Violenza, democrazia, repressione. Note sullo sgombero dell’Asilo occupato | Simone Berretta

“Riceviamo e pubblichiamo questo articolo che non necessariamente rispecchia pienamente il pensiero del Centro Studi Sereno Regis ma che riteniamo possa essere uno strumento per stimolare una riflessione sul tema trattato”.

La democrazia, in quanto strumento di garanzia del pluralismo, dovrebbe atteggiarsi come presidio che tuteli da violenza e repressione; lo Stato democratico dovrebbe porsi come scudo contro le aggressioni all’espressione del libero pensiero, barriera che impedisce tutte quelle condotte che non permettono l’esplicarsi di pratiche legittime, garantite dall’ordinamento in quanto non lesive della libertà altrui.

Eppure troppo spesso il termine centrale nel titolo di questo contributo (la democrazia), sembra fare fatica ad affermarsi quale principio prevalente, pare invece sempre più compresso e circondato dai termini posti al suo fianco (violenza e repressione). La riflessione sorge spontanea soprattutto in seguito agli eventi verificatisi a Torino nelle ultime settimane, che denotano un clima sempre più militaresco e repressivo, di cui sono intrisi il dialogo e la pratica politica, un clima bellico che cerca di creare divisioni e fazioni, di dividere il mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, mio e tuo. Gli ultimi due pronomi in particolare caratterizzano il tempo attuale, dove la possessività è principio preponderante, dove si teme l’“invasione” di ciò che è proprio, da parte di orde di esseri umani dipinti come mostri, ai quali alcuni sono solo in grado di rispondere “torna al tuo paese”. Un paese dal quale quelle persone probabilmente vorrebbero tornare, dove hanno lasciato famiglia e affetti, dal quale spesso non se ne sarebbero volute andare, ma la necessità le ha costrette, per la propria sopravvivenza, per un nuovo progetto di vita.

L’Asilo Occupato di via Alessandria è stato sgomberato la mattina del 7 febbraio. L’operazione di polizia è stata repentina e spettacolare, con un ingente dispiegamento di forze, che hanno militarizzato diversi isolati; lo stato d’assedio si è poi mantenuto per diversi giorni, creando numerosi disagi a residenti e negozianti, e al momento attuale perdurano controlli e pattugliamento da parte delle forze dell’ordine.

Emblematica la scena del cordone di poliziotti in tenuta antisommossa che blocca contro un muro un piccolo gruppo di manifestanti, rimasti in quella situazione per circa quattro ore, circondati, al freddo, senza poter mangiare né usare un bagno.

La narrazione mediatica e le affermazioni provenienti dalle autorità, oltre che proporre un gergo militaresco, parlando di prigionieri in riferimento agli arrestati, rasentano il ridicolo e tendono al paradosso: le forze dell’ordine avrebbero “liberato” l’Asilo, che a quanto pare teneva in ostaggio un intero quartiere, e hanno ristabilito l’ordine democratico.

Ora, che i reparti della celere, armati di tutto punto, che irrompono in un luogo che porta avanti lotte sociali da più di vent’anni, e che militarizza diversi isolati per più giorni, abbia agito a tutela dell’ordine democratico, è quantomeno dubbio. Che poi il luogo sia stato “liberato” fa ancora più sorridere, quando al contrario non viene da provare sentimenti opposti, ripensando alla tristezza di tutta la vicenda. La libertà era il messaggio, il principio, che un luogo del genere cercava di trasmettere e praticare, la libertà di vivere radicalmente al di fuori delle logiche di mercato, proponendo un diverso modello di relazioni e convivenza, la libertà di concepire e mettere in pratica il proprio progetto di vita, inibita dalla detenzione amministrativa, subita dai migranti per il solo fatto di non possedere i requisiti considerati necessari per risiedere legalmente sul suolo europeo, di non dimostrare una ragione sufficientemente fondata che garantisca il diritto di andare alla ricerca di migliori condizioni di vita; quando il solo fatto di aver rischiato la propria incolumità, affrontando un viaggio lungo, costoso e pericoloso, dovrebbero essere ragioni sufficienti a dimostrare la necessità della propria permanenza, motivazioni che rendono evidente la non contestabilità della propria scelta.

