Gli iracheni preparano un Carnevale per la Pace, mentre gli USA pianificano altre guerre | Laura Gottesdiener

Due attivisti pacifisti iracheni parlano del loro impegno in favore della pace e per disinnescare la violenza provocata dalle ultime due guerre degli USA nel loro paese.

Una donna irachena partecipa al Carnevale Baghdad Città della Pace nel 2018. (Facebook / Baghdad City of Peace Carnival in 2018)

Una battuta amara circola a Baghdad in questi giorni. Me l’ha raccontata al telefono Noof Assi, un’irachena trentenne, attivista pacifista e operatrice umanitaria. La nostra conversazione si è svolta a fine maggio, poco dopo che l’amministrazione Trump aveva annunciato l’invio di altri 1.500 soldati nelle sue guarnigioni in Medio Oriente.

“L’Iran vuole combattere per scacciare gli USA e l’Arabia Saudita dall’Iraq” ha iniziato Noof “e gli USA vogliono combattere per scacciare l’Iran dall’Iraq”. Pausa teatrale. “E se tutti noi iracheni ce ne andassimo dall’Iraq e li lasciassimo combattere qui da soli?”

Assi fa parte di una generazione di giovani iracheni che hanno trascorso la maggior parte della loro vita dapprima sotto l’occupazione americana e poi nella disastrosa violenza da questa scatenata (compresa l’ascesa dell’ISIS), e che ora stanno considerando con preoccupazione il tintinnare di sciabole di Washington verso Tehran. Sono assolutamente consapevoli che, se dovesse scoppiare un conflitto, gli iracheni ancora una volta si troverebbero quasi certamente coinvolti in un conflitto devastante.

In febbraio, il presidente Trump scatenò l’ira [degli iracheni] affermando che gli USA avrebbero mantenuto in Iraq la loro presenza militare – 5.200 uomini – e la base aerea di al-Asad, per “sorvegliare l’Iran”. In maggio, il Dipartimento di Stato ordinò improvvisamente a tutto il personale governativo ordinario di lasciare l’Iraq, citando vaghe fonti di intelligence circa minacce di “attività iraniana”. (Questa cosiddetta intelligence fu prontamente contraddetta dal vice comandante britannico della coalizione anti-ISIS a guida americana; egli affermò che “non ci sono state accresciute minacce in Iraq e Siria da parte delle forze filo-iraniane”). Alcuni giorni dopo, un razzo atterrò senza provocare danni nella super-fortificata Zona Verde di Baghdad, dove si trova l’ambasciata USA. Il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi annunciò allora che avrebbe mandato delegazioni a Washington e Tehran per cercare di “smorzare le tensioni”, mentre migliaia di comuni cittadini iracheni si radunarono a Baghdad per protestare contro la possibilità che il loro paese venisse ancora una volta trascinato in un conflitto.

Gran parte della copertura delle crescenti tensioni fra USA e Iran da parte dei media americani in queste settimane, piena di “intelligence” fatta trapelare da anonimi funzionari dell’amministrazione Trump, presenta una somiglianza straordinaria con la preparazione dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Come affermato senza mezzi termini in un recente articolo di Al Jazeera – intitolato “I media americani stanno rullando i tamburi di guerra contro l’Iran?” – “Nel 2003 era l’Iraq. Nel 2019 è l’Iran”.

Sfortunatamente, nei 16 anni trascorsi, la copertura americana dell’Iraq non è migliorata molto. Certamente, gli stessi iracheni sembrano scomparsi. Per esempio, quando mai il pubblico americano sente parlare di come le studentesse di Mosul, seconda città irachena, pesantemente bombardata e strappata all’ISIS nel 2017, si sono organizzate per riempire di nuovo gli scaffali della biblioteca universitaria, un tempo rinomata, che i militanti dell’ISIS avevano incendiato durante la loro occupazione della città? O di come i librai e gli editori stanno facendo rivivere il mercato dei libri di via Mutanabbi, famoso nel mondo, distrutto da una auto-bomba devastante nel 2007? O di come, ogni settembre, decine di migliaia di giovani si riuniscono in tutto l’Iraq per celebrare la Giornata della Pace – un carnevale iniziato otto anni fa, una creazione di Noof Assi e del suo collega Zain Mohammed, un trentunenne attivista pacifista, che è anche il proprietario di un ristorante e di uno spazio per rappresentazioni?

