Per una salute solidale, inclusiva e complessa

Enzo Ferrara

Oggi – 7 aprile 2020 – è la giornata mondiale in difesa della salute, una ricorrenza importante alla quale ogni anno il Centro Studi Sereno Regis ha dedicato incontri, riflessioni, presentazioni. È difficile adesso commentare questa ricorrenza mentre arrivano notizie di tanti amici e conoscenti scomparsi tutti per una stessa causa. La perdita di un numero crescente di uomini e donne di ogni età, in tutto il mondo, per il contagio annunciato – e perciò riducibile – di un virus nuovo, capace di aggirare il nostro sistema immunitario in forma irreversibile, sta andando oltre ogni più brutta previsione. Bertolt Brecht suggeriva l’uso del silenzio in tempi difficili. È più dignitoso distogliere lo sguardo da chi soffre, a meno che non si possa aiutarlo. Rischiamo di essere di scarso aiuto e di ridurci come altri al ruolo di contabili fallimentari delle illusioni moderne – giudicherà chi legge.

Ma Danilo Dolci ha lasciato detto di “Fare presto (e bene) perché si muore” (Di Girolamo, Milano 1954), anche di pregiudizio. Per questo non possiamo sottrarci al dovere di ragionare sugli effetti di questa malattia per riportare i temi della prevenzione e della solidarietà, e forse un po’ di speranza, al centro del discorso.

La crisi mette a nudo tante contraddizioni a partire dall’idea che la nostra salute personale e collettiva fosse protetta contro i “mali della natura”, uno dei postulati – va sottolineato – su cui si basano gli stati moderni. La bio-politica, l’insieme di azioni non solo sanitarie ma anche sociali e ingegneristiche messe in atto per la sicurezza dei cittadini, intesa nel senso più ampio possibile, è elemento costituente di ogni modello di stato, perfino nei regimi dittatoriali. Il fallimento o il successo sull’offerta di sicurezza e assistenza dei sistemi sanitari mondiali di fronte al contagio è l’argomento che fa la differenza e su cui occorre centrare il dibattito. Se di fallimento si tratta, allora vengono meno certezze della modernità che si credevano consolidate. Le “malattie del progresso”, le patologie degenerative (tumorali, neurologiche, disfunzionali) diffuse per il degrado ambientale ma non trasmissibili da uomo a uomo, sono accettate con dubbia coerenza almeno fino a che il sistema che le provoca garantisce la difesa contro le “malattie epidemiche” che hanno falcidiato l’umanità nell’intero suo corso e che si consideravano relegate ai margini della storia. Le nostre malattie sono da sempre correlate con il modello socio-economico che adottiamo. Perfino lo sviluppo dell’agricoltura 10mila anni fa comportò problemi sconosciuti fino al neolitico, dovuti a carenze alimentari per una dieta meno ricca e all’insorgere delle zoonosi con la nascita dell’allevamento.

Non ne sappiamo ancora abbastanza, ma se saranno verificate alcune delle ipotesi sull’insorgenza del nuovo coronavirus – favorita dal disboscamento, dalla perdita di biodiversità e dalla mono-dimensione umana della biosfera – sia sulle concause e i vettori della sua diffusione – a partire dall’inquinamento atmosferico, che assieme all’alta industrializzazione ha correlato la maggior parte dei primi focolai dell’infezione – allora stiamo assistendo a qualcosa di nuovo perfino più della pandemia. Si tratta di una sinergia mai prima osservata, una nemesi che integra le “malattie del progresso” e le “malattie epidemiche”, con il rischio di rendere le une e le altre più forti e più temibili se non vi sarà un’inversione decisa del modello di sviluppo.

Chi pensa che sia questo il “momento dell’audacia” e di potersi “prendere il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza” – come ha scritto Alessandro Baricco su Repubblica il 26 marzo 2020, suscitando consensi – deve però chiarire in quale direzione intende agire, per non ridursi a celebrare invece il “momento dell’ambiguità”. La scelta è fra diritti o privilegi, eguaglianze o profitto, avarizia o politica.

