. Ma, da scienziata sociale, credo che la parte veramente interessante sia come queste persone imparino ad attivarsi e a intervenire sul presente, a prescindere dal loro passato. È come quando, a furia di praticare quell’attività, poi diventi bravo. E loro l’accoglienza la praticano costantemente.

I richiedenti asilo erano a conoscenza della storia dell’altopiano? L’hanno scoperto nel tempo, o è qualcosa che è rimasto un po’ lì, sullo sfondo?

Quando fui presentata alle famiglie, l’assistente sociale disse loro “Questa è Maggie ed è qui per fare una ricerca comparata sulle sensazioni e le percezioni che gli stranieri hanno oggi, rispetto al passato.” E loro non avevano mai sentito parlare di quel passato. Perché mai avrebbero dovuto? Tutto molto bello e interessante, ma loro erano lì per ottenere i documenti che gli riconoscessero lo status di rifugiato. Senza quelli, li avrebbero spediti chissà dove. Quindi, la loro preoccupazione principale era la sopravvivenza. Probabilmente a scuola, qualcuno di loro aveva imparato qualcosa sulla seconda guerra mondiale, ma erano così umili che mai si sarebbero vantati di saperne di più degli altri. Poi, c’è un museo (il Lieu De Memoire), ma queste persone avevano altre priorità. Probabilmente ne avrebbero preso consapevolezza più avanti… Ma, alla fine, anche durante la seconda guerra mondiale, non so quanto i rifugiati ebrei sapessero qualcosa in più del luogo in cui furono accolti.

Nel libro, sottolinei che una delle cose che più ti ha colpito – in termini di interazioni tra i richiedenti asilo e gli abitanti del villaggio – era che i bambini fungevano spesso da ponte per costruire il dialogo. Puoi dirci di più?

Un rinomato storico, Gérard Bollon, ha scritto moltissimo sull’altopiano. Era un abitante del villaggio e fu il primo a farmelo notare. Mi disse, “I bambini sono il ponte fra le famiglie, facci caso.” I figli dei richiedenti asili andavano a scuola come i figli dei locali e facevano amicizia con tutti. È un processo sociale molto semplice. Feste di compleanno, pomeriggi di studio a casa delle famiglie francesi… Per gli adulti è più difficile socializzare, ma il modo migliore per farlo è proprio attraverso i figli.

Purtroppo mentre eri al villaggio è accaduta una tremenda tragedia alla Cévenole. Puoi spiegarci cosa è successo?

È una scuola privata, quindi devi pagare per ricevere un’istruzione. “Accettiamo tutti i giovani che hanno bisogno di aiuto.”, inclusi i ragazzi che erano stati espulsi o avevano avuto problemi nelle altre scuole.  Tra questi, c’era uno studente particolarmente instabile. La scuola è immersa nella natura e un giorno questo ragazzo e una sua amica decisero di andare alla ricerca di funghi. Non voglio scendere troppo nei dettagli, ma la ragazza si perse nel bosco e questo è il genere di posto in cui ci si mobilita subito per aiutare chi è in difficoltà. Dopo pochi giorni fu ritrovato il suo corpo. Era stato lui a ucciderla. Fu un momento sconvolgente per tutti.

È dura frequentare una scuola privata in Francia, soprattutto in una zona così remota. A seguito di quell’episodio, i genitori non vollero più mandare i figli a studiare lì e poco dopo l’istituto fu costretto a chiudere per motivi economici. Fu devastante per me. Pensai: “Ok, quindi, è successo davvero.  Il rischio è reale.” Una cara amica mi disse: “Non siamo pronti. Non conosciamo ancora veramente il mondo.”

Sfortunatamente, nel periodo in cui svolgevi la tua ricerca, la Francia è stata colpita da un’altra tragedia: l’attacco a Charlie Hebdo del 2015. Cosa ha significato per il paese e quali sono state le reazioni sull’altopiano?

In Europa, la percezione di insicurezza derivante dai flussi migratori genera violenza e all’epoca c’era una forte intolleranza nei confronti dei musulmani. Le persone divennero sospettose e timorose che i terroristi si nascondessero dietro l’angolo.  C’era preoccupazione per le famiglie che erano venute in Francia per trovare rifugio e non avevano nulla a che vedere con tutto ciò che era successo. Ma le tensioni erano estreme.

