Cos’è un italiano? Appunti per una definizione | Andrea Camilleri

Per ricordare il “maestro” pubblichiamo un estratto da un testo più ampio uscito su «Limesonline» il 24 febbraio 2009


Già, il fascismo…

La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.

Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.

La marcia su Roma, da Mussolini fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio. Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.

All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi. Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa. Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.

Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.

Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta. Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte». Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.

Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.

Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.

Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.

Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.

A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.

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