In altre parole, al pubblico americano sono concessi raramente scorci sull’Iraq che facciano sembrare meno inevitabile la guerra in quel paese.

Assi e Mohammed sono abituati non solo ad una tale rappresentazione distorta del loro paese negli USA, ma anche al fatto che gli iracheni come loro sono come scomparsi dalla consapevolezza degli americani. Sono stupiti che gli americani possano aver causato tante distruzioni e sofferenze in un paese di cui continuano a sapere così poco.

“Anni fa, mi recai negli Stati Uniti grazie a un programma di scambio e scoprii che la gente non sapeva niente di noi. Alcuni mi chiesero se usavo un cammello come mezzo di trasporto” mi ha detto Assi. “Così, tornai in Iraq e pensai: Dannazione! Dobbiamo parlare al mondo di noi”.

Alla fine di maggio, ho parlato separatamente al telefono con Assi e Mohammed sulla minaccia crescente di un’altra guerra americana in Medio Oriente e sui loro anni di lavoro per la pace, con lo scopo di disinnescare la violenza provocata delle ultime due guerre americane nel loro paese. Ho rivisto e combinato le interviste a questi due amici, in modo che gli americani possano udire un paio di voci dall’Iraq, che raccontano la storia delle loro vite e del loro impegno per la pace negli anni successivi all’invasione del loro paese nel 2003.

Come hai cominciato a impegnarti per la pace?

Zain Mohammed: Alla fine del 2006, il 6 dicembre, mio padre fu giustiziato da al-Qaeda [in Iraq, il precursore dell’ISIS]. Siamo una piccola famiglia: io, mia mamma e due sorelle. Avevo solo due scelte. Avevo 19 anni e avevo appena finito le scuole superiori. Dunque, la decisione era: o emigrare o diventare parte del sistema delle milizie e vendicarmi. Così si viveva allora a Baghdad. Emigrammo in Siria, a Damasco. Poi, improvvisamente, dopo circa sei mesi, quando i nostri documenti per emigrare in Canada erano quasi pronti, dissi a mia mamma: “Voglio tornare a Baghdad. Non voglio scappare”.

Tornai a Baghdad alla fine del 2007. Ci fu un grande attentato con auto-bomba a Karrada, la parte della città dove vivevo. I miei amici ed io decidemmo di fare qualcosa per dire agli altri nostri amici che dovevamo lavorare insieme per favorire la pace. Così, il 21 settembre, in occasione della Giornata Internazionale della Pace, organizzammo un piccolo evento nello stesso luogo dell’esplosione. Nel 2009, ottenni una borsa di studio alla American University di Sulaymaniyah, per un laboratorio sulla pace; guardammo un film sulla Giornata della Pace. Alla fine del film, c’erano brevi immagini di molte scene nel mondo e, per un solo secondo, ci fu anche il nostro evento a Karrada. Questo film fu stupefacente per me. Fu un messaggio. Tornai a Baghdad e parlai con un amico il cui padre era stato ucciso. Gli dissi che era una cosa sistematica: se sei sciita, per vendicarti sarai reclutato da una milizia sciita; se sei sunnita, per vendicarti sarai reclutato da una milizia sunnita o da al-Qaeda. Gli dissi: dobbiamo creare una terza opzione. Per terza opzione, intendevo qualsiasi cosa eccetto combattere o emigrare.

Ne parlai con Noof, che mi disse: “Dobbiamo radunare dei giovani e organizzare un incontro”.

“Per fare cosa?” le chiesi. Tutto quello che avevamo era solo quest’idea di una terza opzione. Mi disse: “Dobbiamo radunare dei giovani e organizzare una riunione per decidere che cosa fare”.

Noof Assi: Quando Baghdad fu fondata, fu chiamata la Città della Pace. Quando cominciammo a parlarne alle persone, tutti ci deridevano. “Un festeggiamento della Città della Pace a Baghdad? Non succederà mai” dicevano. Allora non c’erano eventi, non accadeva niente nei parchi pubblici.