L’Asilo si batteva contro questa ingiustizia, contro una pratica non democratica, opprimente e disumana, contro la detenzione di persone private della propria libertà personale per il solo fatto di essere nate nella parte “sbagliata” del mondo, non considerate degne di poter ambire alla felicità, al benessere, alla realizzazione personale, ma condannate a sopravvivere, senza poter davvero vivere.

Se tutto questo si considera contrario all’ordine democratico, se tale ordine implica la costante violazione di libertà e diritti, allora ben venga che sia sovvertito, è doveroso contrastare un sistema che accetta e promuove l’oppressione dell’essere umano. Ma forse tale ordine ha ben poco di democratico, almeno se si intende la democrazia quale modello di società pluralista e che tutela i diritti degli individui in quanto tali, e non in base al loro luogo di nascita.

L’ordine ripristinato dai recenti eventi sembra piuttosto quello del mercato, un insieme di regole che risponde alle necessità dell’economia piuttosto che a quelle della democrazia. Un ordine conformante e uniformante, che ammette la libertà di scelta entro precisi confini, quelli del mercato appunto. La libertà concepita e concessa all’interno di tale modello appare molto ampia, ma è in realtà circoscritta, e qualsiasi esperienza che si pone al di fuori dalla logica dominante viene controllata, e poi ingabbiata o repressa. Ciò che non produce profitto non può esistere.

Ma cosa rimane del pluralismo democratico in un sistema del genere? Evidentemente molto poco, se tutto viene ricondotto ad un unico pensiero, a un malcelato monismo.

La tendenza repressiva sembra essere la cifra dell’attuale governo, che con il decreto sicurezza ha drasticamente ridotto le possibilità di integrazione per i migranti ed ha penalizzato il blocco stradale, condotta tipicamente utilizzata come strumento per manifestare dissenso. La guerra ai poveri e l’inibizione delle possibilità di contestazione sono palesi.

La reazione allo sgombero dell’Asilo è stata pronta e partecipata, ha unito tutte le realtà dell’area torinese e non solo, e la solidarietà è stata espressa anche da personalità politiche. Il corteo svoltosi giovedì 8 febbraio in serata era composto da alcune centinaia di persone, che manifestavano rabbia e delusione per gli eventi verificatisi durante la mattinata. La risposta è stata forte è decisa: di fronte  all’ennesimo esempio di politiche repressive e violente non ci si arrende, ma si dimostra di non accettare questa dinamica, e si mostrano la compattezza e l’entità di un movimento variegato ma unito dall’idea di qualcosa di diverso: una socialità non mediata dalle forze del mercato.

Chiaramente, com’era normale aspettarsi, si sono avuti episodi di violenza, probabilmente inutili, ma comprensibili, e in ogni caso molto limitati rispetto a quanto si sarebbe potuto prevedere, ma ovviamente enfatizzati dai media quali principale elemento caratterizzante la protesta, senza un minimo accenno al pensiero che sta dietro alle occupazioni, e alle lotte sociali portate avanti dall’Asilo e dalle altre realtà, e di come lo gombero rappresenti un meschino tentativo di opprimere tali modelli alternativi.

