Potere forte. Attualità della nonviolenza
Roberta Covelli, Potere forte. Attualità della nonviolenza, effequ, Firenze 2019, pp. 176, € 15,00
Nonviolenza, potere forte
L’Autrice è una giovane giuslavorista, e qui scrive della nonviolenza come un potere, una forza, un’attualità. Chi vorrà leggere il libro troverà un idealismo pratico: «Ciascuno cresce solo se sognato», suggerisce una poesia di Danilo Dolci. Perché la tensione dell’immaginazione e della speranza attiva amplia l’intelligenza pratica, e può umanizzare, cioè de-violentizzare le relazioni umane, a tutti i livelli. Può essere sia una resistenza alle violenze istituite e celebrate, sia il fermento di una rivoluzione permanente, lungo il tempo. Chi coltiva la nonviolenza lo spera, sa di non lavorare all’impossibile.
La parola nonviolenza raccoglie una storia, travagliata, ma profonda, dello spirito e dell’azione umana. Capitini, che in questo libro è il maggiore riferimento, è un maestro nel pensiero di questo cammino evolutivo. La violenza c’è, e contraddice la dignità della vita. Ma questo libro afferma che la nonviolenza è una forza più forte della violenza. La parola «forza» è falsificata, nel linguaggio corrente. Persino in Simone Weil si legge forza nel senso di violenza. Invece, la forza è un carattere della vita, non della distruzione. Noi però chiamiamo «forze armate» l’organizzazione delle armi, studiate solo per uccidere. La «forza» che uccide, o infligge sofferenza, non è forza, ma violenza, perché «viola» la vita. La vera forza rispetta e difende anche la vita dell’avversario (non nemico) in un contrasto.
La gestione dei conflitti con mezzi nonviolenti è un «potere forte», mentre la gestione violenta è la rassegnazione alla sconfitta della vita. Chi «vince» in un conflitto violento è chi distrugge più vita, o la minaccia e la schiaccia: così, è sempre la vita che perde. Se riteniamo che la vita, in tutte le sue dimensioni, è un valore – cos’altro abbiamo di più prezioso? – ogni conflitto violento non ha vincitori, ma è sconfitta di entrambi i contendenti. E ogni «conflitto» (parola anche questa corrotta, fatta sinonimo di guerra), ogni confronto di differenze umane da comporre, rimane umano solo se, invece della violenza, esercita le forze della vita, che sono: la resistenza non distruttiva, il coraggio, la costanza, la parola, il dialogo, l’intelligenza costruttiva, il calcolo dell’interesse comune, e anche la capacità di soffrire per risvegliare l’umanità in letargo nel violento. Così, la nonviolenza – termine positivo, da due negazioni – è vera forza. Ma, proprio come la vita, nasce in germi, ha bisogno di crescere, nutrirsi, esercitarsi, esprimersi, maturare in storia e civilizzazione umana, diventare cultura e arte della convivenza politica planetaria.
Il libro di Roberta Covelli contribuisce a questa ricerca «antica come le montagne», per Gandhi. Ricerca che è presente, più o meno chiara, in tutte le civiltà e spiritualità umane, nonostante il fracasso mortale delle guerre. Ma «è un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato» (Anna Bravo, La conta dei salvati).
Una prima idea che voglio sottolineare in questo libro è, appunto, che «la rivoluzione è aperta», è continuo divenire: il passaggio dall’io chiuso, disperato e feroce, all’io-tu, all’io-tutti. Una crescita civile umana è il passaggio dal potere-oggetto, strumento esclusivo di dominio, al potere-verbo, possibilità di vita realizzata e condivisa da tutti (cfr. pp. 40 e 162). È quindi il compimento di una democrazia che non sia solo la conta dei numeri, comunque conquistati, ma sia il capitiniano «potere di tutti», la «onnicrazia». C’è da lavorare, non da disperare.
Difficile scegliere cosa segnalare di più, nel libro. C’è la Resistenza italiana (p. 47), ci sono i maggiori casi storici di boicottaggio creativo opposto alla violenza (da p. 61). Come la guerra è preparata dalla costruzione culturale del nemico, così la nonviolenza riconosce nel nemico un essere umano, anche nella trincea opposta: le fraternizzazioni tra «nemici», le azioni e le spedizioni di pace, dentro la guerra. E si potrebbero aggiungere altri casi storici. Più ancora che contro la guerra, la nonviolenza è stata attiva per i diritti civili, contro le violenze strutturali nella società, a partire da Gandhi (in Sudafrica prima che in India), dal movimento ispirato da Martin Luther King, con l’invenzione di sempre nuove tecniche (Sharp ne ha collezionate almeno 200).
Trovo ben illustrata la lunga lotta in Sudafrica contro l’apartheid razziale, che non è senza violenza, ma, per merito di alcune guide di eccezionale saggezza, sfocia non solo nella parità di diritti civili e politici, ma nella mirabile esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, modello esemplare. Questo caso storico prezioso porta l’Autrice a ragionare sulla giustizia riparativa (da p. 100). È questo un passo avanti che ancora attendiamo e cerchiamo nella civiltà giuridica: non la sofferenza della pena in risposta alla sofferenza inflitta col crimine, ma un processo attento e costruttivo di ricomposizione del rapporto umano violato dal crimine. Occorrono altri studi, esperienze, ricerche in questa direzione, perché il diritto penale, come dice la parola, include la violenza nella giustizia, che dunque non è abbastanza giusta.
Un altro punto da sottolineare è la promozione dei diritti sociali (da p. 105), a partire dall’azione inventiva di Danilo Dolci (altro autore di riferimento in questo libro) in Sicilia, a metà del Novecento. Sono modelli per la costruzione di democrazia sociale, non puramente liberale, di «libere volpi fra libere galline»; sono esperienze delle quali la nonviolenza ben attiva è ispirazione e carattere costitutivo. Il diritto al lavoro, socialmente garantito, non solo come necessità, ma come espressione della persona umana, è un obiettivo primario della nostra Costituzione, eppure, come vediamo, è ancora in balia di una economia di speculazione finanziaria, quindi radicalmente violenta, più che di produzione della vita.
Anche la parte sulla educazione e la scuola (da p. 125) è da indicare come compito di attuazione di nonviolenza positiva. Non mi dilungo sui vari sviluppi, ma registro i caratteri qui ricordati di una scuola nonviolenta: educazione intellettuale, manuale, emotiva. Creatività e immaginazione, comunicazione, dialogo maieutico, innovazione eccentrica (ex-centrum), sono aspetti di una formazione che rende capaci di concrete azioni sociali di liberazione, di attuazione dei diritti umani. Non il funzionalismo di una società-blocco, ma la dinamica del conflitto nonviolento può realizzare quella liberazione, quella «ri-evoluzione», intravista da Capitini nel dopoguerra, quel procedere verso la «onnicrazia» politica, ancora assai difficile, ma umanamente irrinunciabile. Questo obiettivo esige un popolo cosciente, non ingannato, non tenuto in minorità. Ogni cittadino cosciente ne è un elemento, che agisce nella «compresenza» di tutti, dai predecessori ai posteri, ai quali siamo debitori.
Tanto basta e vale per vedere che la nonviolenza non è un sogno di anime belle disincarnate, ma un’idea regolativa, un ideale, un obiettivo dell’evoluzione umanizzante della nostra specie e nostra storia.
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