Il mondo è fatto per gli gnomi?

Massimiliano Fortuna

Esercizi spirituali di demolizione del nostro ego. Forse non sarebbe male trovare il tempo per praticarne una dose, anche minima, ogni giorno. Salutari bagni di messa in discussione delle nostre certezze, ripensamento critico di tutto quanto diamo per scontato, sguardo eccentrico rispetto alle più profonde abitudini mentali e culturali che ci segnano. Non vale però soltanto per i nostri «io» individuali, e nemmeno per quelli più ampi di carattere nazionale o di zona geografica. Vale allo stesso modo per il nostro ego di specie, di abitanti umani del pianeta.

Il cielo stellato sopra di me

Un rimedio sempre efficace per contrastare il nostro irriflesso antropocentrismo consiste semplicemente nell’atto di alzare gli occhi al cielo. L’osservazione di quanto sta lassù resta uno dei più forti antidoti all’ambizione di centralità di quanto si trova quaggiù. In fondo si può dire che la storia dell’astronomia moderna sia stata in primo luogo la storia della progressiva presa di coscienza della nostra marginalità cosmica. Prima ci siamo resi conto che è la Terra che abitiamo a ruotare attorno al Sole e non il contrario, poi lo spazio che ci circonda si è allargato con la comprensione che questo Sole non possedeva alcuna caratteristica particolare, ma altro non era che una stella fra miliardi di altre stelle presenti nella Via Lattea, quindi dagli anni Venti del XX secolo si è cominciato a capire che anche la Via Lattea non è che una galassia fra le tante di un universo in espansione.

Queste sono soltanto le premesse cosmologiche di un prodigioso incremento di sapere realizzatosi nell’ultimo secolo in merito alla natura dell’universo. Secondo quanto siamo oggi in grado di stabilire, questa immensa distesa di galassie non rappresenta altro che la punta visibile di un iceberg, che in grandissima parte non riusciamo a vedere. Gli astrofisici ci raccontano infatti che abitiamo in un universo che contiene, all’incirca, solo il 4 per cento di atomi ordinari (tutto ciò che conosciamo sulla tavola periodica), il resto è composto per il 23 per cento da materia oscura e per il 73 per cento da energia oscura. Buchi neri, materia e energia oscura rappresentano un appassionante campo di ricerca volto alla scoperta e alla delineazione di un universo nascosto del quale attualmente ben poco siamo in grado di dire.

Ma se facciamo ritorno da questo vasto cielo, e dallo sgomento che può procurarci, al recinto del nostro pianeta, molti degli umani non posseggono dubbi: qui l’intelligenza è affar nostro, come potrebbe essere altrimenti? Per lungo tempo infatti abbiamo ritenuto l’intelligenza un attributo esclusivo della specie umana, cosa che ci ha impedito, e tuttora in buona parte ci impedisce, di dare il giusto rilievo a intelligenze differenti dalla nostra. Difatti abbiamo cominciato a riconoscerne una qualche dose negli animali più simili a noi, ma facciamo ancora molta fatica a ammetterne la presenza in esseri che avvertiamo distanti, come gli insetti; che poi anche alle piante si possa attribuire una forma di intelligenza è cosa che molti di noi stentano persino a prendere in considerazione.

A questo riguardo la lettura, ad esempio, dei libri di Stefano Mancuso non potrà che esserci di aiuto. Lui e altri studiosi del mondo vegetale infatti ci hanno fornito negli ultimi anni svariati elementi capaci di mettere in discussione, se non di ribaltare, questo inveterato paradigma culturale su cui siamo adagiati.

Essere un vegetale

«Essere un vegetale» e «vegetare» in quasi tutte le lingue stanno a indicare il livello più basso e insignificante del vivere. Davvero è così, o questo altro non è che il riflesso di una prospettiva umana, troppo umana, nei confronti di chi ha percorso una strada evolutiva assai diversa dalla nostra, sviluppatasi non attraverso la mobilità ma nel radicarsi in un terreno? Sforziamoci di valutare la domanda da quest’ultimo punto di vista.

Le piante possiedono tutti i cinque sensi che possediamo noi, più un’altra quindicina che a noi mancano. Le piante sentono, vedono, annusano come noi, anche se non lo fanno con orecchie, occhi e nasi simili ai nostri. E l’intelligenza? Teniamo innanzitutto presente che esistono differenti definizioni di intelligenza, ma se per intelligenza s’intende «l’abilità di risolvere problemi», non c’è dubbio che le piante siano in grado di assolvere, spesso brillantemente, questa funzione, vale a dire di elaborare dati e dunque di pensare, anche se non hanno un organo come il nostro cervello ma una capacità intellettuale «in rete», il cui funzionamento si potrebbe paragonare a una sorta di Internet vivente.

