L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo

Enrico Peyretti

Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino 2019, pp. 352, € 24,00

Otto passi fuori dalla barbarie

Gandhi non è soltanto quella curiosa figura di uomo mite e tenace, vestito di pochi panni, per essere uguale ai più poveri del suo paese (tanto che a Churchill – si dice – sembrava «un fachiro seminudo»). Può darsi che, conoscendolo meglio, troviamo in lui l’esperienza, il pensiero, la «grande anima» (Mahatma, lo chiamava il suo popolo), in grado di proporre una via d’uscita, una alternativa da elaborare, al gigantismo vorace e distruttivo del modello di consumi e di vita occidentale, oggi esteso al mondo. Un modello che, analizzato nei suoi termini più crudi ed essenziali, appare, agli occhi più critici, una forma di barbarie, nonostante la crosta brillante e presuntuosa, ed alcuni indubbi valori umanistici, che del resto Gandhi seppe cogliere.

Giuliano Pontara, da giovane, per non fare il soldato, evase dall’Italia e fece l’immigrato in Svezia. Lavorando come vice-bidello in una scuola, studiò da solo (Aldo Capitini gli correggeva i compiti per corrispondenza), prese la maturità classica a Roma, studiò filosofia a Stoccolma, fino a diventare docente universitario. Tra vari lavori di filosofia analitica e filosofia pratica (da noi si chiama morale), sviluppò il suo interesse per Gandhi, su cui ha prodotto molti studi e, già nel 1996, ha raccolto la migliore antologia italiana di scritti, Teoria e pratica della nonviolenza, presso Einaudi, a cui lo presentò Bobbio.

Una spietata verità

Il volume appena uscito, L’antibarbarie, amplia, rivede e aggiorna una prima edizione del 2006 (ne pubblicammo una recensione su «il foglio» (336, novembre 2006, p. 7).

Che cosa dice Gandhi al presente momento della società umana mondiale? Egli ha mosso una corrente di morale e di pensiero, lunga e ampia, che oggi affronta l’imbarbarimento notevole delle relazioni sociali e politiche. Osserviamo anche da vicino questa barbarie, nel «linguaggio di odio» nel nostro paese, nelle politiche come volontà di «pieni poteri» (non lontana dal niciano Wille sur Macht), nel nazi-populismo che scinde il genere umano in «sicuri e respinti». E sul piano internazionale, invece della necessaria solidarietà davanti ai comuni pericoli, nella sorte umana sempre più indivisibile, vediamo opposte politiche di influenza a scopo di speculazione finanziaria, di particolarismo suprematista, nella follia dei crescenti armamenti.

È proprio vero quel che diceva Jacques Ellul nel 1972: «La nostra, più  che l’età della violenza, è l’età della consapevolezza della violenza»? Non sempre, ma dove questa consapevolezza c’è, attiva, costruttiva di antidoti e alternative, la scuola di Gandhi è viva e preziosa. In questa linea, Pontara, ricevendo da un suo maestro, Harald Ofstad,  sintetizza l’essenza del nazismo permanente e attuale in otto componenti caratteristiche di questa micidiale ideologia:

1. la visione del mondo come teatro  di una spietata lotta per la supremazia; 2. il diritto assoluto del più forte;  3. lo svincolamento da ogni limite morale; 4. l’elitismo (diritto di dominio che una élite si attribuisce in quanto “superiore”); 5. il disprezzo per il debole; 6. la glorificazione della violenza; 7. il culto dell’obbedienza assoluta; 8. il dogmatismo fanatico.

Pericolosi moderati

Accettiamo questa spietata verità sul sistema di vita in cui siamo? Oppure lo vediamo  come il migliore dei mondi possibili, con qualche difetto riparabile?  Per Martin Luther King, il Gandhi americano, i «bianchi moderati» erano più pericolosi del Ku klux klan (Lettera dalla prigione di Birmingham, 16 aprile 1963). Le persone moderate, «con una superficiale comprensione», indebolivano il movimento dei diritti civili e lo spingevano ad accettare un intollerabile status quo.  Lo richiama Giovanni De Mauro, direttore di «Internazionale»(22-28/11/2019, p. 5), che cita il ricercatore statunitense Jamie Aroosi: «Oggi siamo in una situazione simile». Tanto basta per impegnarci a pensare a fondo.

Per 60 pagine, nel primo capitolo, Della barbarie, l’Autore illustra la realtà storica e le espressioni teoriche, fino alle assolutizzazioni teologiche, di queste otto «componenti essenziali dell’ideologia nazista»: atteggiamenti, eretti a princìpi, di lacerazione della convivenza umana.

Da questo punto, Pontara interroga ed esamina l’alternativa globale proposta e praticata nella scuola gandhiana: l’uomo Gandhi, il politico, il suo pensiero; i temi della verità, della religione, della tolleranza e del perdono nella sua riflessione ed esperienza; il valore e i limiti del rispetto per la vita;  il concetto di violenza e una gestione dei conflitti emancipata da tale mezzo, nella necessaria coerenza tra mezzi nonviolenti e risultati umani, liberi da sofferenza inflitta e da nuova sopraffazione.

