Scegliere di vivere per resistere alla guerra

Carlo Cumino

Giovedì 20 giugno i ragazzi del gruppo “BeCome Viral” del Centro Studi Sereno Regis hanno presenziato alle varie iniziative realizzate a Torino per celebrare la Giornata Internazionale del Rifugiato. Presentiamo di seguito il resoconto di uno degli eventi riportati da uno dei nostri volontari. Buona lettura!

Il 20 giugno scorso il Polo del ‘900 di Torino ha scelto di celebrare la Giornata Internazionale del Rifugiato in modo da legare insieme passato e presente, e di connettere così anche paesi lontani.

Esclusivamente per quel giorno le testimonianze audiovisive dei partigiani presenti nel Museo Diffuso della Resistenza sono state sostituite da quelle di rifugiati residenti a Torino, senza perdere tuttavia il collegamento tematico con le cinque sezioni del percorso di vista Torino 1938-1948. Dalle leggi razziali alla costituzione (Vivere il quotidiano, Vivere sotto le bombe, Vivere sotto il regime, Vivere sotto l’occupazione e Vivere Liberi) dando così l’opportunità ai torinesi di conoscere le storie e gli aneddoti della vita di Katya (siriana, mamma pronta a partire con una valigia dietro la porta), Amer (che ha frequentato la scuola in Iraq con la guerra) Anwar (ragazza di etnia palestinese nata in Italia e di doppia cittadinanza, con parenti bloccati dal muro sul confine israleiano) Ayub (giunto in Italia per ricongiungersi coi genitori, scappando alla guerra del Sahara orientale) e tanti altri.

Nel linguaggio comune ormai parole come “migrante”, “rifugiato” e “richiedente asilo” si sono confuse fra di loro a causa dell’uso fattone da parte dei mass media e della politica di palazzo. I racconti di non meglio precisati “migranti” raccolti al largo dalle navi, spesso ci portano a dimenticare come dietro ogni persona e dietro ogni volto ci sia una storia, una testimonianza, un racconto.

Racconti di paura e speranza, di tristezza e di fortuna, come quello di Esperance (ragazza rwandiana scappata al genocidio da neonata perché fatta salire insieme ad altri bimbi su un aereo diretto in Italia) che aprono gli occhi su realtà forse non tanto lontane da noi in termini di spazio e tempo, ma spesso dimenticate. Racconti della lotta da parte di gente che non ha scelto l’emigrazione, ma (per usare le parole di Muna, una testimone somala) è stata scelta da essa. Racconti di una lotta dettata non dal desiderio di sopravvivere, ma da quello di vivere, cosa impossibile in paesi dove rischi di morire per la tua etnia dove scopri con orrore che la prima parole di tua figlia è “bomba”.

Nella nostra società si ha spesso la visione che chi sceglie di lasciare il proprio paese e non restare a combattere sia spazzatura (o meglio feccia), ignorando (o peggio dimenticando!) come tali scelte siano spesso prese dalla volontà di vivere e di non abbandonare i propri casi ad una vita sotto le bombe. Lasciare il proprio luogo natale può quindi rivelarsi come la prima forma di resistenza alla guerra e alla disumanizzazione e quindi il solo modo di poter affermare i propri diritti umani scegliendo di non essere parte di quella violenza.

Non esistono una visione di “paese” e di “patria” che siano condivise da tutte le persone del mondo, per quanto ci faccia piacere crederlo. Siamo portati a pensare che possiamo avere un solo paese in questo mondo, una sola casa. Ma tutte queste storie di rifiuto a guerra e violenza ci dimostrano che tale regola non è scritta e che “la casa” in questione può essere più di una.

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