La poltrona aggiusta… La sconfitta della democrazia in Brasile all’inizio dell’era Bolsonaro

Gigi Eusebi

Nel 1933 Adolf Hitler raggiunse il potere in Germania con un voto democratico. A fine 2018 l’ex capitano dell’esercito Jair Bolsonaro è stato eletto presidente del Brasile, ottenendo 57,4 milioni di voti, su 147 milioni di elettori. L’avversario nel secondo turno, rappresentante del PT (Partito dei Lavoratori), ex-ministro dell’educazione, ex-sindaco di San Paolo, nonché professore universitario, Fernando Haddad, ha ricevuto 47 milioni di voti. Se si conteggiano 31,3 milioni di astenuti, 8,6 milioni di voti annullati e 2,4 milioni di voti in bianco, quasi 90 milioni di brasiliani non hanno votato per Bolsonaro. Molti si sono chiesti come sia stato possibile che dopo oltre 30 anni di teorica democrazia sia stato eletto presidente un oscuro, grezzo, mediocre deputato federale, palesemente non preparato, favorevole alla tortura e all’uccisione di prigionieri e oppositori, difensore della dittatura militare che ha soggiogato il paese per 21 anni. Nulla avviene per caso! Vari fattori si sommano nell’ascensione di Bolsonaro, sconosciuto fino a pochi mesi prima delle elezioni.

La democrazia brasiliana è ed è sempre stata fragile. Dalla colonizzazione portoghese dal 1500 hanno prevalso governi violenti, corrotti e autocratici, con la dominazione dell’impero e monarchia lusitana fino al 1889, quando fu decretata la Repubblica. Venne mantenuto in Brasile il più lungo e resistente regime di schiavitù del continente, durato 350 anni e i cui effetti sociali e culturali si notano ancora oggi. Dall’avvento della Repubblica nei primi decenni i governi furono diretti da militari, prima Deodoro da Fonseca poi Floriano Peixoto, così come fino agli anni venti del novecento i programmi politici erano di fatto dittatoriali. Subentrò nel 1930 Getulio Vargas, un civile che rapidamente si trasformò in dittatore, con alcuni periodi successivi di interruzione e un secondo ritorno al potere culminato con il suicidio nel 1954. Nel 1960 il presidente Janio Quadros venne deposto sette mesi dopo da “forze occulte”. Il potere venne occupato provvisoriamente da una Giunta Militare e dopo alterne vicende nel 1964 il vice di Quadros, Joao Goulart, venne deposto dal golpe militare che impose una feroce dittatura fino al 1985.

In questi ultimi 33 anni di “democrazia” il primo presidente morì senza poter iniziare il proprio mandato (Tancredo Neves). Il vice, Josè Sarney, portò in cinque anni il paese alla bancarotta economica. Il successivo, una sorta di “avatar” della politica, giovane rampollo della borghesia dello stato di Alagoas, Fernando Collor de Melo, durò due anni e mezzo e fu cacciato con un impeachment per corruzione nel 1992, cedendo la presidenza all’oscuro vice, Itamar Franco. Vi furono poi due mandati presidenziali di un sociologo inizialmente progressista ma convertitosi rapidamente a politiche economiche ultraliberiste, Fernando Henrique Cardoso (1995-2003),  seguirono i due mandati di Luis Inacio Lula da Silva (2003-2011), ex tornitore meccanico figlio di emigrati del Nordeste povero, carismatico fondatore e leader del PT, un mandato e mezzo di Dilma Rousseff, ex guerrigliera durante la dittatura e ministra dei governi Lula, da lui indicata come erede politica, fino all’impeachment del 2016 per… maquillage del bilancio statale, reato di minore entità praticato ovunque nel mondo e mai chiarito (una sorta di golpe bianco di tipo amministrativo). Fino agli ultimi due anni e mezzo di Michel Temer, il vice di Dilma, altra figura inquietante dello scenario politico, reazionario e mediocre (lui stesso si era auto-definito un vicepresidente “decorativo”), che il 1° gennaio 2019 ha passato la fascia presidenziale al 63enne Jair Messias Bolsonaro, di lontane origini venete e così chiamato dai genitori in omaggio a un calciatore (Jair, che transitò anche in Italia) e per sottolineare le ispirazioni religiose della famiglia (Messias).

