La metamorfosi di una combattente in peacebuilder | Sawssan Abou-Zahr

La storia che state per leggere è su conflitto armato e genere, ideologie e l’affare della guerra, autocritica e guarigione, peacebuilding e istruzione. È la storia di una donna passata da combattente a lottatrice per la pace. Una storia che prova quanto sia facile essere catturati da giovani nel labirinto della guerra e quanto sia difficile disintossicarsene.

“Pratico la nonviolenza e credo nel potere del peacebuilding. Voglio vivere in pace e aiutare i/le giovani a fare altrettanto. Racconto la mia storia sperando di catalizzare un cambiamento”.

Salwa Saad è un’educatrice libanese in pensione. Invece di riposare, coglie ogni occasione possibile per promuovere il ruolo delle donne nell’educazione alla pace e nel peacebuilding come pure a convincere giovani vulnerabili a non cadere in discorsi settari che finiscono in conflitto armato.

“Mi ripugna uccidere” mi ha detto quando ho iniziato l’intervista con una domanda forse brusca – se fosse stata coinvolta direttamente in qualche uccisione; al che rispose: “Non ho ucciso. Qualcosa dentro di me me l’ha impedito benché fossi capace a sparare come chiunque altro… Alcune combattenti femmina erano famose come le loro controparti maschili, e non mostrano tuttora alcun rimorso… In quanto a me, ci ho pianto per anni”. E aggiunse: “Diventando combattenti, cancellammo i diritti degli altri; non li percepivamo come umani… Dopo la guerra (1975–1990), ho incontrato combattenti dell’altro versante. Non è stato facile rivolgersi a persone che solevano essere nemici, avevano le loro cause, e io le mie. Discordo da quel che pensavano, ma avevano un’altra versione della storia della guerra”.

Una ragazza di paese nella guerra

Salwa era una ragazzina ribelle di un villaggio di montagna. A dieci anni fece l’esperienza della disuguaglianza di genere senza sapere che questa discriminazione avesse un nome. Suo padre, conservatore, la mandò a una scuola pubblica mentre suo fratello fu mandato a una scuola privata, benché lei fosse migliore come allieva.

A 14 o 15 anni, l’Organizzazione per la Liberazione Palestinese (PLO) che aveva sede nel suo villaggio iniziò l’addestramento militare per le giovani. Le guardava di nascosto sognando di essere fra loro, per il suo sostegno alla causa Palestinese e l’ammirazione per l’uguaglianza fra combattenti per la libertà maschi e femmine.

Salwa è musulmana sciita di nascita. Quando le dissi di dover citare questo per aiutare i lettori non-libanesi a capire le motivazioni di una giovane in un paese settario e tuttora diviso, lei era riluttante per via della sua laicità e del rifiuto di essere definita con tratti ereditari che non aveva scelto. Accettò solo quando le dissi che avrei scritto che era “musulmana di nascita” anziché “musulmana”.

Di primo mattino di Domenica 13 Aprile 1975, i miliziani cristiani Kataeb (Falangisti) aprirono il fuoco contro un bus con palestinesi in transito nel sobborgo di Ain Al-Rummaneh, uccidendo più di 30 persone. La rappresaglia ebbe luogo poco dopo in una chiesa vicina. Scoppiò la guerra.

Salwa fu poi iscritta all’università pubblica per diventare educatrice. Poco dopo, dei colleghi comunisti l’invitarono, con altre studentesse, a visitare la sede del loro partito, dove lei avrebbe in seguito dormito da sola nel deposito munizioni.

Una combattente

Dapprima alle volontarie venivano assegnate “missioni da donne” come cucinare, fare le pulizie e le comunicazioni. Ma nel giro di mesi, anche per la scala crescente delle ostilità, le donne non ebbero scelta che ricevere un addestramento militare obbligatorio.

Salwa fu mandata in zone di conflitto attivo, talvolta unica donna, senza badare alle obiezioni alla presenza di donne – “gonnelle” nei campi militari. Anche lì rifiuto di accettare il sessismo, specialmente in un ambiente di sinistra che predicava l’uguaglianza. Obiettò all’esclusione di donne combattenti dalle riunioni politiche. Era “incaricata delle ragazze perché i loro genitori si fidavano di me”. Quando chiesi come i padri conservatori accettassero l’addestramento militare delle figlie, spiegò che venivano indotti a credere che le avrebbe protette dall’aggressione e da attacchi a scopi sessuali.

Fra il 1975 e il 1983, Salwa condusse una doppia vita. La guerra continuava a intermittenza, così lei era sia civile sia guerriera. In un caso, tornò al suo villaggio in un veicolo militare venendo considerate una “difensora comunista”. Si sentiva forte, “uguale agli uomini e altrettanto competente”, sebbene i suoi genitori non fossero fieri del suo ruolo militare. In un altro caso si trovò fresca di maternità a Beirut, sfollata per il conflitto e in difficoltà a trovare latte in una città devastata invasa dall’esercito israeliano.

Forse poteva passare da un‘identità di educatrice all’altra di combattente perché non aveva ucciso nessuno. Per ironia, eccelleva nell’addestramento, eppure al fronte non sparava direttamente a nemici a tiro pur rischiando la vita. Quando un caro amico fu ucciso, un compagno combattente la condusse a sparare a un ostaggio cristiano per vendetta. Pur arrabbiatissima, non ce la fece. Benché l’ostaggio fosse bendato, mi disse che poteva vedergli l’orrore negli occhi. Lo vede ancora.