Zain: Tutti dicevano: “Siete pazzi, siamo ancora in guerra…”

Noof: Non avevamo un soldo, così decidemmo di accendere delle candele, stare in piedi nelle strade e dire alla gente che Baghdad è chiamata la Città della Pace. Ma poi diventammo un gruppo di circa 50 persone, così creammo un piccolo festival. Avevamo un budget a zero. Rubavamo il materiale di cancelleria e usavamo la stampante del nostro ufficio.

Poi pensammo: “Okay, abbiamo segnato un punto, ma non credo che la gente vorrà continuare”. Ma i giovani tornarono da noi e dissero: “Ci è piaciuto. Rifacciamolo”.

Come si è sviluppato il festival da allora?

Noof: Il primo anno, vennero circa 500 persone e la maggior parte erano familiari o parenti. Ora 20.000 persone partecipano al festival. Ma la nostra idea non riguarda solo il festival, ma il mondo che creiamo con il festival. Facciamo tutto letteralmente da zero. Anche le decorazioni: c’è un gruppo che fa le decorazioni a mano.

Zain: Nel 2014, stavamo cogliendo i primi risultati, quando l’ISIS e questa merda accaddero di nuovo; ma stavolta, al livello della società, molti gruppi cominciavano a lavorare insieme, raccogliendo denaro e vestiti per gli sfollati. Tutti lavoravano insieme. Sembrava una luce.

Noof: Ora, il festival si tiene a Basra, Samawah, Diwaniyah e Baghdad. Speriamo di estenderlo a Najaf e Sulaymaniyah. Negli ultimi due anni, abbiamo lavorato per creare il primo centro per giovani a Baghdad, l’IQ Peace Center, che è sede di diversi club: un club di jazz, un club di scacchi, un club di animali da compagnia, un club di scrittura. Avevamo un club di donne e ragazze, per discutere dei loro problemi nella città.

Zain: Abbiamo avuto molte sfide finanziarie, perché eravamo un movimento giovanile. Non eravamo una ONG registrata e non volevamo lavorare come una ONG regolare.

Bambini iracheni al Carnevale Baghdad Città della Pace del 2018. (Facebook / Baghdad City of Peace Carnival)

Ci sono altre iniziative di pace in città?

Noof: Negli ultimi anni, abbiamo visto numerosi  movimenti differenti a Baghdad. Dopo molti anni in cui si vedevano solo persone armate, soldati e guerre, i giovani volevano costruire una nuova immagine della città. Così, ora, abbiamo molti movimenti, per l’istruzione, la salute, gli spettacoli, lo sport, le maratone, i libri. C’è un movimento detto “Sono iracheno, so leggere”. È il più grande festival di libri. Tutti sono liberi di scambiare o prendere libri e vengono anche autori e scrittori per autografare i libri.

Non è esattamente l’immagine che credo molti americani abbiano in mente quando pensano a Baghdad.

Noof: Un giorno, Zain ed io ci stavamo annoiando in ufficio, così cominciammo a cercare immagini su Google. Dicemmo: “Cerchiamo Iraq”. Trovammo solo foto di guerra. Cercammo Baghdad: la stessa cosa. Allora cercammo Leone di Babilonia [una statua antica] – è famosa in tutto il mondo – e trovammo una foto di un carro armato russo, che l’Iraq aveva sviluppato sotto il regime di Saddam e che avevano chiamato il Leone di Babilonia.

Sono irachena e mesopotamica, con una lunga storia. Siamo cresciuti in una città antica, dove ogni piazza e ogni strada in cui passi ha una sua storia, ma i media internazionali non parlano di ciò che accade in queste strade. Si interessano solo di quello che dicono i politici e lasciano perdere il resto. Non mostrano l’immagine reale del paese.

Vorrei chiedervi delle crescenti tensioni fra gli Stati Uniti e l’Iran e di come reagisce la gente in Iraq. So che avete i vostri problemi interni, quindi un tweet qualsiasi di Trump in un certo giorno potrebbe non essere la notizia più importante per voi…

Noof: Sfortunatamente la è.

