“La peste” di Albert Camus e l’arte di vivere durante i periodi di catastrofe | Bryan Farrell
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Bryan Farrell
Influenzato dalla resistenza nonviolenta e dal salvataggio di cui è stato testimone durante la seconda guerra mondiale, “La Peste” di Albert Camus insiste sul fatto che la solidarietà, la compassione e il salvare vite umane sono le uniche strade da percorrere.
In un mondo costretto letteralmente a “chiudere i battenti” per affrontare l’emergenza sanitaria, è difficile capire cosa fare e, soprattutto, come essere. Le informazioni da cui siamo costantemente inondati di certo non ci chiariscono le idee, anzi. La frustrazione cresce e l’umore ne risente.
Nella reading-list “da quarantena”, non può mancare il romanzo di Albert Camus, La Peste, scritto durante la seconda guerra mondiale e destinato a evocare allegoricamente l’occupazione nazista della Francia.
La peste. Un male che ha diffuso la devastazione su un’umanità impreparata, volontariamente incapace di reagire alla crisi, perché tenacemente intrappolata in se stessa e nelle immobili dinamiche socio-economiche di produzione-consumo.
Alla fine, quando negare l’evidenza non funziona più, ecco che si inizia a lottare per l’ultimo barattolo di legumi, a inventare chimerici rimedi, a chiudersi in casa per evitare il contagio e, purtroppo, a contare le prime vittime.
Isolamento, esilio (tematiche efficacemente condensate nel termine moderno “distanziamento sociale”), portano inevitabilmente a una sconfortante condizione di sfiducia e frustrazione. Conseguenze a noi spaventosamente familiari.
In realtà, per Camus tale stato di umano scoramento precede la diffusione della peste, che chiaramente lo acutizza.
Alla fine del romanzo, viene svelato il misterioso antidoto contro la depressione: l’amore per la vita. Una resistenza attiva e nonviolenta, adornata con solidarietà e compassione nei confronti di se stessi e degli altri.
Quando scrisse il romanzo, l’autore era circondato da uomini e donne che regalavano un esempio concreto di questo amore. Si trovava, infatti, in un piccolo e coraggioso villaggio francese, Village de Pamelier, dove molti rifugiati furono accolti durante la seconda guerra mondiale.
Ammalatosi di tubercolosi, Albert Camus si trasferì in quel idillico e quieto borgo nel sud della Francia con sua moglie, Francine, con l’intenzione di trascorrervi i mesi estivi. Ma nel novembre del 1942 i nazisti occuparono la valle e Camus non poté tornare in Algeria.
Fu in quei giorni di turbamento che Camus elaborò la famosa analogia “Like rats!”. Come ratti. Gli stessi ratti che, mesi dopo, compaiono nel suo romanzo La Peste, come presagio di morte.
“Nella maggior parte delle biografie, gli autori affermano che Camus non fosse al corrente di cosa stesse succedendo nel sud della Francia. Evidentemente, non hanno fatto correttamente il loro dovere.”
Patrick Henry (autore di We Only Know Men)
E quel dovere consisteva principalmente nel creare una rete di contatti con storici e ricercatori locali per conoscere un Camus diverso da quello che superficialmente può emergere nei suoi scritti. Per andare oltre.
Patrick Henry era riuscito a intervistare un vecchio amico di Camus, André Chouraqui, un ebreo franco-algerino, che viveva nel villaggio ai tempi della guerra e cooperava con la Œuvre de Secours aux Enfants, l’organizzazione umanitaria dedita alla protezione dei bambini e dei giovani ebrei, introdotti clandestinamente nel paese.
“André Chouraqui mi ha scritto e detto a voce: ‘Ovviamente Camus sapeva perfettamente’.”
In effetti, sarebbe stato piuttosto strano il contrario, considerando che “parecchi ebrei vivevano nella pensione in cui alloggiava lo stesso Camus”.
Chouraqui ha anche raccontato che Camus era al corrente che il carismatico pastore della valle (che probabilmente non ha mai conosciuto personalmente), André Trocmé, condusse in prima fila la resistenza a Le Chambon.
“Sapere che Camus fosse pienamente informato sui fatti è stata la ‘chiave d’accesso’ al romanzo”.
La peste di Camus non è solo una “controfigura” del fascismo. È anche il simbolo di quella che l’autore definisce, in senso più ampio, la cultura della morte.
Jean-Paul Sartre e altri intellettuali francesi hanno spesso rimproverato Camus per l’analogia tra il nazismo e un fenomeno naturale, in alcun modo connesso alla cattiveria umana e fuori da ogni controllo. Ma la peste di Camus non è solo una “controfigura” del fascismo. È anche il simbolo di quella che l’autore definisce, in senso più ampio, la cultura della morte che pervade ogni aspetto del mondo politico, dalle ideologie conservatrici a quelle rivoluzionarie di sinistra.
Nel romanzo non esistono eroi, ma la voce narrante asserisce che, se ve ne fosse anche solo uno, quello sarebbe Joseph Grand, valido sostenitore del movimento di resistenza.
Il concetto stesso di eroismo assume per Camus un significato atipico: essere giusti senza pretendere una ricompensa.
“Camus era contro la violenza. Ha combattuto in prima linea contro la pena di morte in Francia.”, dichiara Henry.