Una famiglia Addams governativa…

Il governo da poco insediato in Brasile sembra, osservando la griglia di partenza, superare in impresentabilità ogni esempio attuale e del recente passato, nonostante – sic – non manchino esempi un po’ a tutte le latitudini. Nel governo Bolsonaro, su 22 ministri (una riduzione significativa rispetto agli oltre trenta precedenti) otto sono militari, una specie di record per un governo “civile”. Tra gli altri, da notare che tre ministri sono pastori evangelici reazionari, un prezzo politico dovuto al sostegno ricevuto da diverse sette in campagna elettorale. Come avviene in tutti i governi, i ministeri non si contano, ma si… pesano. Vi sono, per motivi politici o di marketing, due ministri chiave: Sérgio Moro alla Giustizia e Paul Guedes, ultraliberista ortodosso all’economia, che accorpa i poteri di tre ministeri, con un esercito di 65.000 dipendenti. In particolare però va evidenziata la traiettoria di Sérgio Moro, il grande accusatore ed esecutore giudiziario di Lula, coordinatore dell’operazione Lava Jato. Moro per alcuni settori della società rappresenta una sorta di eroe, nonostante sia comprovato l’uso politico dello strumento giudiziario, con procedure, tempi e modalità di esecuzione ai limiti, se non oltre, della legge. Moro afferma di essersi ispirato all’operazione Mani Pulite italiana, ma la sua immediata nomina al super ministero della Giustizia, comunque la si pensi, conferma la scarsa autonomia tra i tre poteri dello Stato, principio base di qualunque democrazia.

A seguire alcune “chicche” di questa corte dei miracoli, attraverso affermazioni pubbliche o… curriculum professionali di alcuni ministri. Ma attenzione, nella politica moderna non sempre si tratta di provocazioni, per alcuni ruoli chiave vi sono strategie politiche o di marketing tutt’altro che amatoriali:

  • Tereza Cristina, ad esempio, nominata Ministra dell’Agricoltura, già presidente del fronte parlamentare agropecuario, detta Musa del veleno, per aver presentato il progetto di legge n. 6.299, per la totale liberalizzazione dei prodotti agrotossici in Brasile;
  • Bolsonaro si è candidato alla Camera con il numero simbolico 30.06, che indica una particolare e nota munizione per fucili («Da usare contro la sinistra», ha detto in campagna elettorale);
  • «La dittatura doveva uccidere molta più gente, sono favorevole alla tortura». «Per quello che dipende da me un agricoltore presenterà in futuro come biglietto da visita ai Senza Terra una cartuccia calibro 7.62. Bisogna uccidere questi vagabondi, la proprietà privata in una democrazia è sacra. Con noi il paese si libererà di questa “razza” (ndr: esponenti di sinistra e dei movimenti) per i prossimi 30 anni» (Bolsonaro, campagna elettorale);
  • «I lavoratori devono scegliere, o il lavoro o i diritti, entrambe le cose non sono possibili» (Bolsonaro, il giorno prima dell’insediamento);
  • «È un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata altrettanto efficace di quella americana nello sterminare gli indiani. Gli indios puzzano, sono ignoranti e non parlano la nostra lingua. Da presidente garantisco che non verrà demarcato un centimetro in più di terra indigena» (Bolsonaro, campagna elettorale);
  • «Sei così racchia che non meriti nemmeno di essere stuprata» (Bolsonaro, rivolto a una collega dell’opposizione);
  • Uno dei figli di Bolsonaro, Flàvio, consulente del governo, ha dichiarato durante il periodo di transizione: «Le donne di destra sono più belle di quelle di sinistra, non cagano per le strade e non mostrano le tette»;
  • «Le donne vivono troppo fuori casa, io vorrei stare tutto il pomeriggio su un’amaca, mentre mio marito lavora molto, molto, molto, per riempirmi di gioielli e regali. Questo dovrebbe essere il modello ideale di società e famiglia in Brasile» (Damares Alves, segretaria del sotto-ministero dei diritti umani e della donna, in sede di presentazione delle attività governative);
  • 47 organizzazioni della società civile USA hanno denunciato a inizio gennaio 2019 i rischi irreparabili per il pianeta e la democrazia derivanti dai programmi del nuovo governo brasiliano;
  • Alla cerimonia di “posse” del 1° gennaio si è notata la presenza in pompa magna di Netanyahu, primo ministro uscente del governo di Israele, sfiduciato nel dicembre 2018, ricevuto come fratello ed esempio da imitare, con la volontà di stringere alleanze economico-politiche a ogni livello tra i due paesi (dopo gli ultimi governi del PT vicini al mondo arabo ed alla causa palestinese), a cominciare dallo spostamento dell’ambasciata brasiliana in Israele a Gerusalemme. «Se noi siamo il popolo della terra promessa – ha dichiarato all’arrivo Netanyahu – il Brasile è il popolo della promessa futura». Alla cerimonia erano assenti tutti i principali leader occidentali, ma si è segnalata la presenza di Viktor Orban, omologo ungherese di Bolsonaro in fatto di diritti umani e di curriculum, i presidenti di estrema destra di Cile e Paraguay, il Segretario di Stato USA ultra-reazionario Mike Pompeo, mentre per l’Italia era presente Gianmarco Centinato, emblematico ministro dell’agricoltura, pavese ultra-leghista;
  • Dario, amico di vecchia data che vive da decenni a Belo Horizonte, avendo lavorato a lungo per l’indotto Fiat, osservatore documentato della realtà, non condivide le denunce, non per i fatti ma per l’interpretazione: «In Europa avete una visione distorta e un’immagine caricaturale di Bolsonaro, finora non ha fatto nulla che vada contro la legge».

