Sommersi e salvati | Alessandro Ciquera

Qualcuno ha mai sentito il tonfo sordo di un colpo, sferrato sul corpo di un uomo inerme?. 

Esso assomiglia a qualcosa che sbatte forte contro una superficie, nell’immediato si percepisce anche un gemito flebile, l’aria che lotta per uscire dai polmoni contratti, la bocca che gorgheggia. 

Il corpo percepisce una pausa, breve quanto basta per accendere una flebile speranza che la botta ricevuta fosse l’ultima, poi i secondi passano e ne giunge un’altra più forte, che scaglia a terra chi ha subito il trauma.

Come un’altalena, dove dolore e abusi si sovrappongono gli uni sugli altri. L’unica assente è l’umanità.

Arriva la mano sollevata, affonda, ricarica con maggiore enfasi, e scarica nuovamente.

Tutto gira intorno ai miei occhi: le pareti bianche con macchie di sporco qua e là, i calendari appesi, un computer con lo schermo scuro sulla scrivania, le finestre con la plastica nera per impedire la visuale all’interno. Percepisco ogni atomo intorno a me, il battito delle mani sulla tastiera, lo sguardo fisso, pare senza anima, del militare seduto a scrivere. Sembra non accorgersi di quello che sta succedendo nella stanza a fianco alla nostra, dove un uomo ammanettato e bendato sta venendo interrogato da un suo collega. 

Improvvisamente rialza lo sguardo su di me, cerca una smorfia di sorriso e prepara la domanda successiva: “Cosa hai studiato in Italia?”. 

Rispondo in arabo e nel frattempo, all’ufficio a fianco, un altro colpo sordo e dal rumore crudele arriva sul corpo inerme, questa volta la vittima prova a reagire, urla, piange, implora, sembra ripetere di non sapere niente di più. 

Non saprei come definire il suono della disperazione, ma potrei visualizzarlo come un verso stridulo, che sale dalla gola e si perde nell’aria circostante.

L’inferno di una vittima, è quando l’ultima supplica viene lasciata senza risposta, ignorata. 

Quando ti rendi conto che quella porta, per qualcuno, non si aprirà, l’aria fresca sul volto rimane ancora un desiderio lontano.

“Che genere di attività svolgete qui in Libano?”, la penna blu ruota elegante sul modulo informativo del direttorato dei Servizi segreti militari di Tripoli, dove ci troviamo da diverse ore, impossibilitati a sapere da quante con certezza; a causa della requisizione dell’orologio a tutti, oltre che di ogni effetto personale.

Nel corridoio fuori dalla stanza dove ci troviamo scorrono uomini diversi, eppure tutti con qualcosa di simile addosso; a breve mi rendo conto di cosa me li fa sembrare tutti uguali: la deumanizzazione in corso. 

Lo sfilare pezzo per pezzo la dignità da ognuno di loro, farli sentire inutili, non ricercati da nessuno, falliti e abbandonati. 

Iniziano dalla cella all’ingresso di questa struttura nel quartiere di Kobbe, con tre panche di legno e decine di persone che aspettano di essere chiamati per l’interrogatorio dentro gli uffici. Sono già stati umiliati, gli viene ordinato di stare in silenzio, incrociare lo sguardo può sembrare una provocazione. 

La maggioranza sono siriani, li riconosci dai vestiti semplici e sporchi dal lavoro, o dalle tute della Adidas, o dalle t-shirt logorate, i più anziani hanno il vestito tradizionale arabo. Nessuno sorride, tutti hanno lo sguardo terrorizzato, come in attesa del colpo successivo: non è questione di se ma di quando. 

La tua storia non conta più nulla, non importa il tuo nome, che musica ascolti, che cibo ti piace, il colore preferito dei vestiti che solitamente indossi. 

In questo universo a parte, conta solo che sei uno dei tanti fermati ai posto di blocco dell’esercito libanese, in tutta la regione. 

Dentro i fermati vengono allineati in corridoio, faccia al muro e sguardo basso, occhi bendati, paiono fantasmi alla ricerca di un senso. 

Mi chiedo, in fondo allo spazio del cuore, chi siete?. 

Gli insulti non si contano più: “Siete solo degli animali”. 

I nuovi arrivati vengono divisi negli uffici e gli vengono poste domande sulla loro vita, a ogni domanda il militare dell’ufficio a fianco a quello dove ci troviamo anticipa la parola “animale”.

“Dimmi animale sei sposato?”.

“Animale dove vivi qui in Libano?”.

