La MONTAGNA di pace, in un OCEANO di guerre
Il nostro ricordo di Nanni Salio, nel quarto anniversario della morte, un articolo pubblicato su Azione Nonviolenta del novembre 2004.
Non ricordo con precisione quando ho cominciato a pensare al Kailash, ma so per certo che quando ho visto per la prima volta una fotografia della montagna sacra per eccellenza ne sono stato colpito in modo profondo e straordinario e dentro di me ho pensato che prima o poi avrei dovuto realizzare il sogno di fare il kora (il pellegrinaggio) attorno al Kailash, nella remota regione del Tibet sud occidentale. È una sorta di passione che non ti lascia, come per gli alpinisti che sognano di salire una vetta impervia, o come chi si innamora perduta mente.
E questa occasione si è presentata quest’anno, nel mio sessantesimo compleanno, nonché quarantesimo anniversario di Azione Nonviolenta e in coincidenza con la nascita di Alessandra, la mia bellissima nipotina: una serie di coincidenze propiziatorie che mi hanno accompagnato durante tutto il viaggio.
Il Kailash
Montagna sacra, montagna mitica, montagna cosmica, montagna interiore, montagna di pace: nessun’altra al mondo può vantare una storia altrettanto leggendaria, che si perde nei secoli e nei millenni. Ombelico del mondo, spina dorsale dell’universo, monte Meru degli antichi cesti, nota ai tibetani come Kangri Rimpoche, “la Preziosa Montagna Innevata”. Si erge isolata coi suoi 6714 metri sull’altopiano tibetano, circondata da una corona di monti leggermente meno alci che, secondo la tradizione, sono i custodi della zona più interna e più sacra, alla quale si può accedere solo dopo aver fatto dodici volte il kora principale. [insieme di questi monti forma una sorta di mandala naturale, e il profilo del Kailash ha ispirato l’architettura dei templi in Tibet come in India. Con i due straordinari laghi Manasarovar (lago formato nella mente di Dio), solare, maschile, luminoso e Raksas Tal (lago dei demoni) lunare, femminile, scuro, costituiscono una sorta di gigantesco tempio sacro naturale, dal quale nascono quattro dei principali fiumi asiatici: il Brahama putra, il Sutlej, il Karnali e l’Indo. Perché una montagna e un luogo diventano sacri? Nel suo splendido resoconto del viaggio in Tibet, “La via delle nuvole bianche”, Lama Anagarika Govinda ne dà una originalissima interpretazione: “Ci sono montagne che sono soltanto montagne e ci sono montagne che hanno personalità. La personalità di una montagna… consiste nel potere di influenzare gli altri”. Se questa qualità è presente “in una montagna la riconosciamo come un ricettacolo del potere cosmico, e la chiamiamo una montagna sacra: Il potere di una tale montagna è tanto grande e tuttavia così sottile che, senza costrizione, la gente giunge da ogni dove, come se fosse attirata dalla forza di una calamita invisibile… ” Queste parole riecheggiano il pensiero di uno dei grandi ecologisti che ha contribuito alla nascita del biocentrismo e della deep ecology, Aldo Leopold (1887-1948) che sin dagli anni ’40 del secolo scorso si propose di studiare la natura non solo limitandosi all’ambito conservazionista, ma imparando “a pensare come una montagna”, sviluppando una visione più ampia, che superasse quella del semplice antropocentrismo.
Più in generale, sono le montagne tibetane, gli immensi spazi, i colori incensi, sfumati, pastellati, i laghi di un blu-turchese intensissimo che creano quella sensazione meravigliosa e magica che cattura ogni viaggiatore e che probabilmente ha contribuito alla nascita di una cultura impregnata di religiosità e spiritualità, che vede in ogni sasso, in ogni essere vivente e non vivente una manifestazione del divino. Nella regione dell’antico regno di Guge, all’estremo sud occidentale, che ho avuto modo di visitare dopo il pellegrinaggio attorno al Kailash, si entra in contatto con un ambiente di indescrivibile grandiosità, che Anagarika Govinda ha saputo rendere con grande lirismo: “Qui lo scenario montuoso è più che soltanto un paesaggio. È architettura nel più alto senso della parola. È di una monumentalità imponente, per la quale la parola “bella” sarebbe di gran lunga troppo povera, perché è soverchiata dall’immensità e dall’astratta purezza delle sue forme ripetute un milione di volte che si integrano in un ritmo ampio, una sinfonia di pietre, senza inizio e fine. La prima reazione è che tutto ciò non può essere soltanto opera della natura, il risultato di un semplice gioco di forze cieche, ma piuttosto l’opera consapevole di un su premo artista, su una così vasta scala che sconcerta la mente umana e toglie il respiro… Intere catene montuose sono state trasformate in file di templi giganteschi con cornicioni minuziosamente scolpiti, nicchie, porticati con pilastri, fasci di coni sporgenti intersecati da delicate protuberanze, sormontati da guglie, cupole, pinnacoli e molte altre forme architettoniche”.