 

Gli autogoal della sinistra

Come si spiega che dopo 13 anni di governi del PT, di stampo relativamente progressista, 57 tra i 147 milioni di elettori brasiliani, su una popolazione di 208 milioni di persone (il voto in Brasile è obbligatorio tra i 16 ed i 70 anni), elegga presidente come volto nuovo un militare di basso rango e prestigio, deputato federale per 29 anni (ovvero sette mandati consecutivi), che ha presentato nella sua “carriera” un solo progetto di legge, sconosciuto ai più e indagato (lui e famiglia) per corruzione? Più che un politico una sorta di caricatura ideologica, noto principalmente per elogiare la tortura, dispiacersi che durante la dittatura siano state uccise “solo” 30.000 persone, misogino, razzista, omofobo, impreparato in economia e nella gestione del governo (come da lui stesso ammesso in campagna elettorale, con la postilla che una volta eletto si sarebbe circondato di uno staff competente), che ha avvisato oppositori, militanti di sinistra e movimenti sociali che avranno la scelta tra andarsene dal paese o finire in carcere?

Jacques Wagner, ex Ministro del Lavoro nei governi Lula ed ex-Governatore della Bahia, una delle poche figure di sinistra a non essere finora finito nella graticola di indagini e processi, è convinto che alla fine a cadeira ajeita (la poltrona, la carica, aggiusta molte cose, nel senso di ridimensionare gli slogan da campagna elettorale). In effetti, nonostante la sagra degli orrori dello schieramento di Bolsonaro, finora va riconosciuto un relativo basso profilo da parte del presidente, meno carico di minacce truculente a effetto nella fase di transizione post voto.

Ritornando alle cause del processo di imbarbarimento politico va ammesso che, nonostante le politiche di inclusione sociale dei tempi di Lula che, pur in forma non strutturale, hanno sollevato dalla miseria circa 36 milioni di brasiliani, ci sono stati errori da parte del PT, il quale ancora oggi non ammette autocritiche: «È evidente che diversi dei nostri hanno commesso fesserie – ammette Wagner a denti stretti – ma non è questo il momento storico per leccarci le ferite».

