Video-diplomacy per il processo di pace in Yemen | Benedetta Pisani
Da sei anni, ormai, lo Yemen sta vivendo una delle più grandi tragedie umanitarie al mondo.
Nel 2014, gli Houthi, i ribelli sciiti che combattono contro il presidente ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, hanno occupato l’area settentrionale del Paese, al confine con l’Arabia Saudita, dando inizio a una guerra civile apparentemente irrisolvibile, macchiata di dolorosi crimini contro l’umanità.
Il timore che un rafforzamento della potenza sciita in Yemen potesse facilitare l’accesso di Teheran alla Penisola Arabica, ha determinato l’abominevole escalation di un conflitto interno già estremamente amaro, ora affiancato e sovrapposto dalla proxy war tra due delle maggiori potenze regionali.
Da allora, il Paese è isolato internazionalmente.
La popolazione yemenita è stata abbandonata nel mezzo di una crisi umanitaria senza precedenti, sotto uno shock economico, determinato dal rude embargo saudita nel Nord del Paese, e inasprito ulteriormente a seguito dell’epidemia di colera del 2016, durante la quale le parti in conflitto non hanno ceduto a nessuna diplomazia sanitaria ma, al contrario, hanno utilizzato tutti i mezzi pensabili per trarre vantaggio dalla crisi.
Oggi, l’emergenza coronavirus, che sta mettendo a dura prova paesi tutto sommato stabili e dalle economie avanzate (se così devono essere definiti i sistemi socio-economici basati sulla spasmodica dinamica del “produco e consumo”), rischia di essere l’inizio di un’ennesima catastrofe umanitaria in Yemen.
Embed from Getty ImagesLe Nazioni Unite hanno dichiarato la necessità di porre fine alla guerra per permettere al paese di affrontare adeguatamente il vorticoso divampare del virus, proponendo con urgenza la pionieristica opzione di video-diplomacy, la prima negoziazione di un conflitto in video-conferenza.
Per rispondere all’appello dell’ONU, l’Arabia Saudita ha comunicato ufficialmente il cessate il fuoco unilaterale il 9 aprile, mentre il gruppo sciita non ha mai mostrato la minima intenzione di deporre le armi.
Anche questa volta, però, una pandemia viene strumentalizzata per il raggiungimento di interessi egoistici. Il catastrofico crollo del prezzo del petrolio e la mancata realizzazione degli obiettivi politici e militari, infatti, hanno spinto l’Arabia Saudita a intervenire rapidamente per salvaguardare la propria posizione egemonica nella regione e ricostruire una già precaria reputazione a livello internazionale.
Evidentemente tale unilateralità, per di più dettata da ragionamenti opportunistici, non può essere la soluzione duratura e sostenibile a un conflitto di estrema gravità, che richiederebbe l’attuazione, apparentemente utopistica, di un incontro dialogico cooperativo tra le parti in guerra, e tra loro e noi, gli “spettatori” di un odio spietato e ingiustificabile.
Dialogare, rivolgere domande, capire, è estremamente importante per il processo di ricerca, insieme intimo e collettivo, che ci consente di condurre un’esistenza piena di senso, libera dall’odio, dal pregiudizio e dalla calunnia.
Sempre più spesso, però, sacrifichiamo la nostra capacità di rimetterci in questione, di uscire dalle cornici di cui siamo parte, in cambio di un’apparente e ambigua quiete, che dissolve temporaneamente la paura dell’uomo di fronte all’ignoto, all’incertezza, al diverso, mentre lo risucchia in un indolente vortice di individualismo, egoismo e indifferenza.
Se propedeutico a uno stato di ipocrita serenità, siamo disposti ad accettare anche la più inammissibile delle informazioni come topos condiviso, o a sospendere la nostra capacità di giudizio, aggrappandoci al pregiudizio, quando quell’informazione non conferma uno stereotipo che abbiamo formulato a priori.
Esplosioni di nazionalismo, razzismo, xenofobia, omofobia, sono la più estrema ed evidente conseguenza di un sistema socio-economico di stampo capitalista, in cui disorientamento e stupore non sono previsti e il disagio che emerge dall’incontro-scontro di identità è paralizzante.
La vera conquista consiste, quindi, nel raggiungere quella condizione di
libertà in cui, le emozioni possono offrirci, se siamo intenzionati a
coglierle, informazioni non su cosa vediamo, ma su come lo guardiamo.
E se tutti riuscissimo a vederci come “stranieri” su questa terra, l’umanità
potrebbe destarsi dal rassegnato sonno di ignavia e conformismo, e lasciarsi
finalmente cullare dalla melodia di un ascolto autentico e rivoluzionario,
basato sulla reciprocità e pari dignità dei diversi.
Fino a quando le parti in conflitto non accetteranno tali condizioni, imprescindibili per dar vita a un dialogo interculturale realmente dinamico, sostenibile e utile alla costruzione di una società più giusta, rimane flebile la speranza di avviare un nuovo percorso fondato sul rispetto nei confronti di se stessi e degli altri.
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