Bruciare l’Amazzonia, negare il cambiamento climatico, devastare la Siria, affamare lo Yemen, ignorare il Kashmir

Richard Falk

Lo sfondo con l’ordine mondiale

E’ sostenibile che anche prima che si gettasse la bomba atomica su Hiroshima ci fosse un senso diffuso che una forma stato-centrica di mondo fosse carente moralmente e funzionalmente in certi ambiti fondamentali. Gli attori politici erano indifferenti agli scoppi di guerre, malattie e carestia al di fuori dei propri territori sovrani e assenti gravi riverberi extraterritoriali. Al tempo stesso stati minori erano vulnerabili alle manipolazioni e alle ambizioni territoriali/imperiali di stati guida che generarono colonialismo, interventi, e sorressero l’europeizzazione sfruttatrice dell’ordine mondiale. La Prima Guerra Mondiale con le sue perdite massicce, seguita da presso dalla Rivoluzione russa, che poneva una sfida normative all’organizzazione di società nazionali indotta dal mercato/capitalismo, condussero a un certo annaspare verso un nuovo ordine globale che assunse la forma istituzionale della Lega delle Nazioni. Si rese ben presto ovvio che la Lega, progetto di idealisti, non era dotata delle capacità, l’indipendenza e l’autorità necessarie alla riuscita, e il suo fallimento nel recare pace al mondo non sorprese i capi politici dei paesi importanti e ancor meno i loro consiglieri realisti.

Poi giunse la Seconda Guerra Mondiale con 60 milioni di vittime stimate e il futuro gravemente minacciato dall’avvento dell’era nucleare, e si diffuse maggiormente il rendersi conto anche fra le classi politiche che era indispensabile una riforma globale se si doveva evitare la catastrofe. Le Nazioni Unite emersero in questa atmosfera d’urgenza, concepite per correggere le carenze della Lega pur riconoscendo e incorporando le realtà geopolitiche delle ineguaglianze fra stati quando si tratti di potere politico ed economico e d’influenza diplomatica. La predominante concezione occidentale nel 1945 era che per rendere l’ONU operativamente rilevante sarebbe stato necessario connettere la geopolitica allo statalismo in maniera vicendevolmente accettabile.  Quest’obiettivo dualista piuttosto incoerente fu reso operativo conferendo il diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e nello Statuto dell’Assemblea Generale che affermano l’uguaglianza giuridica di tutti i membri, grandi o piccoli stati sovrani che siano. C’erano anche preoccupazioni parallele nel 1945, così serie da comprendere l’impulso di conseguire la prevenzione della guerra. In Occidente si credeva diffusamente che fossero necessari efficaci meccanismi globali per evitare una nuova depressione, tradotti nell’istituzione della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e, più tardi, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che avevano anch’esse una doppia missione di regolare e promuovere le forze globali di mercato.

All’ONU mancava sufficiente indipendenza finanziaria ed autonomia politica per adempiere la promessa della visione idealistica del Preambolo allo Statuto ONU. Tale vision di prevenzione di guerra è stata bloccata geopoliticamente dal comportamento politico di static he godono del diritto di veto e giuridicamente dal primato accordato agli interessi nazionali di tuttii Membri. Il risultato, come evidenziato dalla mancata rimozione delle minacce degli armament atomici, del cambiamento climatico, e delle migrazioni globali, ha dimostrato l’incapacità ONU di proteggere o gli interessi globali o umani (cioè, di specie). In una tale atmosfera, la deriva verso la catastrofe continua, affrettata dall’ipernazionalismo, dall’evasione dalla realtà, dal negazionismo, e dalla mira esclusiva al breve termine.  Questa deriva è attualmente accelerate dell’ipernazionalismo degli stati leader, fra cui gli Stati Uniti, che prima offrivano qualche sostegno incidentale agli interessi globali e umani, espressione del loro approccio ibrido alla leadership globale, con motivazioni sia egoistiche sia benevolenti. Il che comportava perseguire una combinazione di obiettivi auto-magnificanti e di una visione relativamente illuminata e pragmatica del proprio ruolo di leader globale, talvolta detto ‘internazionalismo liberal’. Un tale approccio favoriva forme reciprocamente benefiche di cooperazione internazionale, diritti umani, ambientalismo, e soccorso nei disastri,  nonchè simultaneamente funzionali ad assecondare obiettivi geopolitici come se acquisiti con interventi, e una strumentalizzazione selettiva del diritto internazionale e dell’ONU, che ha voluto dire usare diritto e ONU quando a sostegno della propria politica estera, ignorandoli o contrastandoli invece quando d’ostruzione.