  • È provato il coinvolgimento di diversi leader del PT in casi di corruzione su larga scala, si pensi al notissimo e squallido caso Lava Jato (autolavaggio, un’operazione spacciata come la Mani Pulite in salsa tropicale che ha scoperchiato un sistema generalizzato di corruzione e connivenza tra politica e grandi imprese statali e private), con una gestione delle alleanze economico-politiche senza scrupoli. Finora nessun esponente del PT è stato punito, dalla commissione etica del partito o da organi di gestione. Da notare che si tratta di un partito nato sulla base delle lotte e del sangue versato nel periodo della dittatura, che ha fatto dell’etica e della democrazia le sue basi valoriali, non paragonabile a qualunque partito di sinistra europeo, se non, forse e con i dovuti distinguo, al movimento partigiano;
  • La poca dimestichezza con i moderni social network e dei media in genere, che da tempo governano e indirizzano le tendenze elettorali ed educative. Non ci si è soprattutto preoccupati in tanti anni di gestione della cosa pubblica di avviare un processo di alfabetizzazione anche politica della popolazione;
  • Non aver promosso le riforme strutturali necessarie e promesse in 13 anni di governo: sanitaria, educativa, agraria, del lavoro, previdenziale. Il PT oggi è vittima delle riforme politiche non realizzate.

Le oceaniche manifestazioni di protesta del 2013, pre e post Mondiali di Calcio disputati in Brasile, erano suonate come un primo campanello di allarme, non rilevato. Milioni di persone in piazza, a volte senza sapere bene perché e per cosa, una moltitudine spesso acefala, scesa in strada rabbiosa, piena di proteste ma senza proposte, che non si considerava rappresentata da nessun partito. L’anno successivo Dilma Rousseff venne rieletta per un pugno di voti, ed anche in questo caso non venne colto il segnale politico, che avrebbe richiesto capacità di recepire le istanze delle piazze e maggiore coerenza con valori etici che per decenni avevano motivato la base del PT. Viceversa venne scelta la strada opposta, come spesso avviene in molte, troppe zone del mondo con governi suppostamente progressisti, con l’adozione di politiche neoliberiste ortodosse, specie in campo economico e sociale, incorporando programmi e ideologie delle destre.

Come ironizza Frei Betto, frate dominicano, una delle figure principali della teologia della liberazione, scrittore, giornalista, acuto osservatore politico e mio… “collega” ai tempi del primo governo Lula, in qualità di responsabile del programma Fame Zero: «I governi del PT sono come dei musicisti che afferrano il violino con la sinistra per suonarlo con la destra…».

Così il PT, avendo perso progressivamente consenso e base di appoggio, è diventato fragile, isolato e vulnerabile nei confronti del golpe parlamentare che ha portato in tempi brevi all’impeachment di Dilma Rousseff, senza che in quel periodo vi fossero manifestazioni di piazza di protesta. Il vice di Dilma, il Brutus Michel Temer, rappresentante mediocre e corrotto delle élite più reazionarie, la cui sola presenza in un governo progressista rappresentava di per sé un indizio chiaro di schizofrenia politica, una volta ricevuta l’investitura di un’inaspettata presidenza non fece che far sprofondare ulteriormente il paese nella crisi. 14 milioni di disoccupati, recessione dell’economia dopo oltre dieci anni di crescita esponenziale, riforma del lavoro contraria ai più elementari diritti dei lavoratori, 63 mila persone all’anno assassinate per le strade (il 10% del totale mondiale), militarizzazione di Rio de Janeiro per arginare il controllo della città da parte del narcotraffico, distruzione della foresta amazzonica del 13,7% nell’ultimo anno, la più alta percentuale di questo secolo, una cultura della corruzione e dell’impunità imperante nella politica e tra i politici, compreso lo stesso Temer, più volte sull’orlo dell’impeachment ma mantenuto precariamente in sella fino a fine mandato da interessi convergenti delle lobbies che avevano architettato il golpe bianco. Tutti questi fattori, uniti all’incremento delle fake news sulle reti sociali, hanno accresciuto un vuoto politico, una voragine che si è trascinata fino alle ultime elezioni.