“Dimmi che lavoro fai animale”. Insoddisfatto delle risposte l’interrogante insulta la sorella dell’uomo, sua madre e suo padre, gli dice qualcosa sulla Siria.

Torno con lo sguardo sul militare davanti a me, sembra davvero in un mondo a parte, dove non si accorge di nulla.

“Hai simpatie politiche di qualche tipo?”. 

Nella stanza a fianco sento singhiozzare e gemere, spezza l’aria tanto è forte il dolore. Poi il rumore di qualcosa sbattuto violentemente contro il muro. Nuove urla di insoddisfazione di chi pone le domande, urla in risposta di chi dovrebbe rispondere ma non sa più cosa dire, e viene lasciato a terra. 

Porte che sbattono in continuazione.

La domanda la sento salire da dentro, e scelgo di non fermarla perché è la voce della dignità: “Qui vengono picchiate le persone?”, e subito dopo: “Qui è lo Stato, perché lo Stato picchia le persone?”. 

Il militare, di fronte al mio sguardo, sembra per una frazione di secondo essere toccato da qualcosa, o forse è una mia impressione, sgrana gli occhi e mi risponde: “Non ci sono problemi, quello lì è malato”. 

“Malato?”.

“Sì”.

Poi riabbassa lo sguardo e continua a scrivere, mentre rumori soffocati e indistinti riempiono il vuoto fra le nostre sue esistenze.

Da ore non possiamo comunicare con l’esterno, non abbiamo più i telefoni, non sappiamo come avvisare amici e conoscenti: tutto viene rimandato ad un imprecisato momento della “liberazione”.

I tre figli della famiglia con cui siamo detenuti vedono e ascoltano tutto quello che succede, provano a incasellarlo nella loro piccola mente ma non ci riescono; è troppo anche per la mente pura di un piccolo essere umano. Hanno un attacco di diarrea in due, e se la fanno addosso letteralmente.

Sento un fremito di rabbia, non avrebbero dovuto portarli qui, lo abbiamo fatto presente al graduato del posto di blocco, ma ci è stato detto: “Non preoccuparti, nessuno li toccherà”. 

Ma l’anima che gli stanno ferendo a colpi di odio, chi gliela ricucirà?. 

Il flusso di fantasmi arrestati continua incurante della nostra presenza, follemente incolonnati, faccia al muro, legati e incappucciati. 

Incappucciati come l’uomo in piedi davanti al bagno, fermo lì da ore, chissà se lo hanno dimenticato.

Gli interrogatori vanno avanti, gli abusi anche, si ha l’impressione che tutto questo faccia parte di qualcosa di sistematico e organizzato, non di qualche mela marcia di troppo. 

Il nostro viaggio nelle profondità delle violenze umane va avanti un giorno intero; il mattino successivo, grazie a molte mediazioni, ci convocano per restituirci i passaporti nell’ufficio del comandante della struttura. La sua stanza è in una altra ala rispetto a quella degli interrogatori. Ci accoglie con una camicia azzurrina, alla parete diplomi scritti in francese, fotografie di un signore anziano in divisa e foto del presidente della repubblica. Difficile non notare quanto stoni, dagli uffici dove siamo passati prima e dal loro carico di sofferenze e pestaggi quotidiani. 

A volte è dove c’è più luce che le ombre si fanno più profonde.

Chiedo a un giovane militare al gabbiotto di uscita se gli piace fare questo lavoro, mi risponde mestamente: “A volte bisogna fare quello che si deve per vivere, non quello che si vuole”. 

Non so chi sia più in pericolo di distruzione interiore in questo contesto, se chi detiene o chi è detenuto. 

Ho cercato di non farmi annichilire e spero che una traccia di ciò sia rimasta.

Ora sento la pioggia cadere e l’aria umida bagnarmi il volto, e penso alle file di siriani e non, fermati e tirati su ai posti di blocco che iniziano un nuovo calvario stanotte. 

Come una ruota infernale che gira, e che nessuno ha realmente intenzione di fermare. 

Il pensiero corre veloce ai tanti soli, dimenticati, scaricati dentro luoghi privi di luce e di moralità.

Il potere del forte sul debole è una delle leggi più antiche dell’universo, così come lo è quella della solidarietà e della collaborazione tra umani. 

Sta a noi scegliere a quale delle due ubbidire.

“Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve”. (Primo Levi – Se questo è un uomo) 

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. (Primo Levi dall’appendice all’edizione scolastica, 1976)


Brano del Novembre 2017 in Libano

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