Un punto di svolta

Tutto cambiò quando diede alla luce la sua figlioletta di un marito combattente. Poco dopo la casa divenne bersaglio di cecchini. Salwa provava paura come genitrice, non come combattente. Si rese conto che doveva rinunciare ai suoi doveri militari, per affetto materno e per ragioni pratiche. Lo si creda o no, non ricevette mai un soldo come combattente. Non era un lavoro, e lei scoprì di averne bisogno per allevare la sua bimba.

Insegnò chimica in una scuola pubblica di Beirut. Si era a metà degli anni 1980 in una città divisa, perfino fra le milizie alleate musulmane e palestinesi. Certi studenti avevano armi anziché libri. Trovò sulla lavagna dell’aula minacce di morte indirizzate a “tutti i comunisti”. Sapeva che voleva dire lei e non fu sorpresa trovando tagliate le gomme dell’auto. Sopravvisse a feroci battaglie, una volta fu ferita, e non ebbe paura di venire uccisa da quei giovani. In effetti, pensava di dover aiutarli. “Se potessi cambiare la mentalità di uno solo, sarebbe abbastanza. Tenerli in classe era una sfida perché se avessero mollato la scuola sarebbero diventati soldati adolescenti” mi disse.

Costruire la pace con se stessi e gli altri

Quando finì la guerra, la famiglia cercò una partenza ex-novo in Canada. Era la prima volta in 15 anni che Salwa viveva in una società pacifica. Paradossalmente vide gli ideali del comunismo attuati in un paese capitalista, ed ebbe l’opportunità di riflettere criticamente su tutto quanto aveva creduto fino ad allora.

Quando tornò in Libano nel 1994, lottò con la depressione e continuò a interpellare le ragioni per la guerra. Con uno sguardo triste, ammise con me di sentirsi inutile e insoddisfatta di sé stessa. Le spezzava il cuore che dei compagni fossero morti invano essendo burattini in uno sporco gioco di interessi di signori della guerra.

Ancora una volta sua figlia offrì un giro di boa. Volendo distanziarsi dal comunismo dei suoi genitori si lanciò nella mediazione e nella spiritualità. Temendo di poter perderla, Salwa seguì la direzione della figlia. Ormai crede che una spiritualità nascosta interiore le aveva impedito di uccidere, e che sua figlia aveva contribuito a svelare questo suo aspetto. Fu folgorata da questa rivelazione che le s’imponeva. Le ci vollero cinque anni per guarire dale vecchie ideologie. Non avrebbe mai più partecipato a una guerra.

Denunciò l’attivismo politico e fu pronta a incontrare “gli altri”. Un ex-“nemico” ora è suo amico. Questo l’ha resa una persona migliore, e così un’educatrice migliore. Ha trasformato circoli librari in rifugi sicuri per gli studenti che vogliano sviluppare un pensiero critico così da non seguire ciecamente i signori della guerra divenuti politici. La storia non deve ripetersi.

Salwa tornò all’università a studiare sociologia, lavorando per il peacebuilding mediante l’educazione. Ho ammirato un guizzo d’orgoglio nei suoi occhi quando mi disse d’avere finalmente trovato una certa pace interiore.

Una combattente per la pace

Come Combattente per la Pace, si è rivolta alle donne siriane. Dopo lunghe discussioni, ha convinto un’amica siriana che la violenza aveva rovinato la giusta causa dell’opposizione. Ha trasmesso quello stesso messaggio in seminari con donne siriane di origini etniche differenti, in cui riconosceva il suo sé d’un tempo. Dapprima si scambiavano accuse, cercavano rabbiosamente una rivalsa, incapaci d’ammettere che ci perdevano tutti nella guerra. Lei tuttavia parlò loro di accettarsi nonostante il passato sanguinoso, incoraggiandole a comunicare, ascoltare e perdonare così da cominciare la costruzione della pace, per quanto impopolare sia. Si è astenuta da giudizi e ha fatto breccia nel loro cuore e la loro mente coinvolgendosi nelle loro incertezze. Quelle donne sono adesso al lavoro in Siria per la riconciliazione e la promozione della pace.

“Pratico la nonviolenza e credo nel potere del peacebuilding. Voglio vivere in pace e aiutare i/le giovani a fare altrettanto. Racconto la mia storia sperando di catalizzare un cambiamento”, ha detto. Avrebbe denunciato la militarizzazione se qualcuno le avesse parlato nel 1975 sui pericoli della violenza? Dopo un silenzio e un’inspirazione profonda, ha risposto: “Sì, avrei potuto riconsiderare la faccenda se fossi stata incoraggiata a percepirla in altro modo. Avrei potuto percorrere un’altra pista”. 


Sawssan Abou-Zahr è un giornalista, editore e consulente libanese. Copre questioni legate alla primavera araba, alle donne, ai rifugiati siriani e palestinesi, ai movimenti radicali islamisti e all’Afghanistan, al Pakistan e all’Iran. Ha scritto articoli su questioni relative ai diritti umani e costruzione della pace sulla base di ricerche sul campo in Afghanistan e in Libia, e ha anche lavorato su incarichi in Svizzera, Bahrein, Oman, Polonia, Algeria, Brasile, Germania, Marocco, Kuwait e Turchia, coprendo eventi di alto profilo e intervistando personalità politiche di spicco. Ha contribuito alle edizioni del rapporto IREX sulla libertà dei media in Libano.

Twitter @SawssanAbouZahr


23 April 2019 | Peace Insight

Titolo originale: The metamorphosis of a female fighter into a peacebuilder

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.