Sappiamo immaginare la pace per la Palestina?

Richard Falk

In attesa senza aspettative positive dell’accordo del secolo di Trump, il travaglio palestinese si dipana giorno dopo giorno. Molti israeliani vorrebbero farci credere che la lotta palestinese per l’autodeterminazione sia stata sconfitta, e che è ora d’ammettere che Israele è il vincitore e la Palestina la perdente. Avvenimenti recenti abbozzano un quadro diverso. Ogni venerdì dalla fine di marzo 2018 la Grande Marcia del Ritorno ha confrontato Israele al confine di Gaza. Israele ha risposto con forza letale uccidendo più di 250 palestinesi e ferendone oltre 18.000, usando forza ampiamente eccessiva per trattare dimostrazioni quasi del tutto nonviolente. Il mondo permette queste atrocità settimanali senza alcuna reazione avversa e l’ONU ha un silenzio imbarazzante. Parrebbe che nei circoli internazionali ci sia la sensazione che non si possa fare granché per attuare una soluzione pacifica e giusta a questo punto. Tale conclusione in parte spiega le varie mosse recenti nel mondo arabo verso un’accettazione d’Israele come stato legittimo, che ha già comportato una normalizzazione diplomatica. Oltre questi sviluppi, Israele si è dato con l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti a un’escalation guerrafondaia di un confronto ingiustificato con l’Iran. Inoltre, Israele ed Egitto stanno collaborando su tematiche di sicurezza al confine e nel Sinai, nonché nello sviluppo di progetti d’estrazione marittima di gas e petrolio. Nell’insieme questo è un momento d’inventario riguardo a questo conflitto, in atto da più d’un secolo, e di valutazione sul miglior percorso in avanti.

Un punto fondamentale è come si potrebbe fare pace in maniera da realizzare il diritto fondamentale del popolo palestinese di raggiungere l’autodeterminazione in uno spazio territoriale che è stato per secoli casa loro. L’ipotesi prevalente era che si sarebbe raggiunta una soluzione con negoziati di valenza geopolitica fra Israele e rappresentanti governativi del popolo palestinese. La loro struttura è stata affidata agli Stati Uniti, che hanno insinuato una pecca fatale nel processo diplomatico se l’obiettivo era conseguire un compromesso pacifico equo per ambo i versanti. Come poteva avvenire se la parte più forte aveva il sostegno incondizionato dell’intermediario geopolitico e la parte più debole non era neppure il legittimo rappresentante del popolo palestinese?

Inoltre, questo schema già bacato è stato ulteriormente abusato subordinando il cosiddetto processo di pace agli obiettivi espansionisti sionisti, espressi annettendo Gerusalemme [est], negando ai profughi il diritto al ritorno, ed espandendo gli insediamenti illegali nella Palestina occupata. Una tale struttura geopolitica, associata al Quadro dei Princìpi, come adottato nel 1993, è ormai ampiamente screditata, ma non prima che Israele abbia usato gli scorsi 25 anni per giungere ai propri obiettivi espansionisti, rendendo l’istituzione di uno stato palestinese indipendente un’impossibilità politica, e ponendo i palestinesi in una posizione ben più debole ch all’adozione dell’approccio di Oslo.

Contro questo sfondo, il fallimento perverso dell’approccio dall’alto al basso a un risultato sostenibile ha condotto a un pubblico atteggiamento di disfattismo allorché si tratti di arrivare a un compromesso pacifico. L’opzione dall’alto al basso residua è l’imposizione coercitiva della ‘pace’ dichiarando una vittoria israeliana e una sconfitta palestinese. In alter parole, se fallisce la  diplomazia, quanto resta è solo il calcolo vincitore/perdente.