In questi spazi, tutto si trasforma in preghiera, in modo spontaneo, gioioso persino ingenuo, ma di una ingenuità che nasconde una profonda saggezza e gioia di vivere.
Ogni passo di montagna è segnato da un cumulo di pietre costruito dai viaggiatori in segno di offerta al guardiano della montagna e spesso sono pietre che portano scolpite pazientemente preghiere o mantra, come la classica invocazione Om mani padme hum, “salve gioiello nel fiore di loto”, ripetuta incessante mente dai pellegrini durante il kora che li porterà a superare il Drolma La, il passo dedicato a Tara, la più suggestiva e straordinaria figura femminile del pantheon buddhista tibetano, femminista ante-litteram, dea della compassione. E sui passi più importanti spiccano dei piccoli darchen (pennone) con lunghe strisce di bandiere delle preghiere, dai cinque colori che corrispondono ai cinque elementi: giallo (terra), verde (acqua), rosso (fuoco), bianco (aria), blu (spazio). Accanto a questa sterminata quantità di bandiere poste sul Drolma La, oggi svettano anche, completandole, le bandiere della pace e della nonviolenza, con il fucile spezzato, che ho lasciato come segno e speranza per un autentico futuro di pace, che Tara, la benevolente e compassionevole, aiuterà a concretizzarsi. Le stesse bandiere svettano anche ai piedi del Chomo Longma, al campo base dell’Everest, perché la nonviolenza è la più elevata delle conquiste, la più alta vetta morale, che l’umanità deve ancora realizzare compiutamente.
Venerata dai seguaci di quattro religioni (hindu, buddhisti, jainisti, bon, l’antica religione tibetana) la montagna sacra richiama ogni anno migliaia di pellegrini provenienti da ogni angolo dell’Oriente e anche dall’Occidente per “il più grandioso e il più duro di tutti i pellegrinaggi terreni”. Essi accorrono in massa, con lunghi viaggi e con ogni mezzo, in occasione della Saga Dawa, la cerimonia che si svolge nella quinta luna piena (tra maggio e giugno) a Tampoche, ai piedi del Kailash, nel giorno che ricorda la nascita, l’illuminazione e la morte del Buddha. Nel corso della lunga cerimonia, officiata da lama salmodianti nei loro abiti colorati e con una coreografia che ricorda alcune feste religiose cristiane, viene innalzato il darchen, un palo alto una ventina di metri che crea simbolicamente l’unione tra terra e cielo. Concluso con successo l’innalzamento del pennone, si scatena una sarabanda gioiosa fatta di devozione e festa, di cui approfitto per aprire davanti agli occhi distratti della polizia cinese e tibetana la bandiera con il fucile spezzato e farmi fotografare e applaudire dagli entusiasti partecipanti, nonché da una troupe televisiva italiana, che non si aspettavano questa semplice ma significativa azione nel cuore del Tibet occupato.
Nei tre giorni successivi mi attende la fase più emozionante del kora attorno alla montagna sacra, che apre continuamente visioni esaltanti. Si cammina costantemente oltre i cinquemila metri e infine si arranca, passo passo, silenziosamente, scortati dagli immancabili yak e dal sorriso dei loro guardiani, uomini e donne, tra una buferina di neve e l’altra sino a raggiungere il fatidico passo del Drolma La, a 5660 metri, letteralmente coperto da una miriade di bandierine di preghiera multicolori. E poi inizia la lunga discesa, non meno faticosa, che si concluderà sotto una nevicata che renderà ancora più suggestivo lo straordinario e severo ambiente che circonda il Kailash. L’alba del mattino seguente mi coglie in un ambiente surreale, con yak e tende ricoperte da un buon manto nevoso e con le montagne circostanti che si cingono di uno straordinario insieme di colori, dal rosa all’azzurro al violetto e che mi accompagneranno sino alla fine della vallata, felice ma anche un po’ malinconici per dover abbandonare così presto questo luogo magico e incantato.
Tibet e Nepal: gli Shangri-La insanguinati
Nell’immaginario occidentale il Tibet rappresenta, da tempo immemorabile, il mitico Shangri-La, il paradiso perduto, il regno dell’eterna giovinezza, della felicità terrena e del!’antica saggezza, sulle cui tracce si sono mossi audaci esploratori che hanno contribuito a creare una va sta letteratura. Al di là del mito, la storia reale è più complessa e più simile a quella di molti altri popoli. Oggi, questo Shangri-La, e quello gemello, il Nepal, sono insanguinati e hanno perso parte dell’antico splendore. Coloro che hanno avuto modo di conoscerli in tempi migliori, che amano e apprezzano gli spazi infiniti dell’altipiano tibetano e le straordinarie montagne himalayane, non si rassegnano e guardano a questi paesi con ansia, angoscia e sincero desiderio di aiutarli a superare questi difficili momenti della loro storia.