In effetti, la territorialità sovrana di tutti gli stati ha prevalso finora nell’organizzazione della vita internazionale in quanto gli interessi strategici, ideologici, (mega)aziendali e finanziari degli attori geopolitici non venivano seriamente minacciati e/o avversamente influenzati dagli sviluppi interni. Lo statuto ONU riconosceva questo all’articolo 2(7) proibendo all’Organizzazione d’intervenire in faccende ‘essenzialmente entro la giurisdizione nazionale’ degli stati Membri a meno che ne fossero toccate pace e sicurezza internazionale. In tale spirito, i temi ambientali non sono mai stati considerati sufficientemente fondati per interventi da parte ONU o di attori geopolitici. In quanto al diritto internazionale, l’intervento da parte di stati è proibito dalla normative vigente, benché esistano eccezioni opportunistiche e avvengano violazioni e interpretazioni geopolitiche della norma.  Esiste una dottrina dell’ ‘intervento umanitario’ e una norma che impone un ‘diritto a proteggere’ (R2P), ma nessuna pretesa o pratica associata a un intervento transnazionale ‘ambientale’ o ‘ecologico’, e nessuna norma formulata alla luce di un ‘diritto a proteggere l’umanità’. E così gli incendi in Brasile (e Africa) continuano, con una retorica di diffusa disapprovazione alle stele ma nessuna azione coercitiva neppure proposta aldilà di qualche espressione di riluttanza a cooperare economicamente o di tiepide raccomandazioni a boicottare certe esportazioni agricole. La reazione brasiliana ha prodotto esclamazioni di ‘sovranità nazionale’ e qualche rassicurazione cosmetica che la faccenda è sotto controllo, nonostante il perdurante imperversare di nubi di fumo così fitte da oscurare il sole a ben 1.700 miglia [2.700 km, ndt] di distanza, nella megalopoli di Sao Paulo. Finalmente, in omaggio nominale alle pressioni internazionali, Bolsonaro ha inviato 700 militari in aiuto ai pompieri in azione in Amazzonia, mossa che peraltro è parsa nominale e troppo tardiva per disfare il danno quotidianamente arrecato nelle aree forestali dagli incendi incontrastati.

Amazzonia, Siria, Yemen, e Kashmir

Quel che hanno in comune questi temi è l’incapacità del sistema globale d’autorità a risparmiare queste popolazioni nazionali dall’esperire una prolungata tragedia come risultato del comportamento criminale del governo territoriale e, in qualche caso, i suoi avversari insorti. E’ una deficienza centrale dell’ordine mondiale quale sistema di controllo politico valutato da una prospettiva umanistica, ed è rafforzato dalle manovre geopolitiche di stati leader. La volontà politica di agire efficacemente è plasmata da motivazioni nazionaliste e da ulteriori preoccupazioni materiali in quanto al territorio, ai mercati, alle risorse, e alle identità delle popolazioni, con la preoccupazione di evitare la sofferenza di massa alquanto confinata in una retorica rabbiosa o supplichevole. In effetti, i princìpi del diritto internazionale e l’autorità dell’ONU sono inefficaci a meno che sostenuti da una volontà politica o attivati da un movimento politico robusto. In quanto a Siria, Yemen, quei tragici avvenimenti hanno un impatto sulla società civile, mentre per il Kashmir, il ripudio indiano dell’autonomia Kashmiri minaccia una guerra fra due stati con armamento nucleare, e dà luogo a gravi tensioni stato/società.