Solo il PT all’inizio della campagna elettorale poteva contare su un vero leader politico, Lula, peraltro appesantito dall’età, 73 anni, dai due mandati già vissuti, dalla morte recente della moglie Marisa (donna forte di origini popolari, per molti vittima fino alle estreme conseguenze fisiche a livello emotivo delle accuse di corruzione di cui Lula e famiglia sono stati oggetto negli ultimi anni), da due tumori alla tiroide (poi superati). E soprattutto dalle accuse e successive indagini dell’operazione Lava Jato, per il teorema di corruzione di stato diffusa durante i mandati presidenziali. Lula è sottoposto attualmente a ben otto processi, di cui uno, per la peraltro mai provata utilizzazione di un attico a Guaruja, litorale di San Paolo, suppostamente ricevuto come tangente per agevolazioni offerte a imprese brasiliane in alcuni appalti pubblici. Tale accusa ha portato alla condanna in secondo grado di Lula a oltre dodici anni di carcere, pena imposta fulmineamente dall’aprile 2018, con interpretazioni giuridiche e procedure ad personam, rivolte a tagliarlo fuori dalla corsa presidenziale, come ampiamente e ripetutamente documentato da pareri di giuristi indipendenti. Ciò nonostante Lula ha goduto fino all’ultimo nei sondaggi del 39% delle intenzioni di voto e se non gli fosse stato impedito di disputare le elezioni le avrebbe molto probabilmente rivinte.

 

Alle elite piace vincere facile

Con un panorama desolante in campo politico, in mancanza di figure di prestigio o comunque presentabili alle elezioni presidenziali di fine 2018, diventava relativamente facile occupare una sorta di prateria mediatica ed elettorale, proporre/imporre figure nuove, per quanto “originali”. Inizialmente fu tentata la carta di un noto presentatore televisivo, Luciano Huck, il quale però rinunciò quasi subito. Il PT non sembrava in grado di offrire alternative di spessore a Lula e comunque pagava la generale opposizione a tutto quanto già visto e vissuto nel paese, la principale causa del successo di Bolsonaro, da molti – forse dalla maggioranza degli elettori, che non sono radicali di stampo fascistoide – scelto a prescindere, nel senso di votare qualcuno che non rappresentasse le forze che avevano governato dell’ultimo decennio. Così è spuntato Bolsonaro, inizialmente sottovalutato da tutti.

Difficile comprendere la fulminea crescita di un candidato di un partito minuscolo, il PSL (Partido Social Liberal), insignificante anche in termini di tradizioni politiche. Bolsonaro è stato strategicamente risparmiato in campagna elettorale dal suo staff, non partecipando a dibattiti televisivi e in parte nemmeno a comizi, in quanto ritenuto dai suoi stessi sponsor incapace di gestire e reggere uno scambio di opinioni razionale, interviste/conferenze stampa su temi di gestione pubblica. In questo senso è stato a dir poco strategico, comunque provvidenziale, l’attentato subito in settembre in piena campagna elettorale, con una pugnalata all’addome ricevuta da un supposto militante del PT durante un comizio. Episodio anch’esso poco chiaro ma che ha contribuito a far aumentate i consensi di Bolsonaro e a evitargli imbarazzi o probabili gaffe nei dibattiti pubblici.

Come detto, nulla avviene per caso! L’ex capitano ha ricevuto l’appoggio di tre importanti e strategici segmenti della società brasiliana:

1) L’unico vero settore che negli ultimi decenni si è dedicato in modo “professionale” ad “educare” e formare la gente più semplice, spesso più povera: le chiese evangeliche, o meglio, le sette religiose di tipo salvifico, alienante, iper-conservatore. Il PT non aveva mai avuto una penetrazione tanto capillare nella società, pur godendo nei decenni scorsi dell’appoggio delle CEBs (Comunità Ecclesiali di Base), movimenti sociali della chiesa cattolica schierati in campo sociale già all’epoca della dittatura e con una visione di… sinistra, rifluiti poi a causa dei cambiamenti storici e dei pontificati di Woityla e Ratzinger. Non è più stato fatto alcun investimento nella formazione di movimenti sociali, sindacati, basi di partito con una visione progressista della società (salvo che per i già citati MST ed MTST). Le chiese evangeliche hanno oggi un potere enorme, economico e mediatico, occupano il 30% della programmazione televisiva, controllano mezzi di comunicazione di ogni tipo, propongono un modello di società caratterizzato dall’individualismo, spesso alienante e superficiale, dove viene insegnato che irmao vota em irmao (fratello vota per il fratello…), indirizzando i temi sociali e politici verso un arcaico moralismo conservatore. Queste chiese sono cresciute del 60% negli ultimi anni e infatti Bolsonaro, cattolico, ha pensato bene di cavalcare l’onda fondamentalista e di farsi ri-battezzare in Israele da un pastore evangelico…