Soprattutto dal 2003, non sono stati gli iracheni a controllare il nostro paese. Anche il governo attuale: noi non lo vogliamo, ma nessuno ci ha mai interpellati. Noi stiamo ancora pagando con il nostro sangue, mentre – leggevo un articolo in proposito alcuni mesi fa – Paul Bremer ora fa il maestro di sci e conduce la sua vita semplice dopo aver rovinato il nostro paese. [Nel 2003, l’amministrazione Bush nominò Bremer capo dell’Autorità di Coalizione Provvisoria, che governò l’Iraq occupato dopo l’invasione americana e fu responsabile della disastrosa decisione di sciogliere l’esercito del dittatore iracheno Saddam Hussein.]

Che cosa pensate della notizia che gli USA stanno pianificando di schierare altri 1.500 soldati in Medio Oriente?

Zain: Se alla fine verranno in Iraq, dove abbiamo molte milizie filo-iraniane, temo che potrebbero esserci degli scontri. Non voglio scontri. In una guerra fra gli Stati Uniti e l’Iran, forse saranno uccisi dei soldati, ma lo saranno anche molti civili iracheni, direttamente e indirettamente. Onestamente, tutto quanto è successo dal 2003 in poi per me è strano. Perché gli Stati Uniti invasero l’Iraq? E poi dissero che volevano andarsene e adesso vogliono tornare? Non riesco a capire quel che fanno gli Stati Uniti.

Noof: Trump è un uomo d’affari, quindi si preoccupa del denaro e di come lo spenderà. Non farà una cosa se non è sicuro di ricavarne qualche vantaggio.

Questo mi ricorda il modo in cui Trump ha usato le crescenti tensioni nella regione per scavalcare il Congresso e far passare una vendita di armi da 8 miliardi di dollari all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti.

Noof: Proprio così. Pensa che chiedeva all’Iraq di ripagare agli Stati Uniti i costi dell’occupazione militare dell’Iraq! Te lo immagini? È così che pensa.

Fra queste tensioni crescenti, qual è il vostro messaggio all’Amministrazione Trump – e al pubblico americano?

Zain: Al governo USA direi che, in ogni guerra, anche se vinci, perdi qualcosa: denaro, persone, civili, storie… Dobbiamo vedere l’altro lato della guerra. E sono sicuro che possiamo fare ciò che vogliamo senza guerra. Al pubblico americano: penso che il mio messaggio sia lottare contro la guerra, anche quella economica.

Noof: Al governo USA direi: fatevi i fatti vostri. Lasciate in pace il resto del mondo. Al pubblico americano direi: mi spiace, so come vi sentite in un paese governato da Trump. Ho vissuto sotto il regime di Saddam. Mi ricordo ancora. Ho una collega americana; il giorno in cui Trump vinse le elezioni, venne in ufficio piangendo. Una siriana ed io eravamo in ufficio con lei e le dicemmo: “Noi ci siamo passati prima. Anche voi sopravviverete”.

Il 21 settembre, Noof Assi, Zain Mohammed e migliaia di altri giovani iracheni affolleranno un parco lungo il fiume Tigri per celebrare l’ottavo Carnevale Baghdad Città della Pace. Nel frattempo, negli Stati Uniti, quasi certamente, staremo ancora vivendo con le minacce di guerra   quasi quotidiane (se non la guerra stessa) dell’Amministrazione Trump a Iran, Venezuela, Nord Corea e chissà quali altri paesi. Un recente sondaggio Reuters/Ipsos mostra che sta aumentando il numero degli americani che ritengono inevitabile un’altra guerra in Medio Oriente: più della metà degli intervistati ha risposto che è “molto probabile” o “abbastanza probabile” che il loro paese entri in guerra con l’Iran “nei prossimi anni”. Ma, come Noof e Zain sanno molto bene, è sempre possibile trovare un’altra opzione…


Laura Gottesdiener è una giornalista freelance, in precedenza produttrice di Democracy Now!, attualmente stabilitasi nel Libano settentrionale.


        13 giugno 2019 | Questa storia è stata pubblicata per la prima volta da Tom Dispatch

Laura Gottesdiener, June 13, 2019 | Waging Nonviolence
Titolo originale: Iraqis prepare a Carnival for Peace as US plans for more war
Traduzione di Franco Malpeli per il Centro Studi Sereno Regis

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