I 2127 incendi in corso in Amazzoia sono differenti. L’Amazzonia in fiamme influenza il mondo ponendone a rischio la maggior foresta pluviale. E’ la più recente manifestazione d’insensibilità ecologica da parte di capi di paesi importanti, nel caso il Brasile. Insensibilità estrema non solo responsabile di enormi sofferenze umane da sfollamento e sconvolgimento, ma indebolisce anche il ciclo del carbonio e diminuisce la biodiversità. Le accresciute preoccupazioni per questi incendi sono collegate al 278% di deforestazione rispetto all’anno precedente, e a una dirigenza politica brasiliana che non nasconde la propria ostilità all’ambientalismo, incolpando i propri critici di attrarre l’attenzione su questi avvenimenti per screditare il governo Bolsonaro, un modo di screditare l’enfasi presunta giustificabile del Brasile sullo sviluppo economico e le opportunità d’investimento.

Il ministro all’Ambiente del Brasile, Ricardo Salles, ha cercato di dirottare la critica, attribuendo la marea d’incendi al tempo – cioè al vento e al calore – cioè, a cause naturali anziché alle politiche governative. Ha fatto notare, a ragione, che molti incendi erano sforzi annuali di allevatori di bestiame, agricoltori e taglialegna di sgombrare la propria terra, una pratica agricola consuetudinaria. Bolsonaro addirittura suggeriva che potessero essere ONG ambientaliste ad aver appiccato il fuoco per indurre misconsiderazione del governo, e opponendosi rabbiosamente ai tentativi del presidente francese, Emmanuel Macron, di internazionalizzare gli incendi amazzonici. Può esserci un elemento di verità in queste asserzioni difensive, ma mancano di trattare il vero danno ecologico inferto da questi incendi in zone forestali deliberatamente destinate a cedere spazio a campi di soia, bestiame e altro lucroso abbattimento di alberi.

Nonostante ‘la nebbia dell’ecocidio’, questo è chiaro. Le foreste pluviali d’Amazzonia, Africa sub-sahariana e Borneo/Indonesia sono risorse ecologiche indispensabili del pianeta, il cui controllo gestionale non dovrebbe esser lasciato del tutto alla discrezione nazionale come esercitata dai governi, sovente in base ad obiettivi economicisti e politici di breve termine, come attualmente quasi senza eccezioni. Tale approccio secondo una sovranità statalista non solo mette a rischio il maggior giacimento di carbonio e la più preziosa fonte di biodiversità del pianeta, ma sconvolge altresì la vita di 20 milioni o più di persone, perlopiù di comunità indigene amazzoniche. Esperti forestali ammoniscono che quando una foresta pluviale sia degradata oltre un certo livello, si ribalta un certo equilibrio per cui il degrado continuerà autonomamente fino a trasformare la foresta lussureggiante in vasta savana erbosa. Ancor prima del ribaltamento ci vogliono comunque decenni per recuperare gli ecosistemi forestali, comprensivi delle preziose risorse di biodiversità.

Questa dinamica di malagestione disastrosa viene accentuata riguardo all’Amazzonia dalla dirigenza brasiliana che ignora le suppliche delle comunità indigene e rivierasche, come delle associazioni ambientaliste in Brasile, e dell’ONU e della UE; questo allorché l’ecostabilità del pianeta dipende dalla messa a dimora di miliardi di alberi ogni anno; ed è ulteriormente messa in pericolo dalla deforestazione su larga scala che incide in profondità sulla popolazione di alberi che assorbono carbonio. Ovviamente, l’irresponsabilità ecologica è diventata per gli autocrati che ora governano il mondo la loro norma perverse di correttezza politica, sotto a guida dei negatori climatici a Washington che stanno ristabilendo norme retrograde per la politica ambientale statunitense durante la presidenza Trump. Se il paese più ricco al mondo è così irresponsabile da abbracciare il negazionismo climatico, da ritirarsi da accordi negoziali internazionali, e basarci su la propria politica, che cosa ci si può ragionevolmente aspettare da paesi più poveri sotto maggiore sfida economica e preoccupazione di sviluppo? La crisi dell’ordine monidale è reale, grave, in via d’intensificazione, e senza precedenti per scala e portata.