2) Una delle più importanti basi di appoggio di Bolsonaro, inizialmente snobbato dagli stessi militari in quanto poco espressivo e troppo radicale, è un segmento della polizia militare nostalgico dei tempi della dittatura, quando si godeva di privilegi di stampo medievale, dove i media erano sotto controllo e nessun crimine o atrocità veniva rivelato, in un contesto di totale impunità e immunità. E’ possibile, come il presidente eletto sottolinea spesso nelle interviste, che possa essere sdoganata a breve la licenza di uccidere e il porto d’armi free…

3) Altro segmento strategico di sostegno a Bolsonaro è diventata quella parte di élite brasiliana che mal sopporta limitazione legali o amministrative per arginare corruzione e abusi, basti pensare all’agrobusiness, agli OGM, allo sfruttamento minerario dell’Amazzonia, che avviene quasi sempre illegalmente e in modo predatorio, frequentemente dentro riserve indigene. Si vorrebbe ristabilire addirittura una zona franca legale sullo sfruttamento del lavoro schiavo, prassi ancora esistente nel terzo millennio in zone rurali del nord e nordest del paese, sul rispetto di criteri ambientali, sui diritti umani, sul possesso delle terre demarcate di indios e di comunità quilombolas (discendenti degli schiavi negri del periodo coloniale). Oltre a criminalizzare i movimenti sociali più organizzati nel difendere la terra e rivendicare la riforma agraria (MST) o i senza tetto (MTST), snobbare la difesa dell’ambiente, o le diversità etniche, religiose, sessuali.

Da non dimenticare infine il decisivo ruolo esercitato dalla lobby dei social network, monitorati e organizzati, di provenienza USA. Milioni di messaggi twitter e whatsapp a contenuto a volte grossolanamente falso sono stati mandati a mitraglia ogni giorno durante gli ultimi mesi di campagna elettorale a circa 120 milioni di elettori brasiliani e su questo è in corso un’indagine giudiziaria. Con l’appoggio dell’inquietante e oscura figura di Steve Bannon, consulente di Trump nelle elezioni USA e dei movimenti antieuropei britannici in occasione del referendum che ha portato alla Brexit. Bannon, esperto di marketing elettorale, famoso per l’utilizzo massiccio di social network e fake news, è intervenuto a gamba tesa nella disputa elettorale brasiliana, riuscendo a condizionare umori e scelte con strategie di manipolazione emotiva dei consumatori-elettori partendo dall’acquisizione di profili individuali ottenuti tramite reti sociali come Facebook e utilizzando algoritmi per elaborare strategie comunicative ad hoc, per “vendere” il candidato ideale. In Brasile e non solo giustizia e tribunali non sono ancora attrezzati per combattere questo genere di attacchi alla libertà – diciamo così – di pensiero…

«O Brasil acima de todos, Deus acima de tudo» («Il Brasile sopra tutti, Dio sopra tutto»), il mantra-progetto politico di Bolsonaro