Troppo abituati a intendere l’intelligenza sul modello della nostra, se noi uomini un giorno ci trovassimo davvero di fronte quelle intelligenze aliene sulle quali talvolta fantastichiamo, forse neppure riusciremmo ad accorgercene. Perché, si chiede Mancuso, «un’intelligenza evolutasi su un altro pianeta e in condizioni completamente diverse dalle nostre dovrebbe utilizzare gli stessi mezzi di comunicazione che usiamo noi, fondati su fenomeni ondulatori? Altri esseri viventi, tra cui le piante, per comunicare impiegano sistemi diversi, alcuni dei quali hanno come fondamento la produzione di molecole chimiche» (S. Mancuso, A. Viola, Verde brillante, Giunti 2015, p. 126).

Per relativizzare poi il nostro antropocentrismo si rifletta sul fatto che le piante costituiscono il 99,7% circa della biomassa (la massa di tutto ciò che è vivo) terrestre. Come è possibile che degli esseri stupidi dimostrino una così sviluppata capacità di adattamento e di colonizzazione del pianeta? Non è un mistero infine che senza piante la vita umana sulla Terra avrebbe al massimo qualche mese di esistenza, mentre loro per vivere non hanno certo bisogno della nostra presenza. Ragione per cui sarebbe bene aumentasse di molto l’attenzione nei confronti del loro mondo e di tutte le conoscenze ricavabili dalla loro biodiversità, da tempo i naturalisti ci avvertono che da quest’ultima possono derivare strumenti decisivi per meglio affrontare, ad esempio, i problemi dell’inquinamento e dell’alimentazione.

La relazione con il regno animale e vegetale non dovrebbe però basarsi su criteri meramente opportunistici. Anche se già nel pensiero antico c’è stato chi, come Porfirio o Pitagora, si è mostrato attento e sensibile alle sofferenze degli animali, solo in tempi piuttosto recenti, nella cultura occidentale, ha davvero iniziato a prendere piede l’idea che a essi debba essere riservato un posto nella riflessione etica, sino a riconoscerli come titolari di diritti – pionieri come Francis Hutcheson, Jeremy Bentham o John Lawrence nella seconda metà del Settecento sono stati fra i primi a associare il termine «diritto» al mondo animale: «lo ius animalium», scriveva Lawrence nel 1798, «dovrebbe certamente far parte della giurisprudenza di ogni sistema fondato sui principi di giustizia e umanità» (cfr. K. Thomas, L’uomo e la natura, Einaudi 1994, p. 222).

Anche per le piante sarebbe bene percorrere questa strada senza esitazione, seguendo ad esempio la suggestione dello stesso Stefano Mancuso, che nel suo ultimo libro, La nazione delle piante (Laterza 2019), ha provato a immaginarsi una Costituzione della Nazione delle Piante scritta dalle piante stesse; l’articolo numero 2 di questa loro Carta dei Diritti recita: «La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono». Prestiamo orecchio al mondo vegetale, l’antica saggezza di chi è apparso su questo pianeta in un tempo assai più remoto del nostro potrebbe rivelarsi davvero preziosa nella crisi ambientale attualmente in corso.

Abituarci a relativizzare la nostra pretesa centralità di specie sul pianeta Terra – l’idea che tutto il resto della natura abbia ragione di esistere solo in funzione del nostro agire e del nostro sguardo (e vale anche, in fondo, se inteso unicamente come sguardo estetico, come semplice contemplazione della bellezza degli altri viventi) – rimane dunque per la nostra anima una delle migliori cure possibili e praticarla non potrà farci che bene.

D’altra parte non sono pochi i maestri capaci di venirci in soccorso a tale scopo. Riprendiamo magari in mano le pagine del Dialogo di un folletto e di uno gnomo di Leopardi, dove si racconta di uno gnomo che, giunto in superficie dalle profondità della Terra, apprende da un folletto che tutti gli uomini sono morti e nonostante la loro sparizione la vita degli «altri» prosegue come se nulla fosse. «Avrei caro», dice allora lo gnomo, «che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Già, ribatte il folletto, e non «volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per i folletti». Ma le proteste dello gnomo non si fanno attendere: «Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?»


 

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