Esercizi legalistici di futilità

Uno dei più progressisti e persuasivi promotori contemporanei di un approccio all’ordine mondiale e di una politica estera USA  basati sul diritto è da qualche tempo quello di Marjorie Cohn, un’amica e anzi compagna. Che ha reagito agli incendi in Amazzonia in un articolo ben informato la cui tesi è espressa dal titolo: “L’ONU potrebe salvare l’Amazzonia con una semplice mossa” [Truthdig, 1 sett. 2019], facendo notare che il Consiglio di Sicurezza ONU può dichiarare gli incndi in Amazzonia una minaccia alla pace e sicurezza internazionali, e che il Brasile dovrebbe essere bersaglio di misure economiche punitive per costringerlo a politiche ambientali responsabili, come effettuato con successo nell’ambito del movimento globale anti-apartheid [V. risoluzioni del Cons.Sicur. 585, 586, 587 del 1985]. Cohn richiama anche l’attenzione agli articoli 25 e 49 dello Statuto ONU che impegnano gli stati membri ad attuare le decisioni del Consiglio di Sicurezza. La sua analisi è del tutto valida in quanto tale: esiste una struttura legale coerente nel sistema ONU utilizzabile per esercitare pressione illimitata sul Brasile ad agire in modo responsabile riguardo all’Amazzonia; le manca tuttavia un elemento vitale —la volontà politica dei principali attori geopolitici.

Sfugge sovente che non si è mai inteso che l’ONU offrisse al mondo un avallo incondizionato al governo globale del diritto. Per proprio carattere costituzionale, si stabile come istituzione che doveva destreggiarsi fra le esigenze di diritto e ordine globali compatibilmente con le priorità geopolitiche. Tale era la chiara funzione del diritto di veto attribuito ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Si sperava da parte idealista che l’alleanza anti-fascista del tempo di guerra sarebbe persistita in un mondo pacifico, specialmente dato che quello status speciale nell’Organizzazione era conferito solo ai cinque stati considerati i vincitori della 2^ guerra mondiale. Ma furono i realisti a plasmare la volontà degli attori geopolitici, allora e adesso, ed essi non avallarono mai per un attimo un sistema di sicurezza globale basato sul diritto e sui principi dello Statuto, che anzi deridevano.  Il consenso realista, associato con intellettuali orientati alla politica manovriera come Dean Acheson, George Kennan, Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, sapevano (credevano) invece che la sicurezza nazionale e globale si reggesse, come forse sempre era stato e sarà, su un equilibrio di meccanismi di potere, capacità militari, dirigenza pragmatica, e calcoli di interessi nazionali. Con la parziale eccezione di Kennan nessuna di tali figure del pantheon realista aveva il minimo interesse o rispetto per chi incoraggiava uno schema di politica globale riferendosi al benessere umano, alla giustizia globale, o alla sostenibilità ecologica.  Nella mescola globale attuale, solo la Francia, un peso leggero geopolitico, ha osato alzare la voce oltre il sussurro per sollecitare che le ripercussioni extraterritoriali degli incendi amazzonici giustificasse una reazione globale, ma perfino Macron è alquanto timido, basandosi sul discorso diplomatico, su offerte di assistenza economica, e le convocazioni per definizione politica della Comunità [sic] Europea e del G-7. E’ troppo legato al campo realista per incoraggiare d’affidarsi al diritto internazionale o all’ONU, e non fa neppur cenno al fatto che il governo francese preferirebbe un’azione punitiva. Perfino questo piccolo gesto francese di preoccupazione è troppo per Donald Trump che si lamenta che Bolsonaro non sia stato adeguatamente consultato mentre la politica interna brasiliana viene presa in considerazione.