Tale modo di pensare, seppur prevalente nei circoli d’élite, perde di vista il ruolo storico della gente, sia di quella che resiste all’ingiustizia sia di quella mobilitata in tutto il mondo nella solidarietà. Questi sono i generi di dinamica politica dal basso che hanno cambiato la storia del secolo scorso. Sono stati i movimenti di massa nazionali che hanno sfidato riuscitamente, seppur ad alti costi umani, le struttura ingiuste del colonialismo e dell’apartheid sudafricano, e sono infine prevalse nonostante l’inferiorità militare e la resistenza geopolitica. In altri termini, la gente comune ha avuto il ruolo attivo storico superiore pur con capacità inferiori sui campi di battaglia e diplomaticamente. Questa potenza populista è una realtà col potenziale di sovvertire l’ordine stabilito e perciò è trattata come irrilevante dal pensiero e dai decisori politici mainstream.

E’ precisamente sulla base di questa decostruzione del potere e sul cambiamento che riposano le speranze di un futuro palestinese più brillante. La forza del movimento nazionale palestinese è al livello della gente, fortificata dal consenso morale che il colonialismo d’apartheid israeliano è sbagliato, in effetti un crimine contro l’umanità secondo il diritto penale internazionale [si veda l’art. 7 dello Statuto di Roma che governa la Corte Penale Internazionale e la Convenzione internazionale sull’Apartheid del 1973 sulla Soppressione e la Punizione del Crimine d’Apartheid]. E’ questo processo di lotta dal basso, capeggiato dalla resistenza palestinese e provvisto di autorevolezza da iniziative globali di solidarietà come la Campagna BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni] che sta acquisendo sempre più peso e aumentando la sua pressione. Gli esiti storici non sono mai certi, ma il flusso della storia è da tempo contro questa combinazione israeliana/sionista di appropriazione coloniale della Palestina e delle strutture d’apartheid cui ci si affida per mantenere soggiogato il popolo palestinese.

Contro questo sfondo si possono delineare alcune proposizioni generali.

La soluzione a due stati è morta

La soluzione a due stati non è considerate un’opzione praticabile da parecchi anni, almeno dall’abbandono di fatto della diplomazia di Oslo nel 2014. Eppure si continua a riaffermarla da parte di molti governi e all’ONU, non perché ci sia un barlume di credenza che possa finalmente accadere, ma perché qualunque altro esito pareva o impossibile o troppo orribile da considerare. In altre parole, molte autorevoli figure politiche e opinion leader si sono attenute alla soluzione a due stati come alternativa allo zero. Questo riflette un impoverimento dell’immaginazione politica e morale, capace solo di concepire una soluzione al conflitto derivante da approcci dall’alto al basso: quelli dal basso in alto non sono neppure considerati.

Sembra meglio ammettere la sconfitta della diplomazia per i due stati e tener conto della situazione esistente di confronto fra palestinesi e israeliani in modo da prendere in esame alternative. Per arrivare a questo punto, potrebbe servire spiegare perché la soluzione a due stati sia diventata così irrilevante. Soprattutto, pare evidente che la leadership Likud d’Israele non abbia mai voluto che fosse istituito uno stato palestinese indipendente. Netanyahu promise nella campagna presidenziale del 2014 in Israele che uno stato palestinese non sarebbe mai giunto all’esistenza fintanto che lui fosse capo d’Israele.

Forse, più fondamentale, il movimento dei coloni ha superato un punto di ritorno. Ci sono oltre 600.000 coloni israeliani che vivono in oltre 130 insediamenti sparsi in tutta la Cisgiordania e Gerusalemme.Est. I capi dei coloni credono che gli insediamenti abbiano cambiato talmente la mappa d’Israele da escludere qualunque possibilità di una Palestina indipendente, e ora prevedono che la popolazione dei coloni cresca a 2 milioni per consolidare il punto.

