«Venezuela…? Non sono mai stata in un posto dove la gente avesse così tanta voglia di parlare»

Marinella Correggia, Olivier Turquet

 Olivier Turquet intervista Marinella Correggia

Con tutte le sanzioni che hanno comminato in giro è passato sotto silenzio che gli Usa in questi giorni hanno reso ancora più stringenti le sanzioni economiche unilaterali al Venezuela (illegali per il diritto internazionale). Chi ne vuole sapere di più può consultare il sito della Mision Verdad). Marinella Correggia è partita a Febbraio per il Venezuela per svolgere a modo suo la sua attività di giornalista indipendente e di persona desiderosa di comprendere la situazione di quel paese, magari senza paraocchi. Ha passato i suoi 45 giorni da quelle parti girando il paese e mandando reportage a varie testate.

(Foto di Marinella Correggia)

Marinella, come è nata questa tua idea? Perché sei andata?

Ho cominciato a interessarmi di Venezuela venti anni fa, con l’elezione di Hugo Chavez, e soprattutto dal 2002, con il colpo di Stato fallito grazie alla sollevazione dei venezuelani. Che cosa si poteva fare per sostenere a distanza quel processo, oltre a scriverne attingendo alle molte fonti venezuelane e latinoamericane disponibili allora come ora? In una prima fase, fino a poco prima la morte di Chavez nel 2013, mi pareva che il Venezuela non avesse bisogno di alcun appoggio da parte di militanti esterni; semmai, si trattava cercare di far sapere in Italia quel che di interessante avveniva. Così curai con Claudia Fanti L’Alba dell’avvenire, un libro sull’Alleanza Alba, un’esperienza di aggregazione internazionale che tuttora ritengono un modello. Poi arrivò la guerra della Nato alla Libia e il Venezuela di Chavez, con gli altri paesi dell’Alba e l’appoggio di Fidel Castro, avanzò per tempo la proposta negoziale più interessante e saggia, che avrebbe evitato le bombe. Niente. Non furono ascoltati, nei paesi della Nato. Nemmeno dalla sinistra occidentale presuntuosa che pure inneggiava a Chavez e usufruiva degli inviti laggiù. Fu ignorato. Va detto che ho visto anche a Ginevra, al Consiglio dei diritti umani, il coraggio della missione venezuelana nel contestare risoluzioni proposte da paesi bellicosi (il blocco Nato-Golfo)? Come non essere grati a un simile coraggio?

Non per niente, nel 2014, un anno dopo la morte del presidente venezuelano – il 5 marzo 2013, mentre mi stavo recando a Ginevra come pacifista – scrissi un libro, El presidente de la paz (è in italiano e in spagnolo) sulla sua politica internazionale e innovativa, diviso in tre parti: resistenza contro l’imperialismo bellico, solidarietà Sud-Sud, ecosocialismo (non compiuto). Nel frattempo la situazione in Venezuela era cambiata, era subentrata la crisi economica e l’opposizione interna con l’appoggio statunitense aveva avviato proteste violente e provocazioni, avvalendosi della manipolazione dell’informazione. A quel punto sarebbe stato utile dare una mano come attivisti, e ci si è provato un varie forme, dalle manifestazioni di sostegno alla diffusione di informazioni veritiere, ma il mondo dell’internazionalismo è così diviso e ringhioso in Italia…

E arriviamo al 2019. L’oppositore Guaidò si autoproclama presidente del Venezuela, e invece di essere sepolto con risate, molti governi lo riconoscono. A febbraio sembra proprio che si sia lì lì per un altro colpo di Stato. Allora, come è accaduto altre volte in caso di aggressioni occidentali a questo o quel paese, decido di voler stare da quella parte, anche fisicamente. Compro un biglietto aereo (aerei, da usare con molta parsimonia visto il loro impatto sul clima), approfitto della casa di un amico italiano a Caracas, approfitto anche del mio lavoro a cottimo che mi permette di assentarmi, e trascorro 45 giorni camminando in Venezuela.

Come si svolgevano le tue giornate?