Siamo di fronte a un bivio. Possiamo pensare di costruire castelli con mura e sistemi di controllo più robusti ed efficienti, ma anche con dentro più ospedali dotati di attrezzature sufficienti per la cura intensiva dei soli castellani. Oppure possiamo pensare di prevenire alla radice i pericoli pandemici riducendo sia il rischio del salto di specie di nuovi virus fino all’uomo – garantendo igiene, profilassi, acqua e cibo in ogni residenza umana; rinunciando allo sfruttamento di ogni habitat terrestre e marino oltre le soglie di sostenibilità e oscenità – sia le occasioni di diffusione del contagio, ampliate dal traffico di persone e merci, dall’urbanizzazione e dagli esodi di masse in fuga dalla guerra e dalla miseria.  

Qualunque sia la nostra scelta, illudersi di uscire da questa crisi solo per via tecnologica, più che l’audacia mette in discussione la nostra capacità di remissione. Come dimostrano le esperienze di isolamento in cui ci troviamo, il controllo sociale a cui magari controvoglia ma necessariamente ci adattiamo fino a che predomina il carattere solidaristico dell’emergenza, richiede sforzi di omologazione dei comportamenti e del pensiero che non tutti possono sostenere e che a lungo termine prefigurano derive anche per le società e i singoli più forti. E se anche ci fosse eguaglianza di accesso e competenze nell’infosfera virtuale, l’opzione di affidarsi a dispositivi che aspirano ad aiutarci nella distopica “emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro” – citazione sempre di Baricco – non è razionale e costituisce invece il punto critico dei vizi di forma che ci circondano. Da un lato per la sua insostenibilità, che ci riporta al rafforzamento reciproco, favorito del degrado ambientale, delle patologie trasmissibili e no, dall’altro perché riconduce le relazioni a un surrogato efficace solo in chiave nichilista e auto-consolatoria, come ammonivano i racconti di J.G. Ballard in “Mitologie di un futuro prossimo”.

Il rovesciamento di prospettive e priorità che questa crisi ha provocato rende più stridenti le forzature di un sistema che considera la finanza, le fabbriche di armi e le grandi opere essenziali e superflui invece e derogabili i presidi sanitari, le relazioni, la solidarietà. Abbiamo chiamato liberalizzazione l’imposizione di regole immorali e antieconomiche senza le quali non sarebbero possibili disfunzioni oggi fatali come l’assenza di mascherine per proteggerci dal virus e l’incapacità di produrle “a casa nostra”. La carenza di attrezzature mediche negli stessi territori lombardi da cui partono aerei militari colmi di esse si accompagna alla disponibilità delle migliori cliniche al mondo ma solo per cure voluttuarie, incapaci di assistere i cittadini in terapia intensiva trasportati in Germania.

I diritti sempre negati a coorti di braccianti immigrati, costretti ad abbandonare i campi di un paese che non li merita perché non garantisce loro assistenza sanitaria e abitativa, ora rendono l’Italia misera, indifesa e sola. C’è chi spera di tornare presto all’illusione di normalità che c’era prima, altri ritengono impossibile ripristinarla. Comunque vada, sarà difficile guardare la prossima realtà con le stesse illusioni e i pregiudizi che ci hanno accompagnati a lungo impedendoci di vedere cosa avevamo davanti agli occhi: sugli schermi le immagini dei cinesi che reagivano colpiti dal contagio e sotto casa i loro negozi chiusi senza poter aspettare che anche noi capissimo e imparassimo ad ascoltarli, prima che diventasse tardi per tutti.

L’augurio – ma è anche una promessa – è che il prossimo anno ci troveremo il 7 aprile a celebrare questa ricorrenze internazionale dedicata alla salute assieme a loro e ai rappresentanti di tutte le nazioni e i continenti colpiti dalla pandemia.

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