Un sorprendente 64% di consenso popolare a inizio mandato semplifica la tradizionale luna di miele tra il governo entrante e la gente. In Brasile poi si ha l’impressione che ben poco di quanto viene denunciato a livello internazionale sui rischi democratici preoccupi realmente le persone, per non parlare dei media mainstream. Per non farsi mancare nulla è comunque già scoppiato uno scandalo che ha colpito Fabricio Queiroz, autista e consulente di Bolsonaro, che ha ricevuto una serie di bonifici sospetti per circa 1,2 milioni di reais (circa 300.000 euro) per spese in nero di campagna elettorale. Oltre a ciò, vi sono almeno altre cinque indagini per corruzione che coinvolgono ministri del nuovo governo. Alcuni, come già avvenuto nel governo Temer, sono  degli “specialisti” nel farsi pescare in reati riguardanti il proprio settore di competenza: il super ministro dell’economia Guedes coinvolto in crimini contro il sistema finanziario, il ministro dell’ambiente Ricardo Salles, reo confesso per frodi nella falsificazione di mappe ambientali in qualità di assessore all’ambiente dello stato di San Paolo, la segretaria dei diritti umani, la pastora evangelica D. Alves, accusata di sfruttamento del personale domestico e dell’adozione illegale di una figlia indigena.

Tra le strategie ipotizzate in politica estera vi sono l’uscita dai Brics (un’istanza di tipo economico-politico riguardante Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, le principali potenze emergenti), in nome di una dichiarata fedeltà e sottomissione agli USA (come ai vecchi e gloriosi tempi della dittatura), la chiusura forzata e improvvisa della collaborazione di lunga data con migliaia di medici cubani, che operavano ad un eccellente livello professionale nelle aree più disagiate e meno assistite del paese, il confronto duro o il boicottaggio dei governi progressisti ancora superstiti in America Latina, a cominciare dal martoriato Venezuela, un’alleanza, anzi una vera fratellanza con Israele e le sue politiche di occupazione in Medio Oriente.

In politica interna come non menzionare il progetto Bolsa estupro, rivolto a regolamentare la materia in fatto di stupri: il violentatore dovrebbe pagare un mensile alla donna violentata che decida di tenere il figlio, mentre si cercherà di forzare la convivenza tra stupratore e vittima.

Come fatti già consumati vi sono l’estinzione degli storici ministeri del Lavoro, dei Diritti Umani, dello Sviluppo Agrario, della Cultura, soppressione o come minimo normalizzazione della Funai, l’ente deputato alla questione indigena, attualmente in forza al ministero della Giustizia, che già di suo era scarsamente influente nelle politiche pubbliche. E sospendere qualunque demarcazione di terre indigene, ubbidendo a pretese decennali delle violente lobbie rurali e minerarie.

In campo ambientale si segnala l’uscita dagli accordi di Parigi, copiando quanto già sancito dal governo Trump, dichiarando falsi e tendenziosi gli studi internazionali con indicatori drammatici sui cambiamenti climatici, con il conseguente ritorno allo sfruttamento intensivo delle risorse amazzoniche, oltre al rifiuto del Brasile di organizzare un prossimo evento in agenda sul tema. La teoria di Bolsonaro sul riscaldamento globale è che si tratti di un complotto marxista ideato ad arte per limitare il potere degli stati nazionali… In realtà inizialmente l’intenzione era di eliminare del tutto il Ministero dell’Ambiente, poi a fronte delle proteste interne ed estere Bolsonaro ha optato per la nomina provocatoria della già citata figura di Salles, pluricondannato per crimini ambientali. Alla recente conferenza ONU di Katovice in Polonia  il Brasile ha “vinto” l’ironico premio di fossile del giorno, per il citato diniego di ospitare futuri eventi mondiali ambientali.

Chiosando un commento in sede di insediamento del governo, lo storico leader del Movimento Sem Terra, MST, Joao Pedro Stedile, ha commentato: «Il nuovo governo non ha nessun progetto di sviluppo, nemmeno di tipo liberista, ma sarà completamente succube di banche, multinazionali, privatizzazioni. Basti vedere la storia pregressa dei ministri e dei loro Chicago’s boys».