Siccome nel frattempo le minacce di invasione per procura erano rientrate, e siccome era il mio primo viaggio nel paese, ho voluto focalizzarmi su quanto di economia ecosocialista si stia costruendo, dalla base, in un paese purtroppo petrolifero da cento anni. Insomma sono andata a caccia – in modo autogestito perché i contatti che avevo erano pochi – di esperienze rosso-verdi, di giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Purtroppo qui se ne sa poco o niente. Ho incontrato molte persone e realtà – in genere da sola, camminando o circolando con i mezzi pubblici. Attivisti delle comunas (realtà di base organizzate e possibilmente produttive) ed economisti. Coltivatori che cercano di aumentare l’autosufficienza e la sovranità alimentare nel paese, e gruppi di famiglie organizzate per l’autocostruzione di case (perfino di terra cruda) su terreni abbandonati. Consigli dei Clap (sta per Comitati locali di approvvigionamento e produzione) che distribuiscono pacchi di alimenti fortemente sovvenzionati a tutti gli abitanti del loro palazzo o area. Pomeriggi nel Centro saperi africani ad ascoltare relazioni su Africa e colonialismo e capannelli politici a piazza Bolivar sulla politica bellica statunitense. Seminari sulle “lezioni che abbiamo imparato dai giorni di blackout” e donne che parlavano del solare a Cuba che andrebbe copiato. Manifestanti in marcia antimperialista ogni sabato e nutrizionisti di strada. Code per strada per ottenere in forma gratuita i farmaci essenziali agli sportelli Farmapatria e lamentele di una donna nell’ospedale pubblico Vargas per la difficoltà di essere curati (del resto le importazioni di farmaci e materiale medico soffrono per le sanzioni finanziarie). Laboratori che finalmente riparavano i computer dati ai ragazzi nelle scuole; non sono più i tempi delle vacche grasse (ecologicamente parlando diremmo: menomale). Donne esperte di erbe curative e adepti dell’agricoltura urbana. Docenti che fanno parte del movimento degli inventori e innovatori e stranieri da lungo tempo residenti là. Abitanti delle case della Mision Vivienda (milioni di alloggi costruiti o riparati dal 2011 in tutto il Venezuela) e viceministri alla mano che incontri per strada. Studenti curiosi delle guerre del mondo e loro insegnanti che erano anche giornalisti radiofonici. Lavoratori dell’impresa siderurgica in stand-by e unità di trasformazione della farina di mais (per fare la tipica focaccina chiamata arepa) che non si sono fermati nemmeno quando alla fine di aprile si è rimaterializzata una minaccia di golpe (ero già ripartita ma l’ho saputo da un video di Alba Tv che fa un ottimo lavoro nell’individuare esperienze di base, e anche situazioni da risolvere, come i conflitti per la terra che ancora oppongono gruppi di agricoltori a imprese private).

Nei primi giorni ho partecipato a Caracas all’Assemblea dei popoli, uno dei tanti (troppi?) eventi internazionali che il Venezuela continua a ospitare facendosi assurdamente carico dei voli aerei di diversi occidentali (se si pensa che un europeo dal magro reddito guadagna comunque in euro almeno cento volte più di un venezuelano, viste !) e i suoi quartieri popolari, poi lo Stato di Lara e la città di Barquisimeto, poi all’università sperimentale Gallego a San Juan de los Morros nel Guarico.

Certo, aleggiano su tutto le minacce militari esterne e soprattutto la guerra economica a colpi di sanzioni. Secondo il recentissimo rapporto Economic Sanctions as Collective Punishment: The Case of Venezuela diffuso alla fine di aprile 2019 e redatto dagli economisti statunitensi Jeffrey Sachs e Max Weisbrot (cepr.net), nel Paese latinoamericano sarebbero morte 40mila persone per mancanza di medicine salvavita a causa delle 150 misure coercitive unilaterali adottate da Washington a partire dal 2017, con il pretesto che il Venezuela sarebbe un “pericolo per la sicurezza nazionale statunitense”.

Qualche aneddoto da raccontare?

Sarebbero tantissimi. Partiamo dal cibo. Ho camminato molto e non è una novità ma ho mangiato poco (novità!): praticamente ogni giorno mi limitavo a un chilo di banane, più qualche guava o una papaya, un po’ di pane di yucca (buonissimo e molto più economico dei filoncini francesi per i quali in tanti facevano la coda), e due caffè, il tutto trovato per strada, fuori dai negozi. Ottimo il succo con zucchero scuro locale, limone e acqua (quella del rubinetto non mi ha dato problemi), allora che cavolo hanno in testa i giornalisti che vanno lì e poi dicono: “con un salario mensile i venezuelani possono comprarsi solo una bottiglia d’acqua”? Non ne hanno bisogno, al più fanno bollire l’acqua.

Comunque mangiare poco è stata una (salutare) scelta, non una necessità economica: per chi ha euro, lì il cibo vegetale costa pochissimo, ma ho preferito evitare tutto quello che a causa dell’iperinflazione era troppo caro per la popolazione; niente biscottini, niente pane o dolci. Va detto che grazie al pacco Clap che contiene farine, lenticchie, oli a prezzo bassissimo grazie ai sussidi statali, le famiglie hanno disponibile uno zoccolo alimentare di base. Io non attingevo a quello della casa per non gravare.