Hai parlato di un sermone tenuto dall’attuale pastore di Le Chambon e del fatto che fosse una sorta di reminiscenza di quello che André Trocmé disse durante la guerra.

All’ingresso della chiesa di Le Chambon è scritta la frase “Amatevi l’un l’altro”

Fu un sermone adorabile e, anche se non riesco a ricordarne i dettagli, fu un’esperienza bellissima per me sedermi in quella chiesa e ascoltare un messaggio così semplice e fondamentale sull’amarsi l’un l’altro. E una chiesa che trasmette questo tipo di messaggio, è il posto giusto dove andare. Non importa quale sia la tua religione, vai lì.

Il libro si conclude con l’arrivo di altri rifugiati. Sai cosa è successo da allora e se l’altopiano è ancora un luogo di accoglienza?

Sono ancora in contatto con alcune persone del posto. C’è una donna in gamba lì, che si dà un gran da fare – non solo con i richiedenti asilo, ma anche con gli immigrati che hanno bisogno di aiuto – e mi aggiorna regolarmente su quel che succede, con tanto di fotografie.

Ho capito che gli abitanti di quel posto si attivano in situazioni di forte tensione nei confronti degli stranieri e lanciano un messaggio, del tipo “Qui siete i benvenuti”. Si assicurano, poi, che il messaggio arrivi forte e chiaro. Danno il loro tempo e il loro cuore, per aiutare concretamente chi ne ha bisogno.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza a Le Chambon?

Queste persone sanno come far crescere una comunità e accogliere lo straniero come un amico. Non un’identità, ma parte di un’ampia collettività, quella umana. Loro studiano la teoria e la mettono in pratica e, se il tuo istinto è diverso, sanno aiutarti a ritrovare la strada giusta. È una fortuna nascere in una comunità del genere.

Ho imparato molto anche da Daniel Trocmé, un outsider, per certi versi. Era cresciuto in una famiglia meravigliosa, di solidi valori. E proprio mentre si impegnava per portare avanti il suo progetto di vita, si innamorò. Era innamorato di tutti quei bambini che avevano bisogno di cure e che lo cambiarono profondamente. Quindi, se non nasci in un luogo in cui ti insegnano ad agire in un determinato modo, puoi imparare grazie all’amore.

Siamo nel pieno di una pandemia ed è impossibile non osservare il mondo attraverso questa tragica lente. Il villaggio piò insegnarci qualcosa sul come affrontare questa crisi?

Ci penso spesso. Ho iniziato a scrivere The Plateau con l’idea che spesso viviamo in fasi storicamente importanti, senza nemmeno rendercene conto. Chi ha vissuto la seconda guerra mondiale non sapeva, sotto certi aspetti, che in futuro sarebbe stato giudicato per le sue azioni. Nessuno ci dirà “Fai attenzione perché il futuro ti sta già giudicando.” Dobbiamo capirlo da soli.

Sull’altopiano, le persone furono in grado di capirlo subito, grazie alla constante attività dei loro cuori e delle loro menti. Una specie di meccanismo interno che gli consentì di cogliere l’importanza del momento. Non tutti agirono così nel resto della Francia e dell’Europa.

C’è qualcosa in questo momento – questo strano, spaventoso, triste momento – che sembra chiederci di difendere noi stessi. E la solitudine che stiamo vivendo forse può aiutarci. Penso che ci spinga a riflettere sul modo in cui siamo tutti connessi. L’unità dell’umanità non sono i paesi. L’unità è l’umanità. Tutti insieme. E gli abitanti dell’altopiano l’avevano già capito. Mi auguro che ciascuno di noi colga questa esperienza per imparare.


Bryan Farrell

Bryan Farrell è co-fondatore ed editore di Waging Nonviolence e vive a New York. Ospita e produce anche il podcast, City of Refuge. Il suo lavoro è apparso in The Guardian, The Nation, Mother Jones, Slate, Grist e Earth Island Journal. Seguilo su Twitter @bryanwith2eyes.


Waging Nonviolence, 15 maggio 2020

Traduzione di Benedetta Pisani per il Centro Studi Sereno Regis

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