Gandhi è più scienziato sperimentatore che filosofo e politico. Nella ricerca di verità e giustizia professa un «fallibilismo» disposto a correggersi continuamente, pur teso ad una verità che sta oltre ogni concezione che la cerca e la approssima, nella pluralità delle vie culturali, civili, religiose. Egli dice di fare «esperimenti con la verità» (titolo di un mio libretto elementare su Gandhi), con fede in questa Verità che è Dio, che è l’unità suprema di tutte le cose, e che egli scrive sempre con la maiuscola. «È la mia devozione alla Verità che mi ha condotto alla politica» (scrive nell’Autobiografia).

Nell’analisi della linea gandhiana si incontra anche il suo appoggio eventuale alla lotta violenta, ma sempre nella intensa chiarificazione della strategia nonviolenta, e della trasformazione dei conflitti. Ognuno di questi problemi è trattato da Pontara con riferimenti all’esperienza storica del Mahatma, nella più ampia riflessione critica.

Tutto un capitolo, Una società del benessere di tutti, tratta il socialismo nonviolento di Gandhi. Crescendo da moderato a rivoluzionario, per l’attuazione dei diritti umani, che vede discendere dai doveri, egli ha individuato e avviato esperienze di politiche e di economie dell’autosufficienza, dell’autocontrollo, dell’autogoverno, alternative al superindustrialismo e allo sfruttamento, in un quadro di armonia con la natura e di condivisione sociale, di «benessere di tutti» (sarvodaya), di ricostruzione della società dal basso. La grande proprietà privata, che deve essere produttiva per i bisogni di tutti, deve essere gestita come «amministrazione fiduciaria».

Uscire dalla barbarie

Quello gandhiano non è il sogno di alcune anime belle, ma una linea da conoscere e considerare, nella fatica storica, oggi che la crisi ambientale e il capitalismo predatore impongono profondi ripensamenti per poter riuscire a salvarci dal disastro globale.      

Così, nell’ultimo capitolo, Pontara traccia i punti di una «uscita dalla barbarie», le alte alternative a quegli elementi essenziali di nazismo visti all’inizio:

1. il mondo come teatro delle forze costruttive; 2. il primato della democrazia; 3. la subordinazione della politica all’etica; 4. l’umiltà dell’egualitarismo; 5. l’empowerment dei deboli; 6. la dissacrazione della violenza; 7. la responsabilità della disobbedienza; 8. il fallibilismo.

Se accostiamo a specchio le due serie di punti vediamo quale rivoluzione culturale ci propone il lascito di Gandhi, che non manca di camminare in alcuni esperimenti di continua ricerca, educazione, azione.

Il libro di Pontara è stato presentato vivamente da Pietro Polito e da Marco Revelli, il 4 dicembre 2019, presso il Centro Studi Sereno Regis di Torino (la cui biblioteca contiene le centinaia di libri di e su Gandhi). È seguita la discussione, dalla quale raccolgo solo alcuni punti.

Pluralità delle vie

Come volgere in positivo il termine «nonviolenza» e lo stesso «antibarbarie» (solo per meglio intenderci, pur sapendo che non si modifica il linguaggio corrente)?  Nonviolenza può dirsi anche (forse meglio?) con «non-nocività», «in-nocività» (che non è innocenza, qualità di chi, pur accusato, non ha nuociuto). La violenza ha tante forme, materiali, psichiche, culturali, che tutte sono offese o danni all’umano. Il nonviolento gandhiano vuole farsi sempre più capace di «non nuocere», non fare danno, non infliggere sofferenza, non disprezzare, e così cerca di alleggerire il mondo dal peso del dolore, anche caricandosene, se necessario per trasformarlo.

Nel linguaggio di Gandhi si trova «satyagraha», «forza della verità», che esprime il mezzo costruttivo di lotta, quella verità profonda che unisce tutte le cose, e dà la capacità anche di soffrire per comporre l’unità nella diversità, senza nulla sopprimere, come invece fa la violenza. E l’uscita dalla barbarie che cos’altro è se non ritrovare il fondamento umano? Ma cosa è umano?  Come risolviamo l’amibiguità di male e bene, di miseria e grandezza, che è in tutti noi? Gandhi non è semplicista. Assume tutta la realtà, e lotta perché offesa, dolore, negazione, siano avvolte e risanate dall’azione che riconosce e costruisce. Non è forse una politica dell’amore, quella di Gandhi, se l’amore vuol dire rispetto, accoglienza e liberazione della vitalità in tutti?

In modi e misure diverse, le spiritualità e le religioni umane esprimono questa ricerca, tra limiti e contraddizioni. Ma tutte, nella visione di Gandhi e dei suoi discepoli, camminano su una pluralità di vie e unità di orizzonte. Che nessuna via offenda l’altra, ma, nell’apprendimento reciproco, nello stimolo della ricca e bella varietà, l’umanità cerchi la propria umanizzazione, uscendo dalla vergogna del disconoscerci e farci male. 

Ma come riconosciamo, in noi e negli altri, l’umano, ciò che è degno di rispetto, inviolabile, perché supera se stesso, tende oltre e alto? «All of our humanity is dependent upon recognizing the humanity in others», dice Desmond Tutu.

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