Osservazione importante: in Venezuela fra gli impatti positivi della crisi economica – troppo lungo dilungarmi sulle sue cause – non c’è solo lo sforzo per produrre più alimenti, in un paese ricco di potenzialità; c’è anche che il cibo spazzatura adesso è fuori portata per i venezuelani! Insomma, schifezze tipo bibite gassate, merendine e hamburger, pane bianco, alimenti industriali iper trasformati e confezionati, sono gestiti dal privato senza sussidi al consumo e quindi costosissimi! Per dire: una sola chupeta (un lecca lecca) costava quanto un intero pacco mensile del Clap!

Quindi, se da un lato la crisi economica molto aggravata dalle sanzioni ha causato presso una parte della popolazione una ridotta assunzione di micronutrienti, d’altro canto però si ingurgitano molti meno veleni. In giro ho visto molti venezuelani sovrappeso, ma l’Istituto per la nutrizione mi ha detto che sono calati – anche se non hanno statistiche precise. Suggerisco questo reportage: http://altreconomia.it/reportage-venezuela-resistenza-alimentare/

Altri aneddoti? Penso agli infiniti incontri di strada, casuali e pregnanti. Il posto sotto il cavalcavia dove ogni sera tornando a casa trovavo, invece di persone senzatetto, i giocatori di scacchi seduti ai tavolini: qualcosa di molto normale là, ma non per noi! Invece la mattina presto, le chiacchierate politiche con il signor Luis, uno dei tanti lavoratori del settore informale: un venditore di caffè – insieme a sua moglie – all’angolo fra Avenida de la universidad e Avenida de las fuerzas armadas dove abitavo. Quanti scambi sul mondo, intorno quel tavolinetto con tre sgabelli. La prima volta mi sono fermata per caso, poi sono andata sempre da loro e non solo perché erano gli unici in tutta Caracas a offrire il caffè in tazzine durevoli lavabili anziché nei monouso, e perché non aumentavano il prezzo a discrezione, ma anche perché il signor Luis – che non usa Internet ma legge molto – mi accoglieva con le notizie internazionali della tivù e quelle che aveva appena letto sul quotidiano Correo del Orinoco, il più economico perché statale.

A proposito: nel Venezuela di oggi, sulla base di quanto ho sperimentato, tutto quello che è in qualche modo statale o prodotto dalle comunas è economico perché sovvenzionato. Tutto quello che viene dai privati è molto caro. Una regola quasi ferrea direi, e non riguarda solo merci inutili delle quali si può fare a meno anzi è meglio: come le tantissime salse, cibi chic e bevande di alta gamma che ho visto aspettare invano clienti in un supermercato dalle parti del ricco quartiere Altamira (un amico mi ha detto: “Guarda, questa bustona di crocchette per cani costa 30.000 bolivar, è il mio stipendio di docente”). Così vai gratis in metropolitana ma ti succede che non osi fare fotocopie perché carta e inchiostro costano quanto in Italia. E succedono cose paradossali come il fatto che il pieno non costa niente (davvero niente: riempiono il serbatoio e pagano due bolivar che adesso in euro sono 0,000qualcosa; è una delle storture dei paesi petroliferi), ma se ti si rompe qualche pezzetto, la macchina la lasci ferma perché il ricambio di importazione, con la svalutazione ti costerebbe infinitamente.

Altra particolarità. In Venezuela, nessuno gira per strada, sui mezzi, nei luoghi pubblici consultando lo smartphone. Chi per timore di furti, chi perché un cellulare moderno costa troppo per le tasche venezuelane di adesso. Risultato? Ci si guarda intorno! Si guarda il mondo. Si parla, magari di politica internazionale. Si osservano gli altri. Davvero, otro mundo. Ma temo che passata la crisi, anche lì cambierà tutto.

Hai mai percepito di essere controllata o qualcosa che corrispondesse all’immagine di una “dittatura” così come la descrivono alcuni media qua?

No! Il punto esclamativo è necessario. Nemmeno un po’. E posso dirlo a ragion veduta perché essendo andata in Venezuela per conto mio, non ho avuto accompagnatori governativi o simili. Andavo in giro da sola. Dappertutto.

E non sono mai stata in un posto dove la gente avesse tanta voglia di parlare, con un’estranea che poteva essere chiunque. Anche quelli che criticavano le scelte economiche del governo, ti tenevano lungamente a chiacchierare. I contatti umani, per strada, al mercato come sui mezzi di trasporto pubblici, sono continui.

Chi parla di dittatura in Venezuela, ha idea di che faccia abbia una dittatura? Se faccio il confronto con l’Italia, trovo che qui ci sia molta più reticenza da parte delle persone. Oltre al fatto che sono tutte assorbite dallo smartphone.

Mi si dirà: e come mai non hai incrociato gli oppositori? E invece sì. A parte chi si lamentava della situazione economica (anche chavisti), ho incrociato anche piccole manifestazioni di oppositori. Che puntavano anch’essi sull’emergenza acqua (legata ai blackout) e sull’inflazione.