Come tutte le situazioni conflittuali che si trascinano da tempo, anche quelle del Tibet e del Nepal sono complesse e controverse, sebbene siano storie assai diverse: invasione dal!’esterno nel primo caso, ribellione interna nel secondo.
La questione Tibet risale ormai a oltre mezzo secolo fa, quando nel 1950 l’esercito cinese invase il paese per compiere quella che ancora og gi viene celebrata come una “liberazione pacifica” dei tibetani dal giogo di un potere teocratico. Sembra di sentire i moderni signori della guerra (George W. Bush e i suoi epigoni) quando giustificano la guerra di aggressione in Iraq per ché, venute meno le colossali bugie (fantomatiche armi di distruzione di massa e inesistenti legami con il terrorismo di Al Qaeda), servirebbe a portare la democrazia.
È ben vero che il Tibet era governato da un potere teocratico feudale che manteneva ampi settori della popolazione in condizione di estrema povertà e di semi-schiavitù, cosi come è ben vero che Saddam Hussein era un dittatore sanguinario (per molti anni considerato dagli USA un buon alleato) ma tutto questo non giustifica affatto l’invasione, né in un caso né nell’altro. La seconda fase è stata quella della brucale repressione militare culmi nata, negli anni della rivoluzione culturale (1966-76), nella sistematica distruzione di gran pane dei monasteri e di un inestimabile patrimonio culturale. Oggi le autorità cinesi cercano di porre parzialmente rimedio a questo incredibile errore dettato da cecità e ignoranza, ma in molti casi è troppo tardi. Tuttavia, l’eredità della cultura tibetana, come quella della nonviolenza gandhiana, hanno superato i confini dei due paesi e appartengono all’intera umanità, come anticipò profeticamente Guru Rimpoche: “Quando l’anello di ferro volerà e i cavalli correranno sulle ruote, il popolo del Tibet sarà sparso in tutto il mondo e il Dharma giungerà alla terra degli uomini rossi”. È compito del cosiddetto “Tibet esterno” (regione del Mustang in Nepal, Ladakh e Dharamshala in India, Bhutan) mantenere viva e diffondere l’antica cultura e saggezza tibetana. La terza fase, quella attuale, è persino più pericolosa, poiché mira all’assimilazione culturale attraverso la classica politica “del bastone e della carota”: qualche concessione sul piano della libertà religiosa, vantaggi economici per chi collabora, indottrinamento scolastico, perdita dell’identità nelle nuove generazioni, oscena urbanizzazione e distruzione sistematica dell’antica e armoniosa tradizione architettonica tibetana, penetrazione economica all’insegna di un volgare consumismo simile a quello occidentale (coca cola, birra cinese, oggetti usa e getta, primi segni di motorizzazione, TV spazzatura e spazzatura ovunque), massiccia immigrazione cinese che ha reso i tibetani minoranza nel loro paese, distruzione dei fragili equilibri ecologici dell’altopiano tibetano, attraverso la deforestazione e la costruzione di impianti idroelettrici che rischiano di provocare pesantissimi impacci sul delicato equilibrio idrico.
Nel Nepal, dopo una stagione di promettenti riforme che facevano sperare in un concreto processo di democratizzazione con il passaggio da una monarchia assoluta a una costituzionale, il cammino si è bruscamente interrotto. Da circa dieci anni, il paese è travolto nel gorgo di una guerra civile che ha già provoca to diecimila vittime e non accenna a risolversi. Da un lato, la guerriglia maoista, nata da una costola del partito comunista presente in parlamento, dopo la delusione delle riforme mai attuate. Dall’altra, il potere della monarchia, corrotto e inefficiente, con un parlamento incapace di rispondere positivamente alle richieste formulate dai maoisti in un manifesto di quaranta punti, che mirano a ridurre effettivamente la pesante condizione di povertà nelle campagne, le discriminazioni di casta e di classe. Se è vero che il Nepal è uscito da pochi decenni da una condizione feudale e si è avviato verso una forma di democrazia rappresentativa, è altrettanto vero che la pressione per il cambiamento richiede risposte concrete, non più rinviabili. Per il momento, la risposta data dalla monarchia è stata prevalente mente militare, sostenuta da USA e India, che vedono nel Nepal un paese di grande importanza strategica per controllare l’altro gigante asiatico, quello che ha invaso il Tibet.
In mezzo, come al solito, la popolazione civile, che paga sulla propria pelle l’incapacità dei governanti di affrontare positivamente e creativamente il conflitto armato e si illudono di poter ottenere una vittoria definitiva sulla ribellione maoista, costi quel che costi.