Nel romanzo, infatti, la resistenza è rappresentata da una “squadra sanitaria”, un gruppo di civili, guidato da Jean Tarrou, un personaggio molto vicino alla personalità di Camus, che lotta disarmato contro un fenomeno naturale e mortale.
All’inizio, Tarrou prese parte alle battaglie “rivoluzionarie” contro l’oppressione, fin quando non si rese conto che stava lottando contro un sistema ingiusto senza offrire un’alternativa migliore.
“Avevo la peste già molto prima di venire in questo villaggio.”
Le parole di Tarrou ribadiscono l’ampio significato che Camus attribuisce alla peste, metafora della tendenza umana all’auto-distruzione.
Ad un certo punto del romanzo, Tarrou offre al lettore una definizione di pacifismo, semplice ma straordinariamente efficace:
“Ho deciso di rifiutare tutto ciò che direttamente o indirettamente, per ‘buone ragioni’ o in cattiva fede, uccide. Io mi rifiuto di uccidere.”
Di fatto, però, Camus non era in assoluto un pacifista. Vedeva la violenza come “inevitabile e ingiustificabile”. In una lettera che scrisse a un amico, circa dieci anni dopo la guerra, infatti, ha dichiarato che “la teoria della non-violenza rappresenta una verità meritevole di essere insegnata, ma farlo richiederebbe una grandiosità d’animo che io non ho.”
Una grandiosità che lascia avere a Tarrou, come nota Henry:
“Tarrou ha quello splendore che, in qualche modo, lo lega a Trocmé, il quale afferma che puoi resistere alla violenza solo con ’le armi dello spirito’.”
Allo stesso tempo, però, Tarrou e Trocmé presentano una dissonanza non trascurabile, la religione.
Tarrou vuole diventare un “santo senza Dio”, mentre Trocmé è a tutti gli effetti un uomo di Dio.
Secondo il noto teologo e scrittore Thomas Merton, Camus ha avuto enormi difficoltà nel contemplare l’esistenza di una possibilità nonviolenta, in quanto l’associava a una cristianità, da lui fragorosamente rifiutata, che propendeva per un tipo di non-violenza determinato da un’egoistica indulgenza.
Uno dei personaggi del romanzo, il giornalista Raymond Rambert, è uno “straniero” – come Camus – bloccato in quel luogo lontano da casa. Prova, infatti, a fuggire ma, lungo il cammino, cambia idea e decide di rimanere e unirsi alle “squadre sanitarie” per combattere contro la peste.
“È esattamente quello che è accaduto a Camus” , dice Henry. “Ha provato ad andar via, ma alla fine non l’ha fatto. E proprio come il personaggio del suo romanzo, sente di appartenere a quel luogo e di avere l’obbligo morale di prendere parte alle lotte per la Resistenza”.
C’è ancora un altro personaggio particolarmente degno di nota, Bernard Rieux, il dottore del villaggio nonché voce narrante del racconto.
Il dottor Rieux, per certi versi, appare come l’altra faccia della medaglia rispetto a Tarrou.
Quando Tarrou afferma di voler diventare “un santo senza Dio”, Rieux dice che invece lui vuole solo “essere un uomo”. A quel punto, Tarrou si fa portavoce di uno humor auto-ironico, attraverso il quale Camus esprime un messaggio molto chiaro: i die perseguono sostanzialmente lo stesso obiettivo, ma quello di Tarrou è meno ambizioso!
Alla fine, però, è Tarrou a diventare uomo, vivendo non più da straniero, ma in solidarietà con i suoi “compagni”; mentre il dott. Rieux semplicemente continua a fare il suo dovere, curare i malati e alleviare le sofferenze umane. È un guaritore, un liberatore. Qualità che lo stesso Tarrou attribuisce ai santi.
Ciò che importa, in realtà, è che entrambi non mostrano alcun bramoso desiderio di sfoggiare il loro valore. Ed è proprio questa umile compostezza d’animo che conferisce loro la qualità di gente della valle.
Dieci anni dopo la pubblicazione de La Peste, quando ottenne il Premio Nobel per la letteratura nel 1957, Camus ha straordinariamente chiarito in una frase il messaggio del suo celebre romanzo.
“Voglio che le persone imparino l’arte di vivere in tempo di crisi, che ritrovino la vita combattendo apertamente contro l’istinto mortale che domina la nostra società”.
Quel piccolo e remoto villaggio nel sud della Francia ha regalato all’autore una fonte d’ispirazione inestimabile, un modello rincuorante di solidarietà attiva, in cui trovare sostegno per affrontare i momenti di crisi.
“Il bacillo della peste non muore né scompare mai”. Giace, in attesa di risvegliare i suoi ratti.
Per questo motivo, non dobbiamo mai dimenticare come combattere questa forza distruttiva, qualsiasi sia la forma sotto cui si presenta.
Abbiamo bisogno di solidarietà, compassione e un forsennato desiderio di restare umani.
“Ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.
Bryan Farrell
Bryan Farrell è co-fondatore ed editore di Waging Nonviolence e vive a New York. Ospita e produce anche il podcast, City of Refuge. Il suo lavoro è apparso in The Guardian, The Nation, Mother Jones, Slate, Grist e Earth Island Journal. Seguilo su Twitter @bryanwith2eyes.
Fonte: Waging Nonviolence
Traduzione e adattamento di Benedetta Pisani per il Centro Studi Sereno Regis
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