C’è molta partecipazione? Mobilitazione popolare?

Sì. incredibile e, decisamente, la capacità di mobilitarsi, partecipare, fare insieme è fra i punti di forza dei venezuelani. T’immagini a Roma ogni sabato pomeriggio per mesi e mesi una manifestazione con centinaia di migliaia di persone, anche mentre manca l’elettricità e c’è da procurarsi l’acqua? No, non sarebbe possibile. Lì sì. Fra febbraio e aprile non ho mancato un sabato neanche io, e quelle persone con i cappellini rossi, ferme sotto il sole ad aspettare che il corteo chilometrico si snodasse (io aspettavo all’ombra di un albero), mi hanno fatto riflettere.

Anche le esperienze di giorni con il blackout (ne ho vissute varie, in diverse città, a partire dal 7 marzo fino alla partenza) sono state utili a capire. Niente elettricità, niente pompe che pompano l’acqua. Ci si doveva tutti attrezzare per andare a cercare acqua, in macchina chi l’aveva, fino alle fonti, e a piedi con le taniche ai punti di distribuzione “istituzionali” o improvvisati (falsissimo che le persone andassero a pescare acqua nell’inquinato rio Guaire). Ebbene, si respirava uno spirito di collaborazione e di resilienza davvero incoraggiante. E invidiabile. Che succederebbe in una città italiana in tre giorni di blackout continuo e totale? Invece là, che succede nel metrò se viene un blackout? Non mi è mai successo in quei giorni (anche perché dopo il primo blackout, la metropolitana era molto spesso chiusa per precauzione) , ma ho chiesto e mi è stato risposto: “Eh… gli addetti aiutano le persone a seguire la galleria con le luci del cellulare, ed escono tutti”.

Qui arriva spesso l’immagine di un paese pieno di violenza, è l’immagine reale, è quello che hai percepito tu?

Gli unici viaggi fuori dall’Europa che ho fatto sono stati in contesti difficili, o addirittura bellici (Iraq, Libia, Afghanistan, Siria, Jugoslavia…). Quindi in Venezuela mi sembrava tutto tranquillissimo. Situazioni e persone. Eppure, malgrado me lo sconsigliassero gli stessi venezuelani, mi sono addentrata da sola e camminando in diversi barrios o quartieri ritenuti più che problematici, a Caracas. Non mi è successo nulla. Dipende certo da come sei vestito, ma anche da come ti muovi. Non voglio dire che si debba sfidare la sorte, né fare la vispa Teresa, ma non ho mai avuto la percezione di alcun rischio, almeno non dove c’erano persone intorno. Tanto che mi sono parse sorprendenti le statistiche secondo le quali da sempre il Venezuela registra alti tassi di violenza, omicidi, furti, rapine…

Faccio ancora un esempio. In uno degli ultimi giorni a Caracas, ero appena tornata dal quartiere San Agustin, il quale dal centro si raggiunge con una bella funivia inaugurata dal presidente Chavez (i cui occhi stilizzati sono dappertutto e il cui spirito anche; “Il riferimento è Chavez” mi ha detto un giornalista). Ebbene ero da poco scesa dalla funivia e stavo camminando dalle parti della metro Hoyada quando, nel tardo pomeriggio, già con le luci accese dei negozi e per strada,

Cosa possiamo fare noi, qua, perché la situazione del popolo venezuelano migliori?

Hai una domanda di riserva?… Certo, informare, in particolare sull’effetto delle asfissianti sanzioni economiche statunitensi sempre più stringenti. Il mondo dovrebbe boicottarle. Credo comunque che sul lato della resistenza agli attacchi esterni e interni, la parte principale del lavoro la stiano facendo i venezuelani. A livello di base non possiamo incidere più d tanto sulle scelte dei nostri governi. Abbiamo invece molto da fare nello scambio di “ricette per un’altra economia”, per un altro modello di produzione e consumo, per una maggiore indipendenza e resilienza e via dicendo. E su quello, anche in Italia a livello di base c’è molto. E questi scambi, si possono fare anche semplicemente scambiando con partner venezuelani piccoli video e articoli sulle reciproche esperienze interessanti.

Fonte: Pressenza Italia, 07.08.2019 – Olivier Turquet


 

1 commento
  1. Anna Spadoni
    Anna Spadoni dice:

    Beh, amo mi tierra ma a mio padre gli hanno puntato tre volte la pistola prima che decidesse di tornare definitivamente in Italia. Sono nata e cresciuta in Venezuela e se una cosa non si può dire è che sia un paese tranquillo. La delinquenza è stata sempre un grande problema purtroppo

    Rispondi

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