E’ forse vero che l’ONU potrebbe salvare l’Amazzonia se ne esistesse la volontà politica, ma non esiste, il che purtroppo vuol dire che l’ONU è irrilevante, cosa ancor più vera che nel passato, dato l’umore ultra-nazionale ora prevalente fra gli attori geopolitici. Potremmo domandare che cosa avrebbero fatto di differente Obama o Carter. Probabilmente non molto senza un robusto movimento della società civile globale che avesse chiesto esso stesso cambiamento e misure drastiche. Si dovrebbe rammentare che l’ONU si affiancò alla campagna anti-apartheid degli anni 1980, anziché iniziarlo, e che gli attori geopolitici in Occidente vi si adeguarono con riluttanza, non per la loro antipatia per il razzismo, ma per l’agitazione di base nelle proprie società. A questo proposito, si dovrebbe ricordare che USA e GranBretagna espressero il veto agli appelli ONU perché le misure economiche obbligatorie venissero tolte solo quando il SudAfrica acconsentisse ad abbandonare l’apartheid, e si astennero su alter risoluzioni. [V. il NYTimes del 27 luglio 1945]

Qual è la domanda?

Secondo me, la crisi dell’Amazzonia in Fiamme ci rende più consapevoli delle deficienze strutturali dell’ordine mondiale esistito fin da quando gli stati sovrani pretesero autorità su tutte le terre emerse del pianeta come allocate alle autorità governative mediante il dispositivo dei confini internazionalmente riconosciuti, benché le problematiche ambientali ed ecologiche sollevate fossero ampiamente contenibili entro schemi nazionali, regionali, e addirittura globali (ivi comprese le guerre mondiali). Questo approccio all’allocazione territoriale di autorità e responsabilità è integrato da un approccio molto permissivo agli oceani del mondo in termini di libertà di tutti gli stati di farne un uso quasi illimitato, comprese le manovre navali, con procedure minime di rendicontazione in assenza di accordi specifici (come esistono, ad esempio, sotto forma di divieti su gran parte della caccia alle balene, e molte altre faccende d’i comune interesse). Forse, il più indifendibile uso degli oceani avvenne nei decenni dopo la 2^ guerra mondiale quando si collaudarono su vasta scala in alto mare massicce dosi di esplosivi nucleari destinati a diventare testate di armi, emettendo radiazioni causa di malattia e morte, specialmente fra gli isolani vicini. Eppure, a parte le proteste della società civile, nulla fu fatto dall’ONU o altrove, senza dubbio in parte perché il colpevole principale era il primo attore geopolitico. Solo dopo una protesta della società civile a livello mondiale, i governi reagirono negoziando il Limited Test Ban [bando limitato dei test], peraltro mai del tutto attuato.

Con l’uso delle bombe atomiche nel 1945, e il loro successive sviluppo e diffusione, anche la stabilità fondamentale dell’ordine statualista—noto pure come ordine mondiale Westfalico—cominciò a sfilacciarsi. Con l’accumulo di gas a effetto serra e il declino della biodiversità, quel processo ha assunto una dinamica autonoma che, se non contenuta e contrastata, significa chiara fine per la specie umana e molto del suo habitat naturale.