Sì, l’Autorità Palestinese è sembrata a lungo accettare anche uno stato territorialmente monco, cedendo sovranità ai blocchi d’insediamenti lungo il confine, ma insistendo per la propria capitale a Gerusalemme. Un ampio spettro di capi politici israeliani concorda sul future di Gerusalemme come non-negoziabile, e che la città resterà per sempre unificata sotto l’esclusiva sovranità e amministrazione israeliana. A tali condizioni si può sicuramente concludere che non è più plausibile considerare seriamente il percorso di pace a due stati fra i due popoli

La sistemazione araba è tenue

Israele sente una pressione lieve a cercare un compromesso politico alle attuali condizioni. Con Trump alla Casa Bianca e i governi arabi lanciati verso la normalizzazione e l’accomodamento, capi e opinione pubblica sembrano maldisposti a fare concessioni per amor di pace. Pertanto, mantener viva la non-soluzione zombie a due stati è un modo di procedure con I continui sforzi d’lsraele di espandere gli insediamenti intanto che attua la sua versione coercitiva di soluzione a uno stato.

Ci sono forti ragioni di temere che questa fiducia israeliana che le esigenze di diritti palestinesi possano essere indefinitamente ignorate sia prematura ed è probabile che venga scossa da avvenimenti nel prossimo futuro. Fra l’altro, le mosse arabe verso la normalizzazione sono instabili come del resto tutta la regione. Se c’è un rinnovo delle insurrezioni arabe nello spirito del, è quanto mai possibile che il sostegno all’autodeterminazione palestinese schizzi in cima all’agenda politica regionale, più forte che mai prima. La gente araba, distinta dai governi, continua a sentire profondi legami di solidarietà verso i propri fratelli e sorelle palestinesi.

Oltre a ciò, se la presidenza Trump venisse sconfitta nel 2020, ci sarebbe probabilmente una rivalutazione israeliana dei propri interessi, prospettiva rafforzata da segni che il sostegno ebraico incondizionato a Israele sta nettamente affievolendosi, anche negli Stati Uniti. Inoltre, il movimento globale di solidarietà a sostegno del movimento nazionale palestinese sta diffondendosi e crescendo. Diventa più militante, coinvolgendo l’opinione pubblica moderata globale, e ha il beneficio simbolico di un forte sostegno in SudAfrica, che considera la lotta per i diritti palestinesi analoga alla propria campagna anti-apartheid.

Che cosa prossimamente?

Emergono due conclusioni da quest’analisi: primo, un affidamento protratto sulla diplomazia dei due stati in un ambito che si basa sugli Stati Uniti come intermediario o sensale di pace è ormai irrilevante e screditato. A questo punto è solo una distrazione. Secondo, nonostante i recenti progressi d’lsraele nel farsi accettare in Medio Oriente e il suo sostegno unilaterale a Washington, il movimento nazionale palestinese persiste, e a certe condizioni costituirà una minaccia per il futuro d’Israele.

Alla luce di tali conclusioni, che cos’è meglio fare? Parrebbe che solo un singolo stato democratico e laico possa far valere l’autodeterminazione per ambo i popoli, offrendo una promessa di pace sostenibile. Avrebbe bisogno di essere attentamente presa in visione e promossa con salvaguardie internazionali nel percorso d’attuazione. Non sembra una possibilità pratica al momento, ma avanzarla come l’unico risultato che può essere considerate giusto evita la disperazione e mantiene speranze di una pace umana per quando il tempo sia maturo. Un tale esito comporterebbe una modifica essenziale degli obiettivi israeliani.

In una tale situazione binazionale, lo stato singolo di nuova creazione potrebbe offrire patrie agli ebrei e ai palestinesi, intanto che si troverebbe per il nuovo stato un nome congeniale ad ambo i popoli. Forse questo non avverrà mai, ma è la visione più sostenibile di un future pacifico che risponda a decenni di fallimento diplomatico, di massiccia sofferenza e abuso dei palestinesi, e riconosce l’autorità morale e il vigore politico della resistenza nazionale e della solidarietà globale, una vittoria legislativa di quel non-riconosciuto Parlamento dell’Umanità.


EDITORIAL, 25 Feb 2019 | #575 | Richard Falk – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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