In termini più empatici, on the road, parrebbe che non sia possibile utilizzare argomenti “normali”, razionali e di buon senso, in discussioni informali su Bolsonaro. Le elezioni hanno visto prevalere, non da oggi e non solo in Brasile, elementi che toccano tutt’altre corde, emotive o di bisogni primari, con strategie di marketing che utilizzano profili catturati dai social network e con l’aiuto di sofisticati algoritmi fabbricano e “vendono” il prodotto candidato. Un interessante e scanzonato video ha circolato a lungo in Brasile in questi mesi su questo tema. Il titolo: Tua zia non è fascista, sottolinea con linguaggio accessibile come persino nelle famiglie della gente più semplice o in gruppi sociali caratterizzati da tradizioni di solidarietà mutua nella vita quotidiana, il fenomeno Bolsonaro sia penetrato in profondità, facendo leva su emozioni e sentimenti non razionali. Io stesso, in loco, constato questo fenomeno ogni giorno, con la difficoltà, a volte l’impossibilità, se si vogliono mantenere relazioni di amicizia di lunga data, di scambiare opinioni politiche sulla situazione in modo lucido e ponderato…

 E adesso che si fa?

Dopo un tentativo in campagna elettorale promosso da milioni di donne brasiliane, dal titolo Ele nao! (Lui no!), che ha cercato di informare la popolazione sui rischi democratici e dei diritti civili relativi all’elezione di Bolsonaro e che, come spesso avviene, è stato più visibile all’estero che in patria, i principali movimenti sociali del paese sono scesi sul piede di guerra promuovendo marce, raccolte di firme, denunce internazionali, per arginare un governo considerato fascista. Il PT e il Psol (altra forza di sinistra) hanno boicottato la tradizionale simbolica presenza a Brasilia alla posse (insediamento) del nuovo presidente, anche per reiterare la denuncia della non regolarità del processo elettorale che ha impedito la partecipazione di Lula, tuttora in carcere a Curitiba.

Il dubbio è se tutto ciò possa effettivamente costituire un piano efficace di opposizione al nuovo governo ed agli interessi più o meno occulti che lo sostengono. Alcuni osservatori ritengono che la sinistra brasiliana non parli più la lingua delle periferie. I poveri, qui come ad altre latitudini, hanno votato per il progetto dei ricchi… Molti intellettuali e politici si riempiono la bocca di discorsi e linguaggi infarciti di espressioni come “popolo” e “diritti umani” ma non dedicano un minuto di tempo a visitare le favelas, gli slums periferici popolati di baracche precarie, le aree rurali o indigene isolate. Il contesto internazionale sicuramente non aiuta, come in Europa, negli USA, nel mondo si constata ogni giorno. Il PT dovrebbe rifondarsi, compiere una sana e purificatrice autocritica. Le forze popolari ritornare al lavoro di base che tanto importante è stato negli anni successivi alla dittatura militare. Il movimento progressista ridisegnare un progetto sociale e politico coerente e realizzabile, che tenga conto delle moderne tecnologie comunicative e che valorizzi e riproponga valori etici di inclusione sociale.

In caso contrario è probabile che in un Brasile che vuole uscire dai già edulcorati accordi sul clima di Parigi per la riduzione dell’inquinamento e della temperatura globale, si prospetti un’epoca di riscaldamento degli istinti più primitivi e dell’effetto serra dei diritti umani…


Fonti: oltre a commenti ottenuti in conversazioni di esponenti politici nazionali con l’autore in Brasile nel periodo dic-gen 2018-‘19, diversi dati sono tratti da articoli e studi usciti negli ultimi mesi sulla stampa brasiliana: analisi di Frei Betto, servizio stampa del PT e della presidenza della repubblica, quotidiani, settimanali, in versione cartacea o online, tra cui Carta Capital, Piauì, Isto è, Le Monde Diplomatique Brasil, Folha de Sao Paulo, O Estado de Sao Paulo, Estado de Minas, O Tempo

1 commento
  1. Massimo
    Massimo dice:

    Articolo impeccabile, nella forma e nel contenuto, imparziale, completo, etico… Per caso, mi è capitato di leggerlo e noto che l'autore, Gigi Eusebi,, ha scritto un bellissimo e drammatico ibro, "Il genocidio Yanomami", che ho appena ripescato (comprato nel '92) nella mia piccola biblioteca. Tutta la mia stima per l'autore
    ([email protected]

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.