A lato, ci siamo tutti noi, turisti un po’ distratti che continuiamo a cercare i resti dello Shangri-La, indaffarati nello shopping esotico, anestetizzati nei nostri paesi dal consumismo superficiale e da una propaganda mediatica che accende i riflettori solo su ciò che ritiene arbitrariamente importante.
La Kathmandu (la casa di legno) di un tempo, che vidi trent’anni fa, non c’è più, travolta da processi di urbanizzazione, consumismo, inquinamento, crescita demografica, che rendono ancora più urgente per tutti quanti, noi e loro, la ricerca e la realizzazione di un modello di sviluppo centrato su tecnologie intermedie, appropriate, capaci di creare condizioni di autentica sostenibilità sociale e ambientale, su un turismo responsabile e sostenibile, su pratiche di intervento nonviolento per aiutare queste popolazioni a uscire dalla terribile trappola della guerra.
Quale futuro?
Che cosa ne è della nonviolenza in questi paesi che, nel nostro immaginario, avrebbero dovuto esserne una realizzazione concreta? I miei sono sempre duri a morire. Nel Tibet, il Dalai Lama, insignito del premio Nobel per la pace nel fatidico 1989, quasi a stigmatizzare la brutale repressione del governo cinese in Piazza Tienanmen, gira incessantemente il mondo intero per tener viva la causa dei tibetani, e predica una nonviolenza che tuttavia rimane prevalentemente una dichiarazione di principi etici e stenta a tradursi in proposta politica. Figura nobile, e saggia, certamente, non tuttavia paragonabile ai grandi leader delle lotte nonviolente del secolo scorso, da Gandhi a Martin Luther King a Mandela a Tutu, ad altri ancora. È mancata sinora la disponibilità ad affrontare la situazione con un gesto più eclatante, di rottura, come suggeriscono alcuni di coloro che ho incontrato nel mio viaggio e che conoscono bene la situazione, seguendola dall’interno da molti anni. Il suggerimento è semplice e impegnativo al tempo stesso, come tutte le principali azioni politiche nonviolente.
Il Dalai Lama dovrebbe entrare in Tibet e farsi arrestare clamorosamente dalle autorità cinesi, sollevando un caso che nessuno potrebbe più ignorare su scala internazionale, eventualmente coadiuvato in questa impresa da un significativo numero di altre personalità internazionali. La strada del carcere è sempre stata la via maestra di tutti coloro che hanno concretamente utilizzato i metodi e le tecniche della nonviolenza, a partire dai leader dei movimenti. Sinora, le lotte nonviolente in Tibet, pur se condotte con spirito di abnegazione e coraggio, non sono riuscire a richiamare con continuità l’attenzione, la solidarietà e la partecipazione internazionale. Sin dall’invasione, il Tibet si è trovato privo di una politica coerente di difesa civile, sociale, popolare, nonviolenta e si è mosso tra una comprensibile ribellione e gesti isolati di resistenza nonviolenta, anche se talvolta teorizzati a grandi linee, ma ignorandone sostanzialmente la dimensione politica. Quello del Tibet è un classico esempio di nonviolenza che rimane prevalentemente su un terreno spirituale, religioso, ricchissimo ma insufficiente ad affrontare concretamente situazioni politiche drammatiche, quando queste si presentano.
Queste considerazioni sono fatte con modestia e consapevolezza dei nostri stessi limiti, della nostra incapacità di dar vita qui da noi a un significativo movimento nonviolento capace di opporsi efficacemente ai processi di distruzione in atto, siano essi provocati dalla guerra, dalla povertà, dalla distruzione ambientale, dalla miseria o dalla cecità culturale.
Le popolazioni del Tibet e del Nepal hanno ancora molto da insegnarci in tema di frugalità, sobrietà, semplicità, spiritualità: non lasciamole sole, coinvolgiamoci nel nobile ed esaltante tentativo di aiutarle a trovare la strada della trasformazione nonviolenta e creativa dei conflitti. Se sapremo entrare con intelligenza, perseveranza e sensibilità in queste dinamiche conflittuali potremo averne una positiva ricaduta personale e collettiva per le nostre stesse società, anch’esse in preda a gravi sintomi di involuzione autoritaria e responsabili di un processo di degradazione ambientale e sociale di cui non riescono ancora a vedere le tragiche conseguenze.
Ci commuove vedere e leggere Nanni di oltre 15 anni fa, in un momento alto e intenso del suo cammino spirituale-operativo. Quanto deve essergli costato dover interrompere il suo lavoro per la malattia e la morte. Riceviamo da lui tutto quello che possiamo, e proseguiamo la ricerca profonda. Nulla va perduto di ciò che vale.