Se la violenza contro le cose messa in atto da alcuni manifestanti non è condivisibile, per quanto sia comprensibile (si badi bene, sono due diversi piani di ragionamento), ancora meno giustificabile e per nulla comprensibile è la violenza messa in atto contro le persone dalle istituzioni, tramite le forze dell’ordine. Un comportamento contrario all’ordinamento democratico, i cui principi, attraverso il monopolio dell’uso della forza, dovrebbero essere tutelati e non violati dallo Stato. Una violenza il cui scopo è garantire a pochi soggetti, detentori di grandi capitali, di investire nella “riqualificazione” di un quartiere, epurandolo da quegli elementi che possono influire  sull’aumento del valore degli immobili, escludendo i meno abbienti e favorendo quel processo di gentrificazione che fa del decoro urbano concetto cardine, puntando sull’estetica, sul bello, su ciò che il soggetto conformato e benpensante vuole vedere, sentire, provare, ed emarginando quella vasta e maggioritaria porzione di umanità che abita un quartiere dove ha costruito relazioni e progetti, dove è cresciuta e ha vissuto esperienze. La riqualificazione non mira a fornire migliori condizioni di vita agli abitanti di un quartiere, il suo scopo è allontanarli, relegarli fuori dalla vista, per creare dal nulla isolati fruibili dal turismo di massa, che non sono altro che modelli prefabbricati privi di qualsiasi legame con le persone e con i vissuti di chi prima abitava quella parte della città. L’obbiettivo insomma è quello di costruire parchi a tema, uguali in qualsiasi parte del mondo, belli in apparenza, ma privi di qualsiasi profondità, contenuto e umanità.

La violenza come pratica di lotta, se in molti casi appare poco utile e facilmente strumentalizzabile, mera espressione e sfogo di rabbia, sembra però quasi necessaria a riaffermare la propria capacità di reagire ai soprusi, diventa in alcuni casi assimilabile alla legittima difesa, risposta dovuta contro uno Stato violento a aggressivo, che non rispetta i diritti umani fondamentali.

La violenza praticata da alcuni gruppi anarchici, le accuse di terrorismo per alcuni abitanti dell’Asilo, l’aver trovato materiale quali caschi e ginocchiere al suo interno, non rappresentano altro che la dimostrazione di quanto il pluralismo sia effimero e limitato. Più un esperienza si pone come distante e differente dal modello adottato dalle istituzioni, più questa subirà attacchi e più avrà necessità di essere pronta a reagire e difendersi. Allo stesso modo le azioni dirette contro i CIE non sono altro che pratiche volte a contrastare una detenzione illegittima, messa in atto dallo Stato contro persone che non hanno compiuto alcun crimine.

C’è chi non si accontenta di denunciare a parole certe situazioni aberranti, c’è chi sente il bisogno di fare qualcosa di concreto, e purtroppo per reagire alla violenza non è sempre possibile e non è per tutti concepibile mettere in atto risposte non violente, soprattutto quando è in gioco la sopravvivenza. Non penso siamo ancora arrivati a questo punto, ma nei CIE non è così infrequente che qualcuno si tolga la vita, esasperato dalle condizioni in cui è costretto a vivere e privato di qualsiasi speranza di un futuro migliore.

 

Non condivido la violenza, non rispecchia il mio modo di essere, ma comprendo che per qualcuno possa apparire come unica risorsa per contrastare leggi ingiuste, alle quali è più che legittimo disobbedire, e che possa essere un mezzo per affermare se stessi e trovare la forza di rispondere a soprusi e prevaricazioni, liberandosi dalla soggiogazione fisica e mentale in cui si è costretti.

Credo però che solo attraverso una pratica non violenta, che ribalti i meccanismi autoritari e di potere, sia possibile ottenere un vero cambiamento, finché chi detiene la forza costringe a battersi su quel medesimo livello di scontro fisico non si potrà abbattere quella dinamica gerarchica e oppressiva che determina lo stato attuale delle cose.

Solo attraverso la creatività, tramite metodi differenti, che si distanzino da quelli praticati da chi propone il sistema di pensiero che si vuole sovvertire, si può produrre un reale e concreto cambiamento; bisogna smarcarsi dalla logica che porta a rispondere all’oppressore sul livello al quale egli stesso vuole portare, si deve dimostrare la propria diversità non solo nel contenuto, ma anche nel metodo, solo così si possono creare mentalità diverse ed una nuova società, in cui l’altro è posto al centro dell’esistenza e della pratica di vita quotidiana.

 

 

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