Sappiamo che questa crisi ecologica bio-etica non può essere superata da appelli al diritto internazionale e a un ethos di responsabilità internazionale. Sappiamo anche che l’ONU e le organizzazioni regionali mancano della capacità o autorità di superare le deliberazioni sovrane di stati dediti a massimizzare gli interessi nazionali, venendo particolarmente inibite dagli attori geo-politici che hanno l’autorità per bloccare le decisioni nel Consiglio di Sicurezza. Siamo anche divenuti consci che queste caratteristiche essenzialmente strutturali dell’ordine mondiale esercitano un’influenza negative supplementare risultante dai fallimenti della dirigenza globale nel mitigare le deficienze nell’ordine mondiale agendo in certa misura nell’interesse globale o nel reagire empaticamente ai popoli vittimizzati dall’oppressione interna.

In un periodo precedente, questo elemento strutturale supplementare associato alla dirigenza globale aveva contribuito a generare disposizioni benefiche quali l’ordine pubblico sugli oceani e l’  Antartide e più recentemente l’Accordo di Parigi del 2015 sul Riscaldamento Globale e l’Accordo Nucleare per l’Iran. Sarebbe uno sbaglio esagerare il contributo della dirigenza globale, o trascurare i suoi impatti negativi, che hanno sempre accordato la massima priorità alle preoccupazioni geopolitiche, mancando di liberare il mondo dall’armamento nucleare e dal colonialismo, e non riuscendo a stabilire un esempio positivo mostrando rispetto per il diritto internazionale e l’ONU.

I tentativi di superare queste deficienze sono una caratteristica delle iniziative riformiste e delle proposte trasformative fin dalla fine della 2^ guerra mondiale. Una iniziativa drammatica ebbe luogo con la formazione del Movimento dei Non-Allineati come risultato indotto della Conferenza di Bandung nel 1955. Riflettendo priorità di sviluppo e un ingenuo senso post-coloniale di coscienza etica globale, la configurazione terzomondiale degli attori statuali non-occidentali propose un’ampia piattaforma sotto la rubrica del Nuovo Ordine Economico Internazionale. E più recentemente l’a Convenzione Internazionale ONU sulla Proibizione delle Armi Nucleari ha messo in risalto sia le preoccupazioni degli stati con armamento non-nucleare e la deprimente irresponsabile ripulsa a controbilanciamento degli attori geopolitici occidentali determinati a mantenere il nuclearismo.

In effetti, superare le deficienze dell’ordine mondiale non è riuscito quando intrapreso dai governi o sotto l’egida dell’ONU. Le iniziative riformiste sostenute dagli attori geopolitici sono andate un po’ meglio grazie alla loro influenza nella definizione delle politiche, ma non cercano cambiamenti incoerenti con i propri interessi geopolitici a breve termine. Da qui il mancato concretizzarsi della visione di un mondo senza armamenti nucleari, di regolamenti regionali come livello reattivo al consenso fra i climatologi, e di affrontare una lunga lista di problemi extraterritoriali che sarebbero trattati diversamente se approcciati con prospettive di interessi globali anziché nazionali.

Ciò che ne viene suggerito è la dipendenza del benessere umano dall’emergere di un movimento transnazionale di attivisti che esiga riforme strutturali fondamentali all’ordine mondiale, miranti a una risoluzione favorevole della crisi bioetica. Se pare utopico, si ha decisamente ragione a reagire come se non ci fosse un percorso plausibile da qui a là. Eppure credo che sia più illuminante insistere che attivare l’immaginazione utopica sia la sola fonte di un realismo trasformato che sia sensibile alle sfide e opportunità specifiche del 21° secolo. Aderire alle premesse del realismo del 20° secolo è sempre più una ricetta per il disastro, come la tragedia dell’Amazzonia in Fiamme illustra una metafora del perdere la lotta per salvare la vita, la salute e la sanità mentale sul pianeta Terra. E se Yemen, Siria, e Kashmir non minacciano la sua vitalità materiale, non affrontare questi assalti massicci alla dignità e ai diritti umani ostenta l’impoverimento spiritual dell’ordine mondiale.


TRANSCEND MEMBERS, 9 Sep 2019 | Richard Falk | Global